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Che fare n.78 maggio - ottobre  2013

La condizione dei lavoratori peggiora.

La svolta può arrivare solo dallo scontro di classe contro il governo Letta e i padroni.

Non temiamolo! 

Non pochi lavoratori avevano sperato che le elezioni del febbraio 2013 servissero ad archiviare le politiche del governo Berlusconi e quelle di Monti. I risultati elettorali sono stati letti come un passo in questa direzione, con la vittoria (pur di misura) del partito democratico e con l’affermazione del MoVimento Cinque Stelle. Si è rimasti delusi, sorpresi e sconcertati quando invece si è formato un nuovo governo di unità nazionale, a guida Letta. Come mai questo esito? E cosa fare per organizzare la difesa degli interessi dei lavoratori contro la politica, interna e internazionale, annunciata dal nuovo esecutivo?

Noi comunisti del “che fare” non irridiamo affatto alle preoccupazioni materiali (la disoccupazione, la precarietà, la spremitura sui posti di lavoro) che hanno spinto i lavoratori a rivolgere le loro speranze alle elezioni del febbraio 2013. È proprio perché, invece, le consideriamo nostre e ci battiamo affinché i lavoratori riescano ad affrontare questa pesante situazione sociale, è per questo che invitiamo a prendere atto che dalle urne non è emersa alcuna svolta a sinistra: dalle urne è emerso lo sbandamento dei lavoratori, il loro indebolimento, il loro accodamento ai programmi dei due principali partiti in cui si divide la borghesia italiana, quello europeista à la Monti e quello  berlusconiano.

Questa nostra tesi può sembrare un paradosso. Guardiamo, però, a come si è arrivati alle elezioni, ai temi della campagna elettorale e agli stessi numeri usciti dalle urne.

Il partito democratico ha sostenuto un programma che condivide i pilastri del programma di Scelta Civica di Monti: rilancio della competitività dell’Azienda-Italia nell’ambito della formazione della potenza mondiale degli Stati Uniti d’Europa, sottomissione degli interessi dei lavoratori e degli  ppressi a questo rilancio, fine della contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati, ristrutturazione  fficientistica  e autoritaria dello stato, collaborazione con i poteri forti capitalistici per  ridimensionare Berlusconi. Non sono forse le coordinate che hanno guidato il governo Monti e la sua politica interna ed estera nettamente anti-proletaria? È vero che Bersani, in tandem con la Cgil, si proponeva di correggere in senso laburista l’orientamento di Monti, ma anche il semplice contenimento delle mazzate, quelle già assestate dai mercati e dai loro rappresentanti istituzionali e quelle in programma nel prossimo futuro, non è qualcosa che matura nelle urne, con la conta delle opinioni e dei desideri, con le battute sagaci, e i duelli televisivi tra i candidati. Non è così che funziona la società borghese.

La società non è un aggregato di individui

I guru dell’economia e della sociologia ci raccontano che la società è un insieme di individui e di famiglie, che le decisioni di governo sono stabilite dalla maggioranza delle opinioni, che queste opinioni si formano liberamente sulla base della piena consapevolezza di ogni individuo dei suoi effettivi interessi. Il marxismo smonta questa visione fasulla. Certamente, l’unità biologica della società umana è l’individuo, ma l’esistenza dell’individuo presuppone ed è determinata  all’ambiente sociale collettivo in cui egli vive, dai “campi” in cui tale ambiente è articolato in virtù non dell’aggregazione aritmetica ma delle funzioni richieste dal modo in cui la società umana, nel suo insieme, provvede ai beni e agli strumenti di lavoro e alla riproduzione della specie. Nella società capitalistica i “due campi collettivi” fondamentali sono quello dei capitalisti e quello dei lavoratori. I primi hanno in mano il potere economico e le leve di quello politico. I secondi anno in mano solo la propria forza lavoro individuale, e possono campare solo se riescono a venderla sul mercato, dove incontrano le incertezze che gravano sulla vendita delle altre merci. In queste  condizioni l’opinione della maggioranza, tra gli stessi lavoratori, è incardinata sui valori del mercato e del profitto le “libere e democratiche” elezioni non possono che sanzionare questo o quel programma borghese deciso al di fuori del parlamento, nelle borse, nei piani alti delle multinazionali, nei vertici degli apparati statali, sotto l’influenza dei meccanismi impersonali di funzionamento dell’economia capitalistica.

