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Che fare n.77 dicembre 2012 - aprile 2013

III. Asia, crocevia degli antagonismi del capitale mondializzato

Nel numero 76 del che fare abbiamo rilevato l’acutizzarsi delle tensioni nelle relazioni internazionali in Asia e ne abbiamo discusso le cause. Le abbiamo ricondotte agli antagonismi di fondo dell’accumulazione capitalistica e al fatto che la loro riproduzione allargata sta minando l’alveo entro cui hanno potuto finora dispiegarsi “costruttivamente”, in modo controllato.

L’esperienza storica mostra che in una simile situazione il sistema capitalistico è destinato a scivolare nell’abisso di una catastrofe planetaria.  Le cose andranno così anche stavolta. Non perché il governo Usa e degli altri stati imperialisti vogliano in partenza arrivare a questo sbocco, per loro assai arrischiato. Non perché la storia sia determinata dai piani megalomani di generali pazzi o di avidi amministratori delegati. Ma per un gioco di azioni e reazioni fatale che è già partito e che vogliamo provare a delineare in questa terza parte dell’articolo.

 Gli Usa sono gentiluomini, si sa, e non vogliono certo radere al suolo lo sviluppo industriale in Cina. Vogliono “solo” funzionalizzarlo a sé. Per la Casa Bianca e Wall Street non è più tollerabile che la tumultuosa accumulazione in Cina (e nell’Asia sud-orientale) continui a svilupparsi lungo una linea divergente dagli interessi del capitale statunitense e occidentale. Divergente da cosa? Dal capitalismo? Ci mancherebbe altro! Divergente dall’accentramento ai massimi poteri dell’imperialismo: per i quali lo sviluppo capitalistico della Cina deve proseguire, eccome!, ma sottomesso e funzionalizzato alla rianimazione dell’organismo in crisi degli Stati Uniti e dell’Occidente.

Gli Usa sono gentiluomini, si sa, e non intendono neanche muovere guerra alla Cina. Vogliono “solo” arginare l’ascesa della borghesia cinese, la sua pretesa di guidare la Cina sulla stessa via percorsa dagli Usa e dai paesi capitalistici dell’Europa occidentale dalla fine del XIX secolo. Vogliono “solo” che Pechino la smetta di tessere una tela di alleanze nel resto dell’Asia, in Africa e in America Latina e di far leva su essa per assicurarsi il rifornimento di materie prime senza sottostare alla benevolenza degli Usa e  dell’imperialismo. Gli Usa vogliono “solo” che la classe dirigente cinese si rassegni al ruolo di cinghia di trasmissione sulle masse lavoratrici cinesi degli ordini di Washington e di Bruxelles, seguendo l’esempio dei “ribelli” libici. Non vogliono certo far tornare i proletari cinesi nei campi. Vogliono “solo” che la smettano di rivendicare, e non solo a parole, migliori salari, limitazioni della giornata lavorativa e il diritto effettivo di organizzare l’iniziativa sindacale dentro le fabbriche delle multinazionali.

La classe dirigente statunitense ha compreso che non può realizzare questo obiettivo con la politica unilaterale di Bush e dei neo-cons. Ha realizzato con Obama che non si sta scontrando semplicemente con i vertici dello stato cinese, ma con miliardi di persone, in Cina e in Asia. Che gli obiettivi vanno perseguiti con una strategia più articolata fondata su due perni. 1) Accerchiare e isolare la Cina. Cominciando da  lontano”, dall’Africa, con la riconquista della Libia e la secessione del Sudan meridionale. Proseguendo con la Siria e l’Iran, uno dei principali fornitori di gas e di petrolio della Cina. Arrivando alla costituzione di un bastione Nato in Afghanistan, alle spalle della Cina e nel cuore dell’Eurasia, in una zona strategica per le vie di comunicazione e per il controllo delle sorgenti dei grandi fiumi asiatici. 2) Aizzare le rivalità tra la Cina e i paesi e i popoli dell’Estremo Oriente. Incoraggiando il militarismo dei tradizionali alleati, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda, a loro volta incaricati di agganciare l’Indonesia, magari dopo una preliminare “cura jugoslava” per la quale si è già piazzata una mina a Timor. Intensificando le lusinghe verso l’India e il Vietnam e i rispettivi popoli, che si vedono offerte da Washington le tecnologie nucleari che l’Iran non dovrebbe possedere. Reiterando i tentativi pluridecennali di alimentare spinte centrifughe ai confini tibetani e centro-asiatici della Cina, magari a favore di una federazione di stati turchestani sotto l’egida della Turchia anche in funzione antiradicalismo islamico. Accelerando il riarmo e la messa a punto di sistemi d’arma specifici per colpire la Cina, soprattutto le nano-bombe nucleari e il sistema di controllo totalitario dello spazio. Il tutto condito con una propaganda nauseabonda secondo la quale gli Usa e i loro alleati sarebbero preoccupati della salvaguardia del progresso e della sovranità dei popoli asiatici minacciata dal lupo cinese. Ricordate la favola del lupo che accusava l’agnello a valle di intorbidargli l’acqua del torrente che stava bevendo?

La Cina

La Cina, da parte sua, non vuole alcuna guerra contro gli Usa e l’Occidente imperialista e meno che mai contro l’India o il Vietnam. Vuole “solo” garantirsi l’accesso al petrolio che acquista in Sudan, in Angola, in Iran, in Venezuela. Vuole solo garantirsi l’accesso alle terre dell’Africa e dell’America Latina da cui trarre le risorse agricole richieste da una popolazione urbana crescente e da un’agricoltura che entro i confini cinesi ha raggiunto rese difficilmente elevabili. Piccola difficoltà: le flotte commerciali che garantiscono questi traffici di Pechino sono costrette a transitare attraverso lo stretto di Malacca e l’oceano Pacifico oggi  rigidamente controllati dalle flotte Usa e dalle basi Nato. Di qui il tentativo cinese, capitalisticamente ineccepibile, di garantirsi vie di transito alternative. Ad esempio un collegamento diretto tra la Cina e l’oceano Indiano attraverso la catena himalaiana e il Pakistan ad ovest e attraverso la penisola indocinese e il Myanmar a est. E visto che le indagini geologiche hanno accertato l’esistenza di ingenti giacimenti petroliferi sotto i fondali del mar Cinese meridionale, non è capitalisticamente legittimo che Pechino cerchi di assicurarsene lo sfruttamento? Come, si chiedono a Pechino, Washington e Bruxelles non ci hanno pensato due volte a far molto di più per rimettere le mani sui pozzi di petrolio dell’Iraq e della Libia a migliaia di chilometri dalle loro capitali e noi, qui a Pechino, non possiamo trivellare i pozzi davanti alle nostre coste?

Pechino non vuole la guerra con gli Usa e con l’Occidente. Vuole “solo” che le imprese e gli investimenti cinesi si sottraggano allo strapotere di una moneta, il dollaro, che viene manovrata solamente a tutela degli interessi dei banchieri e delle imprese Usa. Non abbiamo piena legittimità, si domandano a Pechino, nel fare altrettanto, nel richiedere, insieme ad altri paesi del Sud del mondo, di basare gli scambi internazionali su un paniere di monete più equilibrato di quello fondato sul totalitarismo del dollaro?

La Cina non vuole la guerra con gli Usa e l’Occidente. Vuole “solo” solo continuare il suo sviluppo  capitalistico entro il mercato mondiale e a tal fine compiere il salto da un’accumulazione di tipo estensivo ad un’accumulazione di tipo intensivo, simile a quello davanti al quale si trovò l’ex-Urss negli anni settanta-ottanta del Novecento. A differenza dell’Urss di Andropov-Gorbaciov, la Cina ha a sua disposizione alcuni assi per non esserne disarticolata anzitempo a vantaggio dei predoni imperialisti. L’ex-Urss si scontrò con difficoltà quasi insormontabili nell’accesso ai capitali liquidi e alle tecnologie avanzate di cui aveva bisogno. Il crollo dell’Urss ha trovato in ciò la sua causa di fondo, con effetti dirompenti quando si associò alla fase asmatica in cui era piombata l’accumulazione capitalistica mondiale negli anni settanta-ottanta. La Cina si trova in una condizione diversa. È dotata di consistente capitale liquido, pur se una parte di esso è fissata in una forma poco mobile qual è la sottoscrizione di titoli di stato statunitensi. Ha accesso alle tecnologie  avanzate e ha una arma efficace per continuare ad estorcerne ancora alle multinazionali: l’acquolina in bocca che fa venire il suo mercato delle braccia e di smercio. Per avervi accesso le multinazionali accettano, loro malgrado, di investire in imprese miste nelle quali è prevista la condivisione delle tecnologie e delle conoscenze implicate dal processo produttivo. La Cina ha, nel frattempo, costituito anche il capitale umano per portare avanti la ricerca scientifica e tecnologica. Addirittura sono rientrati in Cina, dagli Usa, molti giovani scienziati cinesi, attratti dalle possibilità e dalle offerte lanciate dalla Cina, dai suoi laboratori, dalle sue  università. Quando più ebbe bisogno produttivo e militare, l’Urss subì, invece, un’emorragia in senso opposto. Infine ci sono da considerare le dimensioni della Cina. Quelle demografiche dell’Urss erano paragonabili a quelle degli Usa. Con la Cina siamo ad un livello superiore di un fattore cinque. E questa differenza quantitativa, in mezzo alle altre, può diventare una differenza qualitativa. E anche grazie alla storia millenaria che ha alle sue spalle, e che è un elemento fondamentale della forza del risorgimento asiatico, la classe borghese cinese guarda con orgoglio alle realizzazioni compiute e non vuole rinunciare al futuro che si ritiene riservato.

La classe dirigente cinese non vuole, quindi, la guerra con gli Usa o con altri paesi asiatici. Ma se fidarsi è bene, nella giungla capitalistica, non fidarsi è meglio, come insegna la storia della Jugoslavia, dell’Iraq e della Libia. E per evitare che la superpotenza che totalizza il 60% delle spese militari del mondo si illuda, come è accaduto con la Jugoslavia, l’Iraq e la Libia, di tentare l’azzardo contro Pechino contando sullo  strapotere delle proprie forze armate, non è una buona precauzione formare un cordone sanitario di paesi alleati o neutrali ai confini della Cina e aggiornare i sistemi d’arma cinesi, sviluppare la marina militare e dotarsi di un autonomo sistema di sorveglianza spaziale? Meglio, quindi, precauzionarsi. Da un lato, con un serio programma di ammodernamento militare, soprattutto nella flotta dei sommergibili e nel controllo spaziale. Dall’altro lato, con una manovra diplomatica articolata, volta a disinnescare le storiche  controversie di confine con i due grandi vicini asiatici, l’India e la Russia, a intrecciarvi profittevoli relazioni nello scambio tecnologico e a stabilire buoni rapporti con alcune delle repubbliche ex-sovietiche centroasiatiche(dove si trova un’altra delle zone vitali per l’approvvigionamento di petrolio per Pechino) contendendo palmo a palmo il controllo della zona strategica agli Usa.

Le classi dirigenti dell’India e del Vietnam

Torniamo a Washington, mettiamoci nei panni dei gentiluomini della Casa Bianca. Chiediamoci con loro: possiamo lasciar fare la Cina? non ci ritroveremmo fra i piedi un gigante capace di pestare i nostri interessi strategici nell’area e nel mondo? possiamo permettere che, anziché consegnare ai forzieri occidentali il plusvalore estratto dal sudore dei proletari cinesi e asiatici, esso lo accentri nelle banche cinesi e lo redistribuisca, in una misura infima ma comunque intollerabile per i listini di borsa di Wall Street e Francoforte, verso gli stessi proletari cinesi? Con quali conseguenze per i nostri profitti? Con quali conseguenze, visto il ruolo degli Usa nell’ordine capitalistico mondiale, sulla stessa stabilità di questo ordine?

Un ruolo cruciale nello scontro in corso è e sarà giocato dai paesi dell’Asia, soprattutto da quelli verso  cui gli Usa hanno intrapreso negli ultimi sette anni una ammaliante manovra avvolgente, il Vietnam e l’India. Cosa succede nelle sfere dirigenti di questi paesi?

Le “classi dirigenti” dell’India e del Vietnam, pur se in passato hanno sperimentato la contrapposizione con l’imperialismo Usa e Ue, non ne vedono negativamente la crescente intromissione nelle vicende politiche e diplomatiche dell’area. Sono tentate di vedere in questa intromissione un’arma per contrattare con Pechino condizioni meno sfavorevoli negli scambi economici e nella definizione dei rapporti reciproci. Lo sviluppo capitalistico sta unendo i paesi dell’Asia, creando una piattaforma industriale unitaria, ma nello stesso tempo li sta dividendo e contrapponendo perché ogni borghesia asiatica guarda al suo “particulare” e crede di poterlo tutelare giocando su più tavoli, bluffando, mentendo, come ha imparato dalle sue sorelle maggiori dell’Occidente. Le danze sono iniziate. Per la prima volta dalla fine della guerra di liberazione che, nel 1975, cacciò gli Usa dal Vietnam, nel giugno 2010 un primo ministro vietnamita si è recato in visita a Washington. Phan Van Khai, il capo del governo di Hanoi, ha dichiarato che “le relazioni tra i due paesi sono entrate in un nuovo stadio di sviluppo”. Non solo  sul piano degli investimenti, dove, sempre secondo le parole di Phan Van Khai, “gli Stati Uniti possono trovare in Vietnam [di cui già oggi sono il primo partner commerciale, n.] un potenziale cooperatore, con la nostra popolazione di 80 milioni di persone (che significa un enorme mercato per il business statunitense) e con i lavoratori very hard-working”. Ma anche su quello diplomatico-militare, con la firma di un accordo di cooperazione strategica. Di esso poco è trapelato, ma qualcosa si può inferire dalle posizioni accesamente anti-cinesi del Vietnam nello sfruttamento delle risorse petrolifere del mar Cinese meridionale.

Passa qualche settimana, e a Washington arriva il primo ministro indiano Manmohan Singh. “Per marcare l’eccezionalità dell’evento, il leader indiano è stato accolto da ventuno salve di cannone e ammesso a parlare al Congresso come accade ai membri dei rappresentanti ufficiali dei paesi anglosassoni. Nel corso dell’incontro è stato firmato un accordo che prevede la fornitura dagli Stati Uniti all’India di tecnologie per le centrali nucleari e dei sofisticati aerei militari F-15 e F-18. Come mai gli Stati Uniti, che minacciano Teheran per il suo tentativo di dotarsi di centrali nucleari e fanno pressioni su Mosca e Pechino affinché interrompano la fornitura della corrispondente tecnologia all’Iran, aiutano invece New Delhi a sviluppare l’industria nucleare?

Certo l’India è, più ancora del Vietnam, un grande mercato di consumatori e un esercito di braccia a basso costo che fa gola ai consigli di amministrazione delle imprese statunitensi e che, per le sue dimensioni, può diventare una leva per gli Stati Uniti per gettare nel caos la Cina con il dirottamento improvviso (sul tipo di quello orchestrato dal filantropo Soros nel 1997) di miliardi di dollari di investimenti esteri dalla Cina (e dai suoi alleati nell’area, dal Myanmar alla Thailandia al Pakistan) all’India. Ma dietro l’accordo nucleare tra l’India e gli Usa c’è anche dell’altro. Gli Stati Uniti si oppongono da tempo al progettato gasdotto tra l’Iran e l’India via Pakistan, che dovrebbe fornire una parte dell’energia richiesta dall’impetuoso sviluppo capitalistico dell’India e che dovrebbe continuare fino al Myanmar e da qui verso la Cina bypassando interamente la penisola indocinese. La costruzione di nuove centrali nucleari potrebbe essere per l’India un’alternativa al proprio inserimento nel corridoio energetico in costruzione dal Medioriente alla Cina. E così favorire il progetto statunitense di agganciare l’India entro l’alleanza occidentale in funzione anti-cinese. La classe dirigente indiana non ha fatto ancora una scelta. Alcuni settori sono tentati dall’alleanza con la Cina, una versione aggiornata della simpatia di Bose durante la seconda guerra mondiale per la sfera di “co-prosperità asiatica” promossa in quegli anni dall’imperialismo giapponese.

Pechino sta cercando di favorire questa dislocazione, anche mediante la pressione costituita dall’anello di alleati che sta costruendo ai confini dell’India, con il Pakistan, il Bangladesh, il Nepal, il Myanmar. Allo stesso tempo gli interessi economici e strategici della borghesia cinese e di quella indiana in Asia (regione himalayana, Bangladesh, Oceano indiano), i loro rapporti (da un lato di convergenza, dall’altro di scontro) con il mondo islamico, gli effetti delle diverse modalità con cui il movimento nazionale ha conquistato nei due paesi l’indipendenza politica dal colonialismo, questi e altri elementi spingono verso un rapporto conflittuale tra i due giganti asiatici e una probabile (non sicura) collocazione filo-statunitense della borghesia indiana. “L’India ha avuto interesse a stabilire stretti rapporti con Washington sin dalla fine della guerra fredda, ma gli Stati Uniti sono rimasti sulle loro fino a poco tempo fa. Dopo i polacchi, gli indiani sono il popolo che ha la più alta opinione dell’America; e quest’ultima ha bisogno di un forte alleato asiatico, dotato di dinamismo economico e di grande ascendente culturale, a fronte di una Cina che  continua a rafforzare i suoi legami con i paesi dell’Asean. (...) Per contenerla gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India, così come la Gran Bretagna, nel XIX secolo, cercò di arginare l’espansionismo tedesco con il sostegno della Francia”.

La polizza assicurativa

Tiriamo una prima somma. Come scrive uno dei più acuti strateghi del Pentagono e del Dipartimento di stato, Brzezinski: “l’Asia sta diventando non solo il futuro baricentro economico del mondo, ma anche il suo potenziale vulcano politico” (Z. Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1997, p. 206). Arriverà ad esplodere? E secondo quali schieramenti di campo? Assisteremo allo scontro (che non potrà essere che mondializzato) tra la Cina e gli Stati Uniti? E quale posizione assumeranno l’Ue e il Giappone? ’antagonismo tra gli Stati Uniti e la Cina si coagulerà nella contrapposizione di uno schieramento Nord-Sud oppure s’intreccerà con una divaricazione tra gli stessi paesi imperialisti? E quale posizione ha interesse ad  assumere in questo quadro, suscettibile al momento di diversi sbocchi, la classe internazionale degli sfruttati?

Prima domanda: arriverà ad esplodere? Risposta: nessuno vuole, al momento, la guerra, né locale né planetaria. A tener banco, al momento, è la strategia della polizza assicurativa, come è stata chiamata da un altro fine analista imperialista, l’ex-direttore (dal 1993 al 2006) del settimanale The Economist, B. Emmott: “Provate a immaginare di essere un alto funzionario -uno stratega della difesa o un pianificatore- in India, in Cina o in Giappone. Sapete che il vostro governo si dichiara ufficialmente amico di tutti i vicini, perseguendo a 360 gradi la diplomazia del sorriso. Ma sapete anche che gli interessi economici del vostro paese si stanno facendo più diffusi e profondi, che lo stesso vale per quelli dei vostri vicini, e che in futuro i vostri vicini diverranno probabilmente più forti. Che cosa fareste? La risposta è che, pur riconoscendo che le intenzioni delle altre grandi potenze potrebbero dimostrarsi del tutto onorevoli e amichevoli, direste che il vostro paese dovrebbe rafforzare il proprio esercito e le proprie capacità tecnologiche, e consolidare le  proprie alleanze diplomatiche e militari, come una forma di polizza assicurativa contro la possibilità che i tempi cambino e che le intenzioni delle altre grandi potenze si facciano ostili” (B. Emmott, Asia contro Asia, Rizzoli, Milano, 2008, 352). Lo sbocco? “Il Medioriente potrebbe determinare la situazione della pace nel mondo nei prossimi cinque anni; ma nei prossimi dieci, quindici o venti, l’Asia sarà probabilmente più importante. Il dramma verrà a porre le nuove potenze emergenti contro le vecchie potenze dell’America e dell’Europa; e metterà le nuove potenze asiatiche l’una contro l’altra e contro il primo modernizzatore della regione, il Giappone. Nell’economia e nel mondo degli affari, la competizione avrà risultati  straordinariamente positivi. In politica, non ne possiamo essere così sicuri” (ib., p. 364).

La soglia critica

In realtà sono proprio “l’economia e il mondo degli affari” (capitalistici), la competizione ad alimentare la spirale dell’insicurezza. Guardiamo, rimanendo agli ultimi anni, alla catena di azioni, azzardi, rilanci, bluff, reazioni generata dalla strategia della polizza assicurativa. L’abbiamo riassunta nell’articolo del numero 76 di “che fare”. Ne dà un aggiornamento relativo all’ultimo anno Le monde diplomatique del novembre 2012 nell’articolo “Tensioni nel mar della Cina”, salvo addebitare la responsabilità delle crescenti rivalità regionali, secondo il copione del lupo e dell’agnello, alla Cina e, soprattutto, al nazionalismo del popolo cinese. Tale catena non potrà fermarsi, con le tensioni sul piano militare destinate a intrecciarsi e a rinfocolarsi con quelle sul versante economico e con lo scontro tra le classi all’interno dei singoli paesi. Fino al giorno in cui sarà sufficiente un cerino per dar fuoco alle sostanze infiammabili accumulate nella politica mondiale. E così, senza che nessuno lo abbia scientemente voluto, si arriverà allo scontro militare, prima limitato e poi, per la stessa fatale concatenazione, sempre più allargato, secondo la dinamica degli apprendisti stregoni già vista in occasione dello scivolamento nella prima e nella seconda guerra mondiale. Magari a partire da una scintilla nel mar cinese Meridionale, come pronostica alla fine del suo libro “Lo scontro delle civiltà” un altro stratega statunitense, Huntington in cinque pagine che consigliamo di leggere per farsi un’idea del futuro che ci aspetta e che riportiamo sul nostro sito. O magari a partire da una scintilla in Asia centrale e in Siberia, come sembra preferire il già citato Brzezinski. Esperto della guerra fredda con l’ex-Urss, consigliere di Obama, Brzezinski invita a non entrare subito in rotta di collisione con Pechino, a spingere la Cina, riconoscendole il ruolo di potenza capitalistica in ascesa in Asia, a cercare il suo “spazio vitale” nella parte orientale della Russia (le sterminate terre siberiane e l’Asia centrale) in modo da creare malumore odio risentimento tra le popolazioni locali verso la “colonizzazione” han.

A preoccupare Brzezinski è il rischio che lo scontro diretto con la popolosa Cina possa accendere lo scontro sociale all’interno degli Usa tra la classe sfruttata e quella sfruttatrice sull’onda di una sonora sconfitta o di un impantanamento militare degli Stati Uniti, come accadde alla Russia zarista a Port Arthur nel 1904  durante la guerra contro l’ascendente potenza asiatica giapponese. Per evitare questo rischio, Brzezinzki sogna di trovare l’ariete da lanciare contro il popolo cinese nella massa dei lavoratori slavi e turcofoni dell’Asia centrale, dopo aver scavato tra questi e i proletari cinesi un baratro d’odio (che al momento non c’è) per fare dei proletari slavi una manovalanza desiderosa di révanche verso la Cina. Si realizzi o meno questa evoluzione, si schieri l’Ue con gli Usa oppure in una posizione autonoma o magari in alleanza con la Cina, le preoccupazioni della classe dirigente Usa confessano un altro fondamentale aspetto della corsa verso il nuovo scontro bellico: oltre i popoli e il proletariato del Sud mirino il proletariato occidentale.

Non è facile stabilire i tempi e le modalità di questo percorso verso l’accensione del fiammifero. Di sicuro all’immediato continuerà l’erosione del potere degli Usa, il rafforzamento delle posizioni della Cina e del Brics. Ma questo non sarà l’inizio della transizione verso un ordine mondiale multilaterale più giusto e pacifico nelle relazioni tra i popoli. Sarà il modo in cui si presenterà la corsa verso l’abisso. Determinata dal fatto che la riproduzione allargata degli antagonismi intrinseci al sistema capitalistico, prima di tutto la concorrenza tra l’imperialismo e le potenze capitalistiche emergenti e la contrapposizione di entrambi verso il proletariato mondializzato, sta superando la soglia critica oltre la quale essa diventa una mina per l’alveo dell’accumulazione capitalistica mondiale. I lavoratori di tutti i continenti hanno interesse a contrapporsi a questa corsa, il cui sbocco sarà per loro (per tutti loro) una tragedia. Ne discuteremo nel prossimo numero del che fare. 

La cartina pubblicata sul Che Fare è ripresa dalla rivista “Le Scienze”. Nel suo numero di dicembre 2011, la rivista pubblica un articolo intitolato “I tesori sepolti dell’Afghanistan”. Vi racconta della spedizione geologica organizzata dal Pentagono e da alcune prestigiose istituzioni scientifiche statunitensi per esplorare il sottosuolo del paese. La “U.S. geological survey” ha rinvenuto ferro, metalli preziosi e terre rare (tra cui il neodimio usato per i supermagnetici delle auto ibride), soprattutto nella parte meridionale dell’Afghanistan, quella controllata dalla resistenza afghana. Nell’articolo si accenna anche al fatto che negli ultimi anni è cresciuta la presenza cinese nel settore minerario afghano: nel 2007 la China Metallurgical Group “si è aggiudicato per 2,9 miliardi di dollari i diritti di sfruttamento dell’enorme giacimento di rame di Aynak in prossimità di Kabul” (p. 94).

Che fare n.77 dicembre 2012 - aprile 2013

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