Che fare n.78 maggio - ottobre 2013
Mali: prosegue e si allarga l’aggressione neo-coloniale della Ue in Africa e verso il Medioriente
All’inizio del 2013 l’Occidente è intervenuto con i suoi caccia, le sue bombe e le sue squadre speciali in Mali. A guidare l’intervento è la Francia, con la copertura e il sostegno logistico della Ue, degli Usa e della Nato. La propaganda ufficiale sostiene che la missione serve a garantire la convivenza pacifica tra fedi religiose diverse incrinata dall’espansione del “fanatismo islamico”.
Come con la precedente missione in Libia, con quella in Mali l’Occidente cerca, in realtà, di stroncare i progetti borghesi di sviluppo capitalistico regionali o panafricani, di riprendere il pieno controllo delle ricchezze naturali e della forza lavoro dell’Africa e di contenere la penetrazione della Cina in una regione chiave per l’economia di Pechino. L’intervento in Mali fa, inoltre, da retrovia per la preparazione dell’aggressione che l’Ue, gli Usa e la Nato stanno conducendo contro la Siria, il popolo siriano, gli sfruttati di ogni religione e nazionalità del Medioriente.
“La regione [dell’Africa centrale] sta attraversando una difficile fase di transizione. L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno una posizione di distacco che favorisce gli obiettivi delle forze jihadiste. Il continente è abbandonato a se stesso, con sporadiche attività come ad esempio quella della Francia in Mali e l’assenza delle stesse Nazioni Unite. Questa situazione di vuoto è molto rischiosa.” A pensarla così è Arduino Paniccia, presidente della Task force del Nord Est per la ricostruzione in Libia e docente di Studi strategici all’Università di Trieste (1).
La vicenda del Mali è, invece, un altro esempio di quanto sia falsa e interessata questa immagine. Solo qualche rara voce ha cercato di mettere in luce gli interessi sociali, economici e politici in gioco, il nesso di questi interessi con quelli delle classi sociali, in Africa e in Europa. Anche noi marxisti del “che fare” siamo affetti da questa anomalia genetica e ci siamo presi la briga di dare un’occhiata alla carta geografica, al sottosuolo del Mali, alle sue vicende storiche. Abbiamo “scoperto” che il Mali, come d’altronde tutto il continente africano, è stato tutt’altro che dimenticato dalle potenze europee.
Un continente per nulla dimenticato
Saccheggiato con la tratta degli schiavi nei secoli precedenti, nel corso del XIX secolo il Mali fu conquistato e inserito nell’impero coloniale francese dell’Africa occidentale. Il Mali è stato così abbandonato che la Francia ne ha ristrutturato l’economia in modo da renderla funzionale agli interessi della propria industria tessile.
Se alla Costa d’Avorio era toccato di diventare produttrice di gomma e caffè, al Senegal di arachidi, al Mali (che allora si chiamava Sudan Occidentale) toccò in sorte la monocoltura del cotone. Il Mali conquistò l’indipendenza nel 1960. Il Mali era così poco abbandonato dai civilizzatori europei che i suoi contadini, i suoi braccianti, i suoi industriali e suoi i quadri militari nazionalisti dovettero scontrarsi con il progetto politico francese di mantenere il controllo dei territori coloniali percorsi dalle lotte indipendentiste attraverso lo spezzettamento dell’impero coloniale e la federazione dei brandelli in una specie di Commonwealth francofono con centro a Parigi.
Le masse lavoratrici del Mali e dell’Africa occidentale e le giovani borghesie nazionaliste dell’area contrapposero a questo progetto quello del raggruppamento degli stati di recente indipendenza in una federazione autonoma capace di portare avanti la modernizzazione capitalistica senza ricadere vittime delle vecchie catene.
