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Che fare n.76 Giugno - Ottobre  2012

Crisi in Italia, crisi in Europa 

L’attivismo in politica estera del governo Monti

Le iniziative del ministro degli esteri Terzi, quelle del ministro della Difesa generale Paola, i viaggi di Monti in Libia e negli Usa: il governo Monti è particolarmente attivo anche in politica estera. Il governo e i mezzi di informazione sostengono che i lavoratori possono guardare con orgoglio a questo versante della politica del governo Monti e al ritrovato ruolo internazionale dell’Italia.

Non è così.

L’azione del governo in politica estera è un altro binario su cui viaggia l’attacco contro i lavoratori in Italia. La denuncia di ciò è un elemento vitale per organizzare una coerente linea di difesa degli interessi proletari.

 Come abbiamo denunciato già nel numero scorso del “che fare”, la nomina di un generale a ministro della Difesa e, in particolare, di un generale con un ruolo di primo piano nella spedizione della Nato in Afghanistan, era già tutto un programma. Le conferme non hanno tardato a venire. Pur se ridimensionato, il governo Monti ha mantenuto il programma di acquisto dei cacciabombardieri nucleari F-35 stabilito dal governo Berlusconi-Bossi: non più 130 ma 90. Ogni aereo costa 120 milioni di euro, in tutto 11 miliardi a cui vanno aggiunti 18 miliardi per l’acquisto (programmato dal governo Berlusconi-Bossi e confermato anche in questo caso da Monti) di 121 Eurofigther (il manifesto, 4 gennaio 2012). La motivazione è contenuta in un documento del neo-ministro degli esteri Terzi di Sant’Agata sulla politica estera italiana: l’Italia deve partecipare alle operazioni in scenari di crisi per consolidare la sua credibilità internazionale. Gli scenari di crisi sono individuati in Libia, Afghanistan, Corno d’Africa e Libano. Non sono nebulose intenzioni.

Seguiamo da vicino le iniziative del governo italiano.

Il 21 gennaio Monti è a Tripoli con l’obiettivo di recuperare il terreno perduto in Libia e in Nordafrica a vantaggio dei concorrenti francesi e inglesi. Prende accordi con i nuovi dirigenti libici per formare le strutture di polizia del paese. Lo stesso ministro Di Paola ammette che 100 militari italiani sono già al lavoro. Negli stessi giorni il ministro degli esteri Terzi è al Cairo, per chiedere alla giunta Tantawi la stabilità politica necessaria alla coltivazione degli affari della Technint, della Eni, della Pirelli, della Cemento, della Avio in Egitto e alla redditività dell’investimento di un miliardo e mezzo di euro di Banca Intesa nel sistema bancario egiziano. Il maresciallo Tantawi garantisce che non ci saranno nazionalizzazioni (La Stampa, 20 gennaio 2012). Il 24 gennaio il governo Monti è in prima fila nel varo da parte dell’Ue dell’embargo petrolifero totale sul petrolio importato dall’Iran e sulle operazioni con la Banca centrale iraniana. Sull’onda della decisione, Scaroni, presidente dell’Eni, dichiara che l’Eni si sta attrezzando per rompere ogni scambio petrolifero con l’Iran dal 1° luglio 2012 e per sostituire le importazioni italiane dall’Iran (13%) con acquisti da altre destinazioni, tra le quali spiccano la Libia (riconquistata) e il Mozambico. Il 27 gennaio il ministro della Difesa Di Paola comunica al Parlamento che i caccia Amx italiani in Afghanistan potranno accompagnare le missioni di ricognizione svolte finora con missioni di bombardamenti. In parallelo il senatore Tempestini del partito democratico (uno dei partiti che sostiene il governo Monti) annuncia un decreto-legge per rendere permanente il finanziamento delle missioni militari e non farlo dipendere dal periodico rinnovo parlamentare. Il 9 febbraio Monti è a Washington. Le strette di mano con Obama sanciscono il consolidamento dell’alleanza tra i due paesi e della collaborazione nei cosiddetti scenari di crisi. L’Italia, ad esempio, accetta di sostenere la costruzione (entro il 2017) del nuovo sistema di sorveglianza globale Ags promosso dagli Usa e il proposito di installarne la base principale nell’isola di Sigonella. Il sistema Ags si annuncia come uno dei più costosi sistemi d’arma della Nato. “L’accordo sull’Ags, ha dichiarato il segretario generale della Nato Rasmussen, è un passo fondamentale verso un sistema di sorveglianza dell’Alleanza in grado di dare ai comandanti una fotografia precisa di qual è la situazione sul terreno. La recente operazione in Libia ha dimostrato quanto importante sia questa capacità” (il manifesto, 4 aprile 2012). Il 27 aprile, al termine dell’incontro con il segretario generale della Nato Rasmussen, Monti dichiara che le ristrettezze di bilancio dell’Italia non causeranno un disimpegno militare in Afghanistan. L’Italia attualmente schiera 4000 militari in Afghanistan all’interno di un contingente internazionale Isaf di 130mila militari. “L’Italia, dichiara Monti dopo l’incontro con Rasmussen, resterà in Afghanistan anche dopo il 2014 per proseguire la sua azione a sostegno del popolo afghano” (la Repubblica, 28 aprile 2012). Ad esempio con l’addestramento delle forze di polizia afghane, come è stato stabilito nell’accordo bilaterale firmato a Roma da Monti e Karzai il 26 gennaio 2012.

Con queste iniziative il governo Monti sta cercando di superare uno dei limiti borghesi del governo Berlusconi: la rassegnazione di fronte alla emarginazione del ruolo dell’Italia dalla scena internazionale. Non è una rodomontata. Non lo è perché l’Italia non è un paese di secondo piano, come invece si ritiene comunemente. L’Italia è stata ed è parte integrante della banda di avvoltoi che saccheggia il lavoro salariato mondiale e ne dirige la spartizione. Ha conquistato e difeso questo ruolo con i denti sin dal giorno successivo al compimento dell’unità nazionale. Anche con un’iniziativa colonialista in proprio di ampio respiro che si è spinta fino in Cina (v. pag. seguente). Anche oggi l’Italia non è una potenza capitalistