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Che fare n.78 maggio - ottobre  2013

Acque agitate nelle relazioni internazionali in Asia

IV. La parola ai nostri fratelli di classe in Cina, i lavoratori cinesi

Nei numeri precedenti del nostro giornale abbiamo cercato di ricostruire e enunciare lo scontro che si sta preparando in Asia tra le potenze imperialiste e la Cina.

Di fronte a questo scontro, come si stanno schierando i lavoratori dei cinque continenti, che ne sono il bersaglio e la posta in gioco principali?

Anticipiamo la nostra (non impressionistica) conclusione: la catena di guerre che si prepara in Estremo Oriente s’intreccerà con l’esplosione di acute lotte di classe, in Asia e in Occidente; in tali lotte, i lavoratori saranno costretti a separarsi dalle politiche delle rispettive borghesie e ad affrontare il problema della formazione di una propria organizzazione internazionale. Ancora una

volta, come nel tremendo trentennio 1914-1939, i lavoratori, l’umanità tutta, si troveranno davanti al bivio: o socialismo o barbarie!

Nella nostra attività militante contro l’offensiva antiproletaria del capitale e dei suoi governi, noi comunisti dell’Oci guardiamo a questo orizzonte a lungo termine.

Il punto di partenza è (lo sappiamo bene anche grazie a questa attività) ben diverso. Oggi nei cinque continenti non c’è neanche un’esigua avanguardia proletaria organizzata autonomamente dai padroni e dalle istituzioni borghesi. Noi diciamo: non può esserci.

Cercheremo di discutere materialisticamente le cause dell’enorme arretratezza politica odierna. E cercheremo di mostrare come queste stesse cause si convertiranno in altrettante spinte verso la rottura dei fronti interclassisti oggi imperanti, non allo stesso modo, nei cinque continenti.

Partiamo dalla Cina, dal paese in cui si trova la sezione più consistente del proletariato mondiale, ben il 30% del nostro esercito di classe. Ci aiuteremo con il racconto della vita di un giovane operaio cinese, Xin, conosciuto attraverso la lettura di una bella raccolta di saggi della ricercatrice cinese Pun Ngai pubblicata in italiano nel 2012. Il volume si intitola Cina, la società armoniosa.

Sfruttamento e resistenza degli operai migranti. È edito dalla Jaca Book (Milano, 2012, 20 euro) e ne citeremo alcuni passaggi riportando direttamente l’indicazione delle pagine.

Nelle prossime puntate vedremo come l’esperienza del proletariato cinese si sta intrecciando e potrà intrecciarsi con quella del proletariato dell’Europa e degli Usa.

 

Xin è nato nel 1977, alla vigilia delle riforme di Deng, in un villaggio dello Hunan di duecento famiglie. All’inizio del 2007 era un operaio stampatore specializzato in una fabbrica fornitrice della Disney situata a Shenzen. Uno dei 150 milioni di giovani cinesi che, dalla fine degli anni settanta, si sono trasferiti dalle campagne alle città costiere per lavorare in fabbrica. Xin era un operaiomodello.

Nel 2007 il suo salario, con gli straordinari, arrivava a 280 dollari al mese. Un bel giorno scoprì che la direzione aziendale aveva deciso di delocalizzare la produzione fuori da Shenzen per ridurre i costi di produzione. (Costi di produzione, costi di produzione, il vangelo del capitale...) Insieme a un gruppo di compagni di lavoro, Xin promosse una vertenza che ha portato alla luce del sole il germoglio che stava e sta maturando nella sua coscienza e in quella della giovane classe operaia cinese. Per meglio metterlo a fuoco, facciamo un piccolo passo indietro, agli anni novanta, agli anni in cui Xin, terminata la scuola superiore, cominciò ad allenarsi per superare il test di ingresso all’università e per avere accesso, attraverso la laurea, a un posto remunerativo di quadro o dirigente nell’apparato statale o in un’impresa privata.

Xin non riuscì a superare il test e nel 1998 decise di andare a lavorare a Shenzen come aveva già fatto, quattro anni prima, la sorella, anche per racimolare qualche risparmio e permettere a Xin di studiare al villaggio in vista dell’esame. Con l’aiuto di un compaesano, Xin trovò lavoro in una fabbrica di convertitori per antenne tv.

Orario di lavoro: dalle sette del mattino alle undici di sera con una pausa di mezz’ora per il pranzo. Dopo una settimana fu licenziato senza ricevere alcun salario, probabilmente perché il sorvegliante aveva notato la sua ritrosia ad accettare supinamente il dispotismo aziendale. “In quei giorni non avevo il permesso di residenza temporanea; vagabondavo per le strade, con la paura di camminare nelle vie principali”, ha raccontato più tardi Xin.

La prima fase delle riforme di Deng: le campagne

In Cina chi nasce nelle campagne non può trasferirsi in città. Può farlo solo temporaneamente e solo   condizione di avere un contratto di lavoro scritto. In assenza del permesso di residenza temporanea, una persona è clandestina e non può usufruire dei servizi sociali, ad esempio delle cure mediche pubbliche, riconosciute invece ai residenti, anche operai, urbani.

Dopo una ventina di giorni Xin trovò un nuovo lavoro. Passarono due anni, e nel 2000 (la Cina stava per entrare nell’Organizzazione per il Commercio Mondiale) Xin decise di tornare al suo paese natale. “Anche se avevo lavorato duro ogni giorno, nel luogo di lavoro non venivo trattato come un essere umano. Non vedevo alcun futuro per me nella città”. Anche questa volta, il passo compiuto da Xin fu quello di tanti altri emigrati, almeno il 20%. Aveva messo da parte un gruzzoletto (alcune migliaia di yuan, alcune centinaia di dollari) e progettò di avviare un’attività indipendente nel paese natale mettendo a frutto le regole di funzionamento dell’economia introdotte dall’epoca di Deng.

Iniziate alla fine degli anni settanta, le riforme di Deng si concentrarono prima di tutto sulle campagne. La terra non fu più coltivata in comune dalle famiglie contadine del villaggio e i raccolti non furono più controllati centralisticamente attraverso il piano statale. La terra del villaggio fu concessa in gestione alle famiglie con l’obbligo di rivendere a prezzi controllati una quota dei raccolti allo stato (che li avrebbe rivenduti nelle città) e con il diritto di disporre liberamente della parte eccedente. Le famiglie contadine, individualmente o associate, potevano, inoltre, investire in attività industriali locali. I prezzi controllati delle derrate agricole furono via via ritoccati in favore dei contadini.

Questa svolta nella vita rurale cinese portò alla diffusione nelle campagne di piccole imprese capitalistiche, al rapido miglioramento dell’efficienza agricola, all’aumento della produzione cerealicola, alla specializzazione produttiva, al miglioramento delle condizioni di vita nelle campagne, all’accumulazione di gruzzoletti, alla diffusione dello spirito di intrapresa capitalistica(1).

“Quando sono tornato a casa nel marzo del 2000 -ha raccontato più tardi Xin- era il tempo della semina per l’anno successivo. Ero eccitato, perché avevo in mente un grande progetto. Ho sub-affittato un pezzo di terreno incolto per avviare un’attività agricola, e non riuscivo a dormire la notte perché ero ossessionato dall’idea che, se fossi riuscito ad aumentare il livello di produzione dei prodotti agricoli destinati al mercato, avrei potuto anche guadagnare dei soldi”.

L’estensione del lotto affittato era di 1334 metri quadrati. Xin riuscì a dotarsi dei trattori e a assoldare alcuni braccianti. Dopo aver condotto un’indagine sul mercato locale, Xin decise di piantare angurie. L’impresa fallì. Come stavano fallendo e sarebbero fallite la stragrande maggioranza (almeno il 95%) delle imprese degli altri Xin tornati nei villaggi per sfuggire alla durezza della vita industriale avviando una piccola azienda capitalistica.

Il periodo in cui le riforme denghiste permettevano l’arricchimento delle famiglie contadine era finito. Anche i documenti ufficiali stavano registrando il peggioramento delle condizioni di vita nelle campagne, la polarizzazione della popolazione tra un settore benestante e un settore impoverito, l’accentramento dei mezzi di produzione nelle mani di una fetta ristretta dei contadini, spesso legata con la direzione locale del partito e delle istituzioni statali.

Era giunto il momento, ben inquadrato dalla teoria marxista dello sviluppo capitalistico, in cui la falce della centralizzazione capitalistica seleziona le imprese, conduce alla modernizzazione di quelle capaci di sopravvivere, trasforma i proprietari di quelle in perdita in proletari, aspira i frutti del lavoro dei contadini privati verso gli investimenti agricoli specializzati o industriali (locali o costieri). Su questo processo in corso nelle campagne cinesi racconta alcune emblematiche cronache un libro del 2004 di due studiosi cinesi, Chen G. e Wu C. (8 milioni di copie in Cina). Il titolo dell’edizione italiana (2007) recita: Può la barca affondare l’acqua?Vita dei contadini cinesi (Marsilio, Venezia, 2007).

La ricerca dà un volto ai protagonisti della rapina espropriatrice dei contadini e della canalizzazione delle ricchezze tratte dal lavoro agricolo verso le più remunerative attività industriali: sono i funzionari del partito comunista locale, i capi-villaggio, i quadri dell’apparato statale, di cui i due sociologi denunciano l’avidità, il cinismo, la corruzione, l’arroganza.

Pur implicitamente e in parziale contrasto con la tesi degli autori, dai racconti di Chen e di Wu emerge anche che la forza motrice di questa epocale trasformazione, di queste “nobili” qualità umane e dell’emigrazione di massa di contadini impoveriti verso la fascia costiera è lo sviluppo capitalistico della Cina, è il turbine del mercato mondiale, è il dispiegamento del profitto come fine esclusivo dell’attività economica, è la scarsa competitività dell’azienda contadina parcellare di fronte a quella fondata sul lavoro associato i concimi e i mezzi meccanici, della piccola coltivazione cerealicola di fronte a quella ortofrutticola e agricolo-industriale.

La seconda fase delle riforme di Deng: lo sviluppo industriale costiero

La formazione di un’enorme sovrappopolazione nelle campagne corrispose al decollo della seconda fase delle riforme di Deng, quella aperta dal viaggio di Deng del 1992 nel sud del paese, quella avente il suo baricentro nelle città industriali della fascia costiera (tra cui Shenzhen), quella che ha trovato il suo carburante principale negli immigrati ex contadini in arrivo dalle campagne.

Dal 2000, dopo il fallimento della sua impresetta di angurie, tra loro vi era di nuovo anche Xin, convinto dal padre a tornare in città: “Gentile, laborioso, forse un po’ testardo (come peraltro molti altri agricoltori della sua età), il padre di Xin, che ora ha 56 anni, era un tipico nongmin [contadino], che per tutta la vita aveva lavorato la terra per sostenere la famiglia. Conosceva il territorio e il villaggio e riteneva che non vi fosse modo di sfuggire alla povertà rimanendo a lavorare la terra e dipendendo dalle coltivazioni” (p.62). Questa volta Xin trovò un’occupazione meno saltuaria di quelle precedenti nel settore dei giocattoli per la Disney, dove lo abbiamo incontrato all’inizio del nostro racconto. Questa volta l’esperienza di Xin s’incontrò con un nuovo frutto dello sviluppo capitalistico cinese: l’inizio, dal 2003, delle lotte della nuova classe operaia cinese.

Di solito si ritiene che lo sviluppo della piattaforma industriale cinese degli ultimi vent’anni sia stato il frutto della decisione delle multinazionali di super-sfruttare il vasto serbatoio della manodopera cinese per riprendersi dalla crisi generale iniziata nel 1973 e conquistare un’arma di ricatto verso la (allora) combattiva e organizzata classe operaia occidentale.

Questa spinta è stata, certamente, una delle cause dello sviluppo capitalistico cinese. Ma non è stata l’unica. Essa si è incontrata (in un matrimonio d’interesse a termine: v. che fare n.76 maggio 2012) con altre due spinte: quella della rete rappresentativa degli interessi del capitale nazionale cinese, condensata nella direzione del partito comunista cinese e dell’apparato statale cinese; quella delle masse lavoratrici rurali cinesi, degli Xin che non si sono arresi al regresso che stavano subendo nelle campagne dopo la fioritura degli anni ottanta, che hanno cercato nelle città l’ambiente per migliorare la loro vita e, nel caso delle ragazze, per sfuggire al patriarcalismo delle campagne (2). L’ondata di scioperi operai iniziata nel 2003 conferma questa valutazione del sentimento con cui, negli anni precedenti, Xin e i suoi colleghi si erano separati dalle campagne. Con tali scioperi non siamo più in presenza delle lotte contro la ristrutturazione delle aziende di stato, che avevano segnato gli anni precedenti e di cui era stata protagonista la classe operaia formata durante il periodo maoista. Siamo in presenza di lotte per rivendicare aumenti salariali, il rispetto della legislazione sul lavoro in materia di contratti e di buonuscite, un limite al super-sfruttamento indiscriminato. Esse sono favorite dalla riduzione della sovrabbondanza dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda da parte delle imprese (3).

I protagonisti di questa nuova fase di lotte sono i nuovi operai ex-contadini, spesso operaie poco più che ventenni. La rappresenta bene la lotta scoppiata nel 2004 nella fabbrica chiamata dalla Pun Ngai “fabbrica A”.

Negli anni successivi gli scioperi operai hanno dilagato, i lavoratori hanno approfittato della crescente “penuria di manodopera” per passare da un’impresa all’altra, o da una città all’altra, alla ricerca delle occasioni di impiego migliore. Questa situazione complessiva ha permesso ai lavoratori di strappare significativi miglioramenti. Il Global wage report 2012/2013 dell’International Labour Organisation informa che tra il 2002 e il 2012 i salari cinesi sono triplicati. A Shanghai sono quadruplicati.

Di fronte a questa evoluzione, nel 2006-2007 il governo ha predisposto una nuova legge sul lavoro. Pur mutilata dall’opposizione delle multinazionali e degli stati democratici di Occidente, il nuovo codice del lavoro ha introdotto alcune tutele contro la precarietà e il supersfruttamento e ha incoraggiato la diffusione delle vertenze operaie, come lo sciopero alla Honda del 2010 e i recenti scioperi alla Foxconn.

Le imprese non hanno accettato di cedere davanti a questa pressione rivendicativa senza colpo ferire. C’è chi ha delocalizzato e sta delocalizzando verso le regioni interne della Cina. C’è chi delocalizza e sta delocalizzando verso il Vietnam e gli altri paesi del Sud-Est asiatico segnati ancora da salari bassissimi. C’è chi, tra cui la Foxconn, ha iniziato a introdurre macchinari più avanzati e robot (un milione in tre anni dal 2012 alla Foxconn). C’è chi appalta l’ingaggio della manodopera alle proliferanti agenzie interinali, così da scaricare su queste ultime il problema della gestione del rapporto di lavoro. Anche l’azienda in cui lavora Xin è nel mazzo di questi capitani d’industria coraggiosi. Nel 2007, per contenere i costi salariali, essa decide di spostare la fabbrica verso un prato verde fuori Shenzhen. Ancora una volta Xin è uno e tantissimi.

L’incertezza del futuro di un lavoratore sempre rimpiazzabile

Egli non può tornare indietro, a fare il contadino. Non può diventare capitalista: il vortice del mercato nazionale e mondiale lo consente solo a una piccola (pur se ancora significativa) percentuale di cinesi. È in una trappola, come riconosce egli stesso. E da questa trappola non si può uscire che organizzando la lotta proletaria, che puntando a strappare non solo il blocco della decisione aziendale di delocalizzare ma un ombrello protettivo per chi è destinato a rimanere operaio a vita. Sprizzano scintille di coscienza nella nuova classe operaia cinese. Ecco come le esprime Huang, uno dei compagni di Xin: “Noi siamo il piccolo nucleo di operai specializzati della fabbrica. Io guadagno circa 400 yuan (514 dollari), che non è proprio nulla, e quindi non devo preoccuparmi di avere da mangiare; però a noi manca il senso di sicurezza, e inoltre non abbiamo una considerazione accettabile di noi stessi: nonostante abbiamo consumato la nostra giovinezza e il nostro sudore a Shenzhen, siamo stati spostati da un luogo all’altro e siamo sostituibili in ogni momento. Quando invecchiamo, contraiamo malattie professionali croniche e ci ritiriamo a casa, come possiamo andare avanti senza una pensione di anzianità e un’assicurazione sulla salute?” (p. 69). Ci piace riportare anche il commento dell’autrice della ricerca, Pun Ngai: “Huang chiariva di non essere insoddisfatto delle sue condizioni di lavoro o del suo salario: quello che lo preoccupava era il futuro, la prospettiva di un’assenza di sicurezza e di dignità. Come lavoratore sempre rimpiazzabile, egli era consapevole della sua posizione di vulnerabilità. [...] I cinque operai [protagonisti dell’organizzazione della protesta, n.] sentivano di non avere altra scelta se non quella di intraprendere un’azione di protesta e di rivendicazione. A metà del loro quarto decennio di vita tutti avevano raggiunto il livello più alto del loro avanzamento di carriera, e quello che li attendeva era un inevitabile declino e la probabile sostituzione con operai più giovani; infatti tutti sapevano che le competenze da loro acquisite potevano essere imparate anche da altri. Perciò, imprigionati nel limbo di una situazione senza possibilità di tornare indietro o di progredire, erano pronti a intraprendere azioni radicali, l’obiettivo delle quali si spostò dalla direzione della fabbrica al governo locale” (p. 70).