Il popolo del Mali fu tra i protagonisti di quell’eroico tentativo. Nel 1960 nacque la federazione del Mali, che univa l’attuale Mali, il Senegal, la Costa d’Avorio e il Ghana. (2) L’esperimento non andò in portò, anche per le continue manomissioni dell’Europa e della Francia, che nel frattempo avevano trovato un altro “nobile” motivo per impedire la formazione di uno stato moderno nell’Africa centrale: la scoperta di ingenti giacimenti di uranio nel sottosuolo del Sahara. Che la Francia, sempre perché ha abbandonato il continente africano al suo destino, mise sotto le sue grinfie attraverso il gruppo Areva e l’installazione di un regime fantoccio in Niger.
Dissolta la federazione del Mali, l’attuale Mali tentò di portare avanti da solo la modernizzazione dell’agricoltura del paese e la formazione di un “completo” apparato industriale. I progressi non disprezzabili compiuti nel campo dell’agricoltura e dell’educazione, il parziale superamento delle divisioni lasciate dal colonialismo tra le popolazioni di diverse regioni e religioni furono spezzati da un altro intervento della “distratta” Francia: nel 1968 la repubblica del Mali fu riportata nell’ovile di Parigi da un colpo di stato supportato dalla Francia.
Ci sono voluti più di trent’anni al popolo del Mali per liberarsi dalla morsa della dittatura di Moussa Traoré. Per poi doversi piegare, però, a quella, ben più ferrea anche quando invisibile, delle libere leggi del mercato internazionale, del Fondo Monetario Internazionale, dell’Onu. Essa si è “limitata” a far colare a picco il prezzo del cotone da 3 dollari al chilo nel 1980 a 35 centesimi nel 2001 (3) e a trascinare il paese nella spirale degli aggiustamenti strutturali, del taglio alle spese sociali, della chiusura e della svendita delle fabbriche locali di macchine agricole per lasciar spazio alle importazioni dai paesi imperialisti, della corruzione delle classi dirigenti, dei programmi di sostegno alla transizione democratica miranti (con la cinghia di trasmissione delle ong) a depoliticizzare la società locale, dell’emigrazione in Libia e in Europa, della trasformazione dei gruppi al potere locali in poliziotti dei cosiddetti “flussi migratori” appaltati dalle potenze imperialiste. Il Mali è diventato uno dei paesi in cui l’Ue ha impiantato un centro per la gestione delle migrazioni all’interno di un programma che dal 2006 al 2013 ha visto la spesa di 3 miliardi di euro. Al Mali è andato quasi mezzo miliardo di euro di questo programma.
Altro che disinteresse delle capitali europee e della “comunità internazionale”!
Il Fmi, la BM, gli sfruttatori europei, i loro strateghi non hanno mai smesso di pensare un attimo ai lavoratori e al popolo del Mali! Di tastare i muscoli dei loro giovani emigrati in Europa, per sentire se fossero sufficientemente resistenti alla vita regalata
loro dalle metropoli. E rimpatriarne alcuni, i più ribelli, per educare gli altri, quelli che devono restare in Europa ma clandestini, impauriti, così da offrire agli sfruttatori europei forza lavoro fresca senza doversene accollare i costi di riproduzione (come avviene per i proletari europei), scaricati sulla comunità contadina dell’Africa, trasformata nella miniera della più strategica “materia prima” per il capitale: la forza lavoro.
E questo sarebbe disinteresse!?
Dalla Libia al Mali
Dall’inizio del XXI secolo, malgrado e contro la morsa imperialista, l’Africa sta rinascendo. Nel numero 75 del che fare abbiamo raccontato di questo recente sviluppo capitalistico e dei suoi protagonisti, e dell’esigenza dell’imperialismo, di tutte le potenze capitalistiche, di contrastarlo per riassumere il controllo totale del continente. Soprattutto dopo le sollevazioni popolari e proletarie della Tunisia e dell’Egitto.
L’Africa è stata ed è così dimenticata che gli Usa nel 2008 hanno creato una nuova divisione delle loro forze armate specifica per l’Africa, l’Africom, con quartiere generale a Stoccarda. Che nel 2010 la Francia ha organizzato in Niger un colpo di stato perché il governo in carica, pur Parigi-dipendente, si era permesso di avviare trattative con aziende cinesi per lo sfruttamento dell’uranio, del petrolio e del gas del sottosuolo. Che nel 2011 è partita l’aggressione alla Libia di Gheddafi.
L’estensione della guerra dalla Libia al Mali era nelle cose. Era già iniziata prima dell’operazione Serval. Era portata avanti, fra contrasti, dalla Francia e dagli Usa. Con Parigi a finanziare e armare l’opposizione secessionista del Movimento di liberazione nazionale dell’Azawad nella parte settentrionale del paese, quella confinante con il Niger, e ad obbligare il governo di Bamako ad accettare la frantumazione del paese, riservando la parte settentrionale alla Francia e la fascia meridionale agli Usa (che dal 2002 hanno impiantato in Mali la base del Pan Sahel Initiative). All’inizio del 2013 le potenze occidentali hanno avuto bisogno dell’intervento diretto in grande stile perché i loro piani stavano rischiando di non andare come avevano progettato a tavolino.
Vediamone le cause.
1) La penetrazione economica e politica della Cina sta raggiungendo l’Africa centrale. L’interscambio tra la Cina e l’Africa è passato dai 6 miliardi di dollari del 2000 ai 200 miliardi di dollari del 2012. Nello stesso periodo la Cina ha prestato 67 miliardi di dollari ai paesi dell’Africa subsahariana, superando di oltre dieci miliardi i prestiti erogati dalla Banca Mondiale. Gli investimenti si sono diretti nelle infrastrutture (strade, ferrovie, porti, aeroporti), nelle miniere, nel settore agricolo e nelle zone economiche speciali varate in alcuni paesi africani. È, inoltre, diretto in Cina il 10% del petrolio esportato dall’Africa.
Le corrispondenti cifre relative all’Occidente sono molto superiori. L’Europa, ad esempio, importa il 30% del petrolio africano. La Exxon Mobil, la Shell, la Total, l’Eni hanno investimenti in Africa per quasi 200 miliardi di dollari, almeno il decuplo degli investimenti della Cina nel settore petrolifero in Africa. Il fatto è che, secondo i gangster democratici dell’Ue e degli Usa, Pechino non deve azzardarsi a mettere i piedi nelle loro riserve di caccia...
2) La distruzione della Libia e della sua politica di intervento economico nel Sahel (4) ha aggravato la crisi sociale dell’economia contadina del Mali. Decine di migliaia di emigrati in Libia sono stati, inoltre, costretti a tornare a casa, le rimesse corrispondenti sono crollate. Una fetta consistente dei 3.5 milioni di nuclei famigliari delle campagne sono stati costretti a vendere l’aratro e i loro beni, per racimolare un gruzzolo e permettere ai loro figli di emigrare in altre zone dell’Africa oppure in Europa. Del picconamento della Libia di Gheddafi hanno risentito anche le forze borghesi del Mali, che, pur legate all’Europa e agli Usa, non hanno potuto evitare di confrontare i ritorni della dipendenza dall’Occidente con quelli offerti in altri paesi africani dall’alleanza con la potenza capitalistica cinese e con il Venezuela bolivariano popolar-borghese di Chavez. (5)
3) Il ritorno, soprattutto nel nord del Mali, di tanti immigrati dalla Libia e, forse, l’arrivo di forze della resistenza libica legate al programma di Gheddafi hanno catalizzato la miseria dilagante nel paese, anche nella base dei gruppi tuareg influenzati dalla Francia.