I lavoratori possono contrastare questa egemonia culturale e politica borghese tra le proprie fila, possono condizionare favorevolmente per sé i provvedimenti dei “pubblici poteri” borghesi solo quando fanno valere i loro interessi con la lotta di classe. I padroni e i giornalisti e gli studiosi al loro servizio si sbracciano a convincere i lavoratori che la lotta di classe è finita, che è un arnese del passato. Ma loro, i borghesi, non si sono mai sognati e non si sognano di  interromperla neanche per un istante.

La portano avanti con l’uso sapiente del potere di ricatto conferito loro dal monopolio dei mezzi di produzione, con la propaganda dei loro mezzi di informazione, con le politiche dei partiti ad essa in vario modo vincolati.

I lavoratori hanno dalla loro parte il numero, l’essere la classe che, con le proprie braccia, fa girare l’intera società, ma questi due elementi contano se il numero è organizzato, se si esprime con la lotta, nei posti di lavoro e nelle piazze, con la dedizione a costituire gli organi richiesti da questa lotta, un sindacato degno di questo nome e il partito di classe.

Ora chiediamoci: come si è arrivati alle elezioni su questo decisivo terreno della lotta di classe? Da parte proletaria, con le ruote a terra. Nel corso del 2012 la stragrande maggioranza dei lavoratori ha accettato le mazzate di Monti senza dispiegare neanche un accenno di lotta. Ha permesso che i rapporti di forza si squilibrassero ancor più a favore dei padroni, dei mercati e delle istituzioni che ne difendono gli interessi. Il voto al Pd, anche alla versione laburista di Bersani, non poteva che portare acqua al mulino della versione liberale dell’europeismo, a Monti e all’ala montiana entro il partito democratico. Quando mai la borghesia ha ceduto una posizione agli sfruttati senza esservi costretta dall’aperto scontro di classe?

Altro mito da sfatare

Benché tra la gente sia diffusa l’opinione contraria, nel voto a Grillo non si è espresso un antidoto alla politica di Monti e alla deriva del partito democratico. Anche qui c’è l’accodamento a un programma pestifero, che consolida la disgregazione politica del proletariato. (1) Sì, Grillo ha sbraitato contro Monti e il Pd, ma per quale obiettivo? Abbiamo sentito alcuni lavoratori esclamare: “Finalmente si cambia! La casta va a casa e non c’è più il magna-magna. Questo farà respirare l’economia e anche i lavoratori.” Bene: ma i grandi poteri capitalistici non dicono la stessa cosa?

Il Corriere della Sera, il Sole24ore, la Lista Civica di Monti, lo stesso partito democratico sbuffano anch’essi contro l’elefantiasi dello stato. Ma per quale ragione? Perché troppo condizionato dalle conquiste del movimento dei lavoratori dei decenni passati, perché poco efficiente nel gestire la cosa pubblica nel modo autoritario che la competizione globalizzata impone, poco capace di garantire il libero funzionamento dell’economia di mercato. I lavoratori hanno interesse a sostenere questo tipo di “ripulita” della stalla della politica borghese? Altro che “casta cattiva” e “società civile buona”. Il popolo è diviso in classi distinte e queste classi hanno interessi divergenti rispetto allo stato.

Certo, anche la classe proletaria ha interesse a regolare i conti con la “casta dei politici”, ma per ridurne, all’immediato, il potere di scaricare sul groppone proletario la “razionalità dei mercati” e per prepararsi, in prospettiva, ad affondare il bisturi rivoluzionario contro la supercasta dei capitalisti da cui quella dei politici dipende e a guidare la transizione verso una società senza stato, senza oppressione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.

Se Monti e il partito democratico esprimono lo sguardo del grande capitale, Grillo esprime il sogno del piccolo produttore e del lavoro autonomo qualificato dei servizi di mettere al proprio rimorchio le classi fondamentali della società, di contenerne l’antagonismo esplosivo che essa incuba, di disporre di istituzioni che difendano la proprietà privata capitalistica e nello stesso tempo facciano respirare le medie e piccole imprese. Il mito di Grillo è il libero mercato, di cui tesse l’elogio e che, a suo dire, garantirebbe a tutti benessere e gratificazione se solo fosse liberato dal peso delle corporazioni quella degli speculatori finanziari, ma anche quella del sindacato e quella, non sia mai compaia all’orizzonte, di un partito di classe dei lavoratori.  A parole, il M5S denuncia la  onfindustria e il sindacato, il grande capitale e il proletariato organizzato. Nei fatti, questa salsa melensa si traduce (non può che tradursi) nell’aggiunta nel campo proletario di isgregazione a disgregazione, e nel sostegno, con le proposte di efficientizzazione della macchina statale del M5S, a ciò che oggi il “libero mercato” esige: la centralizzazione del potere borghese perseguito dai centri finanziari e industriali italiani ed europei, anche ai danni degli elettori grillini.

Le mosse del M5S durante la campagna elettorale e nelle settimane di trattative per la formazione del nuovo governo hanno confermato questa natura del movimento di Grillo: i buoni rapporti del rappresentante del M5S del Veneto con i padroni veneti (te li raccomando come alleati degli operai!), i minuetti con CasaPound, la dichiarazione di Gallegati (uno degli economisti dell’M5S) per un mondo (capitalistico) senza sindacati, il colloquio latte-e-miele con l’ambasciatore degli Stati Uniti, le dichiarazioni sull’art. 18 del capogruppo Lombardi,la filippica di Grillo contro lo ius soli sono la conferma di questa collocazione.

Diciamo di più, a costo di scandalizzare le orecchie di chi continua a vedere nel M5S un movimento di sinistra: i voti che dalla sinistra si sono spostati su Grillo sono stati, quand’anche di estrazione proletaria, i voti più moderati, quelli più disgregati.

Buona parte di essi avrebbe voluto Renzi al posto di Bersani! Coerentemente con questa impostazione, Grillo ha rigettato la proposta dell’alleanza di governo offerta da Bersani, troppo condizionato dal tessuto connettivo tra i lavoratori ancora organizzato nella Cgil.

 Il programma del grande capitale, la renitenza dei ceti berlusconiani

Dalle urne sono emerse, quindi, la frantumazione e la nullità politiche dei lavoratori. Nello stesso tempo le urne hanno rivelato la determinazione degli altri attori sociali: il grande capitale e lo zoccolo duro dei ceti medi accumulatori berlusconiani.

Il grande capitale si è compattato dietro a Monti, ottenendo un significativo successo nelle aree capitalisticamente decisive dell’Italia, il Piemonte e la Lombardia, quelle dove sono radicati la grande impresa industriale e i centri della finanza nostrane, BancaIntesa e Unicredit. Pur se Monti porta a casa il 75% in più dei voti dei gruppi politici che lo hanno appoggiato (Casini-Fini), non ottiene, però, l’investitura popolare che si augurava.

Le urne hanno, invece, confermato quello che era già emerso nella vita del governo Monti: l’ampiezza sul territorio nazionale della renitenza dei ceti medi accumulatori italiani a lasciarsi facilmente intruppare e centralizzare dietro l’europeismo grande-borghese, dietro gli Stati Uniti d’Europa.

I grandi poteri capitalistici e i loro referenti politici e istituzionali (con snodo nel Quirinale) hanno preso atto del potere di condizionamento ancora detenuto da questo strato sociale, la cui estensione è legata alla storia di formazione del capitale italiano e al foraggiamento pilotato nel secondo dopoguerra dalla Democrazia Cristiana in chiave anti-comunista.(2)

E hanno convenuto che un nuovo governo di unità nazionale, simile a quello Monti, fosse la formula, pur non  ttimale, per far fare qualche altro passo in avanti, seppur a rilento, a  loro programma per gli Stati Uniti d’Europa. Prima di tutto nell’ulteriore accentramento del potere politico nelle mani di chi conta, secondo le sperimentazioni compiute in questi ultimi due anni con il presidenzialismo di fatto di Napolitano. Le soluzioni che circolano sono quella della repubblica presidenziale alla francese (verso cui si stanno orientando anche il partito democratico e la stesso Sel) e quella di un “governo parlamentare razionalizzato” combinati con il passaggio a un parlamento  ono-camercale. Tutte le soluzioni conducono, però, a quella repubblica “efficiente, a quella stabilità politica, a quella  rapidità di esecuzione che sono ingredienti primari di ogni democrazia nella competizione globale” (dal documento dei “saggi” nominati da Napolitano). La “nuova” repubblica sarà meno costosa? Ne dubitiamo. Sicuramente  ncarnerà una macchina statale più accentrata, meno vincolata ai lamenti del parlamento, più capace di ristrutturare il rapporto con i “furbetti del quartierino” berlusconiani proprio per meglio ristrutturare il compromesso sociale con il mondo degli sfruttati ed irreggimentarlo al lancio della potenza mondiale degli Stati Uniti d’Europa  (3).

Su quest’ultimo punto hanno già messo a segno un gol, con la disgregazione che si è aperta nel partito democratico dopo il fallimento dell’incarico a Bersani, la protezione dell’ascesa di Renzi e l’effetto normalizzatore che tutto questo sta avendo sulla Cgil per condurla all’unità con gli altri sindacati sulle posizioni di quest’ultimi e al  fronte comune dei “produttori” con la Confindustria già annunciato su alcuni palchi del primo maggio 2013. Il  grande capitale e i suoi referenti politici hanno, inoltre, fatto un altro calcolo: all’ombra di un secondo governo di  unità nazionale potrebbero guadagnare tempo prezioso per strutturare, anche con il recupero di un’ala del partito della libertà, uno schieramento conservatore a base popolare borghese che Scelta Civica non è riuscita (né può) conquistare ma che può ben dirigere, capitalizzando a proprio favore e in chiave anti-proletaria l’espropriazione   dei commercianti e degli artigiani che, in modo silenzioso, sta compiendo la recessione economica e la mondializzazione del capitale.

Ecco come si è arrivati al governo Letta. Nessun oscuro ribaltone ordito da Napolitano o dalle manovre infide di D’Alema e di Renzi. Ad agire è stata la forza dei rapporti tra le classi stabilitisi nei mesi (e negli anni) precedenti alle elezioni, che le elezioni hanno rivelato. Si è così passati da un governo tecnico-politico sostenuto dalla destra, dal centro e dalla sinistra a un governo politico-tecnico sostenuto dalla sinistra, dal centro e dalla destra. Dal  governo di emergenza architettato da Napolitano per superare l’“emergenza spread” dell’autunno 2011 al governo di servizio retto da Napolitano per superare l’ “emergenza istituzionale”. Da un primo ministro di Bilderberg, Monti, si è passato a un altro uomo di Bilderberg, Enrico Letta. Il cui mandato non è diverso nella sostanza da quello europeista di Monti, come ha confermato Letta nel suo discorso alla Camera del 29 aprile 2013. Anche laddove Letta ha chiesto che negozierà con l’Ue l’applicazione dei vincoli di bilancio con maggiore flessibilità per favorire il rilancio delle aziende. Era già stato Monti a contrattare con l’Ue e la Germania nel vertice di febbraio la possibilità di non conteggiare nella spesa pubblica i finanziamenti all’innovazione tecnologica e alla modernizzazione infrastrutturale.

Politica interna e politica estera

Il governo Letta sta cercando di presentarsi ai lavoratori in modo suadente.

La nostra prima preoccupazione è il lavoro, ha detto: rimoduleremo l’imu, ridurremo le tasse sul lavoro, rifinanzieremo la cassintegrazione, daremo una copertura anche agli esodati che finora ne sono rimasti privi. Austerità, ma anche crescita, ha concluso Letta.

Al momento in cui scriviamo (fine aprile) è vero che il suo programma prevede queste misure. Ma ammesso e non concesso che vengano attuate, queste misure, che si limitano in ogni caso a limare il taglio dei salari in corso e  non a bloccarlo o invertirlo, vanno messe insieme alle altre mazzate contenute nel programma di Letta. Mirano a gettare un po’ di acqua ossigenata sulle ferite aperte e a far trangugiare le altre misure sull’agenda di Letta: quelle per rendere più facili i contratti a termine e d’apprendistato, la riforma autoritaria dello stato, lo snellimento del  welfare state e la conseguente accelerazione delle assicurazioni private e dei fondi pensione, il consolidamento del rilancio della politica muscolosa dell’Italia e dell’Ue in campo internazionale già iniziata da Di Paola e Monti. La nomina della  Bonino agli esteri è tutto un programma.

Da vent’anni attiva organizzatrice del consenso alle guerre dell’imperialismo, in Jugoslavia, in Iraq, in Sudan, nella regione dei Grandi Laghi, in Afghanistan, Emma Bonino si è distinta per gli incontri e il sostegno al Dalai Lama (in chiave anti-cinese) e il veleno anti-islamico. Colleghiamo questa nomina ai più caldi archi di crisi attivi sul pianeta, quello Mali-Sudan-Siria- Iran e quello dell’Estremo Oriente, e si ottiene il senso di marcia della politica estera  italiana.

Non è facile prevedere se il governo Letta riuscirà a trovare le risorse per finanziare gli interventi messi in cantiere (20-30 miliardi di euro) senza fratturare l’alleanza sociale che lo sorregge. Se riuscirà a ricavarle, come spera il nuovo primo ministro, dalla riduzione degli interessi da pagare sui titoli di stato e/o dalla vendita di una quota del  patrimonio immobiliare statale. Se riuscirà a far accettare alla pletora di padroncini che freme dietro Berlusconi (e in parte dietro a Grillo) un contenimento dell’evasione e dell’elusione fiscale per rendere più efficiente il sistema-Italia nel suo insieme e ad agganciarne un settore con le misure per la crescita di scala e l’internazionalizzazione delle imprese italiane richieste dal rafforzamento del tessuto capitalistico italiano. Di sicuro, il mix dei  provvedimenti in cantiere, anche in presenza del rilancio dell’economia capitalistica italiana in chiave europeista cui mira, acuiranno la concorrenza tra i lavoratori d’Italia e tra questi e quelli degli altri paesi, e ne aumenteranno la debolezza verso i ricatti dei padroni e dei mercati.

Da questa offensiva, verso l’interno e verso l’esterno, non ci si potrà difendere che con la lotta. Che con l’opposizione intransigente tra le fila del proletariato all’illusione che, come male minore, convenga far fronte comune con le imprese per acchiappare, “nell’interesse di tutti”, la ripresa economica che, forse, verrà. Se non si spezzerà questo circolo vizioso per cui c’è lotta di classe solo da parte borghese, altri calici amari dovranno essere trangugiati. Che queste batoste e difficoltà spingano un pugno di lavoratori a organizzarsi per favorire la rottura del fronte di unità nazionale in costruzione e per mettere sul piatto l’esigenza della formazione di un partito di classe fondato sulla dottrina e sul programma marxisti!

(1) Sul programma e la base sociale del M5S vedi il n. 77 del che fare, novembre 2012.

(2) Vedi sul che fare n. 75 (novembre 2011) l’articolo “La spirale del debito pubblico. Da dove viene e a chi serve.”

(3) Il 29 aprile 2013, nel suo discorso di presentazione alla Camera, Enrico Letta ha detto: “l’Europa è il nostro viaggio. La sua storia non è scritta malgrado noi. È scritta da noi. L’orizzonte è europeo, con le università che devono diplomare laureati in grado di lavorare ovunque in Europa, e le imprese che devono inventare prodotti che siano competitivi a livello continentale se non globale. Pensare l’Italia senza l’Europa è la vera limitazione della nostra sovranità, perché porta alla svalutazione più pericolosa, quella di noi stessi. Vivere in questo secolo vuol dire non separare le domande italiane e le risposte europee, nella lotta alla disoccupazione e alla disuguaglianza, nella difesa e nella promozione di tutti i diritti. E soprattutto, l’abbattimento dei muri tra il Nord e il Sud del continente, così come tra il Nord e il Sud dell’Italia.

Il porto a cui il nostro viaggio è rivolto sono gli Stati Uniti d’Europa e la nostra nave si chiama democrazia. Guardiamo con ammirazione lo sviluppo delle altre nazioni, in particolare in Asia e in Africa, ma non vogliamo sognare i sogni degli altri.

Abbiamo il diritto a sogno che si chiama Unione Politica e abbiamo il dovere di renderlo più chiaro. (...) L’Italia vive in un mondo sempre più grande, caratterizzato dall’arrivo sulla scena di nuove potenze emergenti che stanno modificando gli equilibri mondiali. Di fronte a giganti come Cina, India e Brasile, i singoli Stati europei non possono che sviluppare una politica comune per raggiungere la massa critica necessaria ad interagire con questi nuovi attori e influire sui processi globali.

Questo significa un rinnovato impegno per una politica estera e di difesa comuni, tese a rinnovare l’impegno per il  consolidamento dell’ordine internazionale, un impegno che vede le nostre Forze Armate in prima linea, con una professionalità e un’abnegazione seconda a nessuno. Lavoreremo per trovare una soluzione equa e rapida alla dolorosa vicenda dei due Fucilieri di Marina trattenuti in India, che ne consenta il legittimo rientro in Italia nel più breve tempo possibile. L’Italia è  saldamente collocata nel campo occidentale, ma la sua posizione geopolitica proiettata verso altre civiltà, la sua cultura abituata  al dialogo e la sua economia vocata all’esportazione possono consegnarle un ruolo di ponte tra l’Occidente e le nuove potenze emergenti. Questo è importante soprattutto nel Mediterraneo, dove il consolidamento delle primavere arabe, la risoluzione  politica della crisi in Siria e la prosecuzione del processo di pace in Medio Oriente sono le questioni più urgenti.”

Che fare n.78 maggio - ottobre  2013

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