Pun Ngai racconta come ha preso forma questa coscienza, il ruolo delle trasmissioni radio ufficiali sulle tutele dei lavoratori previste dalla legge ascoltate durante la notte nel dormitorio comune, trasformato da ghetto in luogo di organizzazione proletaria, gli incontri con le autorità locali, gli scioperi, le discussioni tra compagni di lavoro, fino al viaggio a Pechino per cercare udienza nelle alte sfere dello stato e del partito e del sindacato ufficiale. La vertenza andò avanti per più di un anno. La storia non racconta come finì la corsa, cioè la vertenza. Ma possiamo indovinare il risultato più importante che essa ha sedimentato e che non sarà perduto.

I protagonisti lo hanno espresso con queste parole: “far rivolgere l’attenzione sulla durezza della vita del lavoratore”, “cercare giustizia per i dagongzai”. Questo risultato sta a indicare che i lavoratori si stanno organizzando in un esercito di classe autonomo dal partito comunista cinese, dallo stato cinese e dal capitale nazionale? Non lo pensiamo e su questo ci troviamo in disaccordo con quanto sostenuto dall’autrice della ricerca. 

I lavoratori cinesi e lo sviluppo capitalistico della Cina

I lavoratori cinesi si riconoscono nel percorso di crescita capitalistica del loro paese, ritengono di poter migliorare la loro condizione insieme con quella del capitale nazionale.

Perché dovrebbero vederla diversamente? Ai loro occhi il capitalismo si è rivelato un sistema economico efficace: gestito alla maniera cinese, esso ha permesso al popolo cinese di sollevarsi dalla povertà e dalle umiliazioni cui lo avevano condotto la vecchia classe dirigente e il colonialismo.

Secondo un’inchiesta di Martin K. White (docente di sociologia a Harvard), il 60% del campione statistico scelto si è mostrato convinto che l’ondata crescente di sviluppo economico sta sollevando tutte le barche, anche se non con la stessa velocità, e si è detto sicuro che nel giro di cinque anni la propria famiglia sarebbe stata meglio (4). La massa dei lavoratori cinesi, soprattutto quella più giovane (una consistente fetta dei quali si trova ancora nello stato di atomizzazione soggettiva caratteristica dello stadio di formazione di un nuovo reparto dell’esercito di classe), condivide questa visione. Non perché sia convinta di vivere in una società socialista. Ammette che il tornaconto personale è la molla della vita economica e delle relazioni sociali in Cina. Riconosce che questo meccanismo sta conducendo alla separazione della società in ricchi e poveri. Riconosce altresì in modo altrettanto netto che anche i lavoratori non sono perdenti.

Credono che anche i proletari, se continuerà l’alta marea nella crescita economica nazionale, potranno sollevare la loro famigliare barchetta. O avviando, prima o poi, una impresa, commerciale o industriale, e tirandosi fuori dalla condizione proletaria. Oppure, quando e finché si è inchiodati alla condizione proletaria, cercando di riequilibrare la bilancia sociale a favore dei lavoratori. Talvolta lo pretendono con la lotta, più spesso con vertenze legali, generalmente cambiando azienda o città alla ricerca dell’offerta di lavoro migliore mossi dall’istinto di volgere a proprio favore la “penuria di manodopera” registrata in Cina da un decennio. Aspirano al pagamento regolare dei salari previsti per legge, a un aumento dei salari, all’accesso al sistema sanitario e alla previdenza sociale, ad una più equa ripartizione della ricchezza. In queste iniziative ritengono di poter parzialmente contare, contro l’avidità e la corruzione dei funzionari-capitalisti locali e delle direzioni aziendali, nelle autorità centrali di Pechino, verso cui, come è accaduto con Xin, si organizzano viaggi per far valere le proprie ragioni.

La borghesia cinese, che si trova in una situazione economica e sociale simile a quella delle borghesie occidentali dell’inizio del XX secolo, sta cercando di incanalare questa istanza proletaria, suscitata spontaneamente dai rapporti sociali capitalistici interni alla Cina e internazionali, dietro la bandiera dell’ascesa della superpotenza cinese, della conquista del mondo da parte del dragone capitalistico cinese. A tal fine i vertici del partito comunista cinese e dello stato cinese stanno ricalibrando la loro agenda sociale secondo linee dettate anche dalle esigenze intrinseche dell’accumulazione capitalistica, impossibilitata a contare sull’espansione estensiva.

A giustificazione e legittimazione di questa politica i vertici del partito comunista cinese e dello stato cinese stanno riciclando la tradizione ideologica della “Grande Armonia” e del “Mandato Celeste”.

La massa proletaria cinese, profondamente divisa tra la sua componente urbana e quella immigrata-rurale, è sensibile alla prospettiva socialimperialista offerta dai propri vertici statali. Nel n. 50-2010 della rivista Aspenia (Gruppo24ore) dal titolo “La Cina post-americana” è riportato un sondaggio sul livello di soddisfazione della gente verso la propria “classe dirigente” in alcuni paesi. Dal 2002 al 2009 questo livello è passato in Cina dal 48% all’87%, il più alto al mondo. Negli Usa siamo al 37%, in Germania al 50%. Questo consenso è rivolto anche al versante militare della politica della “classe dirigente” cinese, ad esempio, all’incremento delle spese belliche per costruire una marina capace di difendere gli interessi della nazione cinese nel mar Cinese dall’accerchiamento occidentale.

È difficile che i lavoratori cinesi possano separarsi dalla politica della propria borghesia e incrinare la loro fiducia nel capitalismo (seppur temperato da una redistribuzione della ricchezza) prima di avere sperimentato sulla propria pelle, attraverso gli effetti delle vicende belliche che si preparano, le conseguenze del sogno della restaurazione su basi capitalistiche dell’egemonia dell’impero di mezzo. Il gong delle guerra non mancherà, però, di suonare.

Una delle vie attraverso cui potrebbe maturare, sul piano ideologico-politico, la frattura dell’unità interclassista in Cina è quella della re-interpretazione in chiave eversiva della tradizione della “Grande Armonia” e del “Mandato celeste”. Questa volta il ritiro del “Mandato Celeste” all’attuale “classe dirigente” cinese non porterà all’”eterno ritorno”, come ciancia fior di sinologhi. Questa volta sarà l’annuncio della rivoluzione proletaria internazionale, dell’ingresso dell’intero pianeta e non solo della Cina in un’altra era di rivoluzioni proletarie, la seconda dopo quella (sconfitta) del primo dopoguerra.

È promettente, in vista di questa svolta nella storia mondiale, che la parte più combattiva e lungimirante del proletariato industriale cinese cominci a lottare e a pensare a sé come parte distinta della nazione pur se ancora come classe nazionale. Che manifesti apertamente sentimenti verso la crescita capitalistica del paese differenti da quelli dei connazionali arricchiti, dei ceti medi rampanti e dei papaveri rossi.

Agli Xin, con cui, per ora, non abbiamo contatti diretti, ci permetteremmo, nel sostenerne da comunisti internazionalisti le lotte rivendicative, di far notare che nel futuro di cui si preoccupano non ci sono solo i diritti salariali e sindacali, ma c’è anche la politica estera, ci sono le conseguenze dell’ascesa della Cina nelle relazioni internazionali, c’è il tentativo degli Usa di mettere in concorrenza i proletari cinesi con quelli degli altri paesi asiatici, c’è la convergenza, più o meno consapevole, delle borghesie asiatiche, quella cinese compresa, ad assecondare questa lurida manovra.

In questo percorso, che sarà un calvario, e nel quale la lotta per riformare la “Grande Armonia” capitalistica cinese e volgerla a vantaggio operaio sarà la via per giungere alla conclusione che è il sistema capitalistico a dover essere distrutto, è vitale che si avvii anche la parallela separazione politica dalle proprie borghesie dei lavoratori europei e statunitensi. Di questo intreccio tra l’Oriente e l’Occidente sul versante proletario parleremo nelle prossime puntate.

[IV. Continua]

 (1) Questa svolta non fu un cambio di rotta rispetto alla marcia verso il socialismo dell’epoca maoista. Sotto la bandiera del maoismo, la Cina indipendente aveva costruito le premesse del successivo sviluppo capitalistico. Su questo tema rimandiamo all’articolo pubblicato sul n.17 del che fare all’indomani della crisi di Tian Amen e ai seguenti materiali sull’Urss la cui chiave interpretativa è perfettamente calzante anche per il “caso cinese”: “Dove va l’Urss?”, “Il Dialogato con Stalin” e “Il Dialogato con i Morti”  Il primo testo può essere scaricato dal nostro sito, gli altri dai siti con gli scritti di Amadeo Bordiga. Tutti e tre i testi possono essere richiesti alle nostre sedi.

(2) Questa volontà di riscatto nazionale e sociale, nella quale la classe operaia in formazione ha fatto sentire la sua voce e i suoi muscoli per forzare tempi e modi dello sviluppo capitalistico cinese, ha trovato nello stato cinese e nel partito comunista cinese gli organi per affermarsi, per autoregolarsi e per evitare di cadere nella brace imperialista, come stava per accadere nel 1989. Era stato così anche durante il periodo maoista, quando sono state realizzate le condizioni preliminari per la modernizzazione capitalistica del paese.

(3) “La «penuria di manodopera» ha fatto la sua comparsa per la prima volta in Cina nel 2003, scardinando la pluridecennale convinzione che le campagne cinesi costituissero un bacino pressoché illimitato di forza lavoro a basso costo, in grado di sostenere la crescita economica ancora per molti anni a venire. Se fino a quel momento il problema principale per i datori di lavoro, cinesi e stranieri, era stato quello di trovare manodopera qualificata, dopo il 2003 anche solamente trovare un numero sufficiente di lavoratori per azionare le catene di montaggio e manovrare i macchinari è diventato un problema, soprattutto nei periodi che precedono e seguono le festività. In molti si sono interrogati sulle ragioni di questa scarsità di manodopera.

Zhang Yi dell’Accademia cinese delle Scienze Sociali, in uno studio pubblicato sul Blue Book of China’s Society 2012, ha elencato sei cause: l’evoluzione della struttura demografica causata dalla politica del figlio unico; il cambiamento strutturale dell’offerta di lavoro, con il numero di lavoratori in possesso del solo diploma di scuola media che sta progressivamente scendendo a fronte di un mercato che continua ad aver bisogno di manodopera con un livello culturale basso; la crescente domanda di manodopera nelle aree menosviluppate, trainata dalla crescita economica delle aree centrali e occidentali del paese; il livello eccessivamente basso dei salari, che non è più in grado di attrarre la forza lavoro [dalla campagne] come un tempo; la progressiva riduzione del divario tra i salari nelle aree costiere e in quelle dell’interno. Se da un lato questa «penuria» costituisce l’ennesima sfida per chi vuole fare impresa in Cina, dall’altro la scarsità di manodopera aumenta notevolmente la forza contrattuale dei lavoratori migranti, i quali di fronte a salari e condizioni di lavoro insoddisfacenti possono scegliere di «votare con i piedi» [cambiando azienda o città o regione]. Inoltre, la competizione tra aree costiere e quelle dell’interno per attrarre forza lavoro si traduce in altre dinamiche favorevoli ai lavoratori, quali ad esempio l’innalzamento generale dei minimi salariali e l’adozione di norme nuove per tutelare il lavoro” (da OrizzonSegue teCina, aprile 2012).

(4) Riprendiamo questa segnalazione da OrizzonteCina, aprile 2012

Che fare n.78 maggio - ottobre  2013

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