Questo concorso di circostanze ha portato nel corso del 2012 a un duplice sviluppo nel sud e nel nord del Mali: a un sussulto popolar-borghese indipendente a Bamako, guidato dai quadri inferiori dell’esercito e sostenuto dai contadini, in alcuni settori collegati a Via Campesina, che le potenze imperialiste si sono subito premurate di accerchiare con le sanzioni; alla parallela trasformazione di alcuni territori del nord del paese in centri della resistenza all’invasione imperialista della Libia e dell’area (con l’adesione ad essi anche di frange della popolazione tuareg inquadrata precedentemente nell’Mnla) oppure semplicemente in centri manovrati con eccessiva libertà dal pur fidato alleato occidentale del Qatar. Questa situazione ha convinto la Francia e poi l’Ue che era giunto il momento di intervenire massicciamente.
L’Italia, come al solito apparentemente defilata, è nel mazzo, in prima fila, con Prodi addirittura alla testa dall’ottobre 2012 delle operazioni Onu nel Sahel e nel Mali. Com’era stata in prima fila nel 2011 nella distruzione della Libia (ora rivendicata esplicitamente dalla Aeronautica Italiana nel suo volume Missione Libia 2011). E come è in prima fila ora a manovrare per accaparrarsi i proventi della riconquista della Libia attraverso la presenza delle forze militari italiane che stanno addestrando le nuove forze armate libiche, e attraverso le trattative della Camera del Commercio Italo-Libica e l’opera dell’associazione del prof. Paniccia (6).
Gli Usa hanno accettato il dispiegamento della missione Serval, pur non gradendo le manie di grandeur di Holland, perché in gioco c’è la salvaguardia a favore di tutto l’Occidente della riserva di caccia neo-coloniale dell’Africa centrale prima ancora della spartizione di essa in aree di influenza con la Francia, la Ue e, a scendere, con il Qatar e le petro-borghesie del golfo Persico.
Dal Mali alla Siria
I comunicati ufficiali di Parigi ci hanno informati che dopo qualche giorno i “nostri” avevano ripreso il controllo del paese. A sua volta, la Ue ha assicurato l’invio di centinaia di militari per addestrare le nuove forze armate maliane (European Union Training Mission), epurando quelle nelle quali serpeggiano sentimenti non filo-europei. Eppure la situazione è tutt’altro che normalizzata. Per la forza della presenza cinese. Per la base popolare e oggettiva che questa presenza trova nello sviluppo del giovane capitale africano. Per la volontà del proletariato e dei contadini poveri dell’Africa di non rimanere marginali nel poderoso processo di industrializzazione e di miglioramento dei livelli di vita che, trainato da Cina, Brasile e Sudafrica, sta investendo il Sud del mondo.
I piani dell’Ue e degli Usa non procedono lisci neanche nell’area di crisi contigua e collegata, quella mediorientale. Qui, infatti, malgrado i finanziamenti e l’addestramento all’opposizione siriana, lo strangolamento economico della repubblica siriana, alcuni settori popolari dell’area stanno prendendo atto del senso dell’operazione contro la Siria. Sia all’interno della Siria, la cui capacità di fronteggiare il soffocamento economico e le operazioni militari dell’esercito mercenario al servizio dell’Occidente sarebbe incomprensibile senza la presenza di una resistenza antimperialista della stessa popolazione. Qualcosa si muove, però, anche all’esterno della Siria: in Libano, dove gli Hezbollah cominciano a schierarsi in modo militante contro l’aggressione occidentale, e in Turchia, dove una parte dell’opposizione di sinistra ha organizzato partecipate manifestazioni contro l’intervento della Turchia in Siria a fianco della Nato e il dispiegamento delle batterie dei Patriot al confine con la Siria.
È improbabile che la Ue, gli Usa, la Nato, Israele e la Lega Araba riescano a piegare la Siria impulsandone l’implosione interna e la jugoslavizzazione senza ricorrere a un nuova carneficina stile-Iraq. In vista di questo appuntamento, l’imperialismo prepara le sue cartucce: Obama si è recato in visita in Israele per ricucire lo strappo tra Israele e la Turchia; il segretario di stato Kerry si è recato in Iraq per ordinare al governo iracheno di non concedere il diritto di sorvolo agli aerei iraniani verso la Siria; il 30 gennaio 2013 Israele ha bombardato due siti militari siriani nei pressi di Damasco, due mesi dopo Israele ha lanciato un missile teleguidato contro una postazione militare siriana; alla fine di aprile 2013 i mezzi di informazione hanno cominciato a parlare dell’uso di armi chimiche da parte della Siria (do you remember la pistola fumante di Saddam?) e Obama dell’obbigo di approvare formalmente l’invio di armi alle truppe mercenarie dell’opposizione siriana.
Ad aumentare la tentazione delle capitali occidentali ad attaccare apertamente la Siria vi sono anche la “neutralità” delle forze della resistenza palestinese, forse quella dei curdi del Pkk (7) e soprattutto l’indifferenza del proletariato occidentale, lo stato di passività politica dei lavoratori in Europa. I quali rimangono ripiegati su se stessi o guardano con favore all’intervento per evitare, campa cavallo, che il disordine dal Medioriente arrivi “qui” nella metropoli. E a cui non fungono da reagente, a parte eccezioni infinitesimali, i gruppi della sinistra radicale. Tra i quali, anzi, sull’onda di quanto avvenuto ai tempi della guerra di Libia nel 2011, aumentano i casi di arruolamento pro-Nato anche tra coloro che avevano saputo denunciare il senso degli avvenimenti libici. È accaduto di nuovo con l’operazione Serval, salutata come il male minore (!?) rispetto alla presunta diffusione dell’integralismo islamico.
Noi militanti comunisti organizzati nell’Oci siamo invece impegnati con le nostre (lillipuziane) forze nel propagandare tra i lavoratori il loro interesse a schierarsi fattivamente contro l’aggressione occidentale in Mali, Siria e altrove. Ci auguriamo che le armate imperialiste paghino sul campo il più alto prezzo politico e militare possibile. E saluteremo ogni loro sconfitta da parte dei popoli aggrediti, senza rimproverare alla resistenza antimperialista degli oppressi e degli sfruttati africani e mediorientali di essere, per ora, guidata da direzioni borghesi (islamiche o meno che siano), strutturalmente incapaci di una battaglia a fondo contro l’imperialismo. Come accaduto altre volte nella storia, una simile batosta al pavone italiano sarebbe oltremodo benefica per il risveglio della lotta dei lavoratori d’Italia contro il loro nemico principale, i padroni e lo stato italiani, e al riconoscimento da parte dei lavoratori d’Italia che la resistenza dei popoli e dei proletari dell’Africa e del Medioriente è la loro stessa lotta!
Scheda: dichiarazione del ministro francese delle finanze Pierre Moscovici.
Durante una visita in Costa d’Avorio, nel dicembre 2012, il ministro delle finanze francese Pierre Moscovici ha affermato che le imprese francesi devono andare all’attacco e scatenare un’offensiva contro l’influenza della rivale Cina scommettendo su mercati africani sempre più competitivi.
“È evidente che la Cina è sempre più presente in Africa [...] Le imprese (francesi) che hanno i mezzi devono perseguire questa offensiva. Esse devono essere più presenti sul territorio. Esse devono combattere”.
L’Africa, ha proseguito il ministro francese, è in pieno boom economico.
L’Africa sub-sahariana avrà il secondo tasso di crescita regionale al mondo nel 2012 dopo quelllo asiatico con un 5.5%. La crescita economica africana può stimolare la crescita della Francia. Vogliano essere presenti” (Reuters,1° dicembre 2012).
(1) Ecco come l’Associazione si presenta nella home page del suo sito (visitato il 9 maggio 2013).
“L’Associazione “SME Task Force Nord Est per la ricostruzione in Libia” è stata costituita il 3 febbraio 2012 nel corso di una assemblea a cui hanno partecipato 82 medie imprese del Nord Est italiano. L’iniziativa trae fondamento dalla convinzione che le medie e piccole imprese italiane debbano beneficiare di azioni coordinate, sinergiche e concrete per partecipare tempestivamente alla ricostruzione di opere infrastrutturali, civili ed industriali in Libia e più in generale nel mediterraneo, apportando le proprie esperienze, conoscenze, capacità e tecnologie.”
“La prima attività pubblica della SME Task Force Nord Est ricostruzione Libia nel 2013 è il supporto all’Istituto Italiano di Studi Strategici N. Machiavelli per l’organizzazione del forum strategico Global Trends 2030: Alternative Worlds, in collaborazione con il National Intelligence Council americano e con il patrocinio dell’Ambasciata Usa in Italia. L’evento si terrà il 7 febbraio a Roma, presso l’hotel Majestic di Via Veneto ed è organizzato per illustrare, per la prima volta in Italia, lo studio che ogni quattro anni viene realizzato dall’Intelligence Community americana e sottoposto al neo eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, sulle tendenze strategiche globali per i successivi 15-20 anni. Al forum alti rappresentanti del mondo politico, diplomatico bancario, della
Nato e di aziende multinazionali, oltre a giornalisti, ricercatori e altri esperti della società civile.”
Alla fine del marzo 2013 l’Associazione ha organizzato una missione in Libia, dove sono state aperte tre sedi per curare la partecipazione delle aziende italiane alla ricostruzione della Libia (400 miliardi di dollari in 10 anni) e all’uso del paese come piattaforma per la rapina delle risorse naturali e umane dell’intera area. Si dia un’occhiata in proposito al sito della Camera di Commercio Italo-Libica. In un’intervista al Sole24Ore (4 maggio 2012) Paniccia aveva anticipato il senso della missione: “È fondamentale avere una task force organizzata a Tripoli che metta in contatto le imprese italiane con le controparti locali. Oltre all’impiantistica, oggi i settori più interessanti sono quelli dei beni di consumi privati (come abbigliamento e arredamento d’ufficio). Ma se non sarà fatto nulla si rischia di perdere la sfida. A vantaggio di altri paesi più intraprendenti.”
Come stupirsi se il prof. Paniccia, che si è fatto le ossa con i marines in Vietnam e nell’opera di disgregazione della “ex”-Jugoslavia, diffonde la interessata lettura da noi riportata sulla crisi in Mali?
(2) Consigliamo vivamente la lettura dell’appassionato articolo “Un nuovo organismo statale africano è nato: la Federazione del Mali” pubblicato su il programma comunista n. 4 del 1959.
(3) I proventi dall’esportazione del cotone sono crollati anche per effetto delle sovvenzioni ai coltivatori di cotone statunitensi da parte di Washington, che, invece, le denuncia come ostacolo al libero commercio e cerca di demolirle quando le sovvenzioni sono attivate dai paesi del Sud. Tra il 1980 e il 2001 il costo di produzione del cotone era di 50 centesimi in Mali e di oltre 70 centesimi negli Usa. Grazie alle sovvenzioni gli agricoltori statunitensi sono riusciti, però, a vendere profittevolmente la materia prima e a picconare i concorrenti dell’Africa.
(4) La Libia di Gheddafi aveva avviato un programma di investimenti basato sulla collaborazione tra i paesi del Sahel e del Sahara per favorire lo sviluppo agricolo e industriale dell’area. Alcune notizie sono riportate nell’articolo “Il Sahel dopo Gheddafi” pubblicato sul numero 5 del 2012 di Limes, in cui è tra l’altro scritto: “Tutti i paesi della regione hanno risentito del conflitto libico [e del crollo della strategia panafricana di Gheddafi]. Mali, Niger, Ciad erano fortemente dipendenti da Gheddafi. Economicamente, l’influenza si esercitava attraverso due canali principali: il reinvestimento (finanziariamente non remunerativo ma politicamente vantaggioso) dei proventi del petrolio in progetti infrastrutturali in loco e l’impiego della forza lavoro saheliana [in condizioni diverse da quelle offerte dalle democrazie europee! n.] in Libia. (...) Bamaka [la capitale del Mali, n.] era probabilmente la più dipendente politicamente ed economicamente dalla Libia di Gheddafi. Gheddafi ha giocato un ruolo chiave nella mediazione tra il Mali e i tuareg [molti dei quali emigrati in Libia come lavoratori, n.] e il denaro libico è stato determinante nello sviluppo recente del paese: molte strade, moschee, scuole, alberghi sono stati costruiti con fondi libici, con forti ricadute occupazionali ed economiche. L’investimento maggiore è stata la costruzione della cittadella ministeriale.
(...) Dopo la morte di Gheddafi, i paesi sahelini hanno dovuto mutare le posizioni assunte all’inizio del conflitto [di opposizione all’intervento della Nato, n.] Ma se le élites hanno mutato orientamento, lo stesso non si può dire delle opinioni pubbliche: molti settori delle popolazioni locali [in Mali sia tra i contadini e la popolazione lavoratrice urbana nel sud del paese che tra i tuareg nel nord del paese, n.] hanno continuato a sostenere il vecchio regime libico”.
Il piano di sviluppo africano di Gheddafi prevedeva anche l’imbrigliamento e l’uso delle immense risorse idriche scoperte dalla Jamahiria nel sottosuolo sahariano per l’irrigazione dell’area. I predoni occidentali tornati in Libia e i loro quisling locali, non contenti di aver distrutto la rete che portava l’acqua dal lago sotterraneo alla costa libica, stanno pensando di utilizzarne l’acqua per l’estrazione – ambientalmente distruttiva- del gas shale. Una volta adoperata in questo processo l’acqua non sarebbe più utilizzabile!
(5) Tra le iniziative della Cina vi è il sostegno diplomatico-commerciale di Pechino alla battglia condotta dal Cotton-4, il cartello dei produttori africani di cotone (Mali, Ciad, Burkina Faso e Benin), entro il Wto per la riduzione e l’eliminazione dei sussidi agricoli stanziati dai paesi industrializzati ai propri coltivatori. Certo la Cina difende il suo interesse di primo importatore mondiale di cotone, ma le capitali del Cotton-4 ne vedono favorevolmente l’appoggio.
(6) Istruttivo un editoriale pubblicato sul Sole24Ore del 16 gennaio 2013 dal titolo “La battaglia in Mali riguarda anche noi”. Scrive il quotidiano della Confindustria: “Qualche italiano si vergogna della geografia del nostro Paese e forse vorrebbe spostare i nostri confini più a Nord. In realtà dovremmo esser più sensibili alla collocazione geografica dell’Italia per comprendere meglio i nostri interessi politici, economici e di sicurezza. Anche il Sahara e il Sahel confinano con noi e la guerra del Mali ci riguarda più o meno direttamente, come quasi tutto quello che avviene nel Nordafrica: basti pensare all’attentato contro il console italiano a Bengasi, in quella Cirenaica che custodisce l’80% delle risorse petrolifere libiche. (...) Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto: da qui vengono in gran parte delle nostre risorse energetiche; in tutti questi paesi l’Italia è sempre tra i primi partner commerciali e suscita rispetto per la qualità del lavoro e il modello delle piccole e medie imprese.
Ebbene sì, anche noi confiniamo con il Sahara, che in arabo vuol dire grande vuoto, un vuoto che invece si sta rivelando pieno di problemi ma anche di opportunità (a.n.)”.
(7) fresche dell’accordo con il governo di Ankara e, forse, irretite nell’illusione di far avanzare il loro riscatto nazionale attraverso un accordo con la coalizione imperialista che sta aggredendo la Siria
Che fare n.78 maggio - ottobre 2013
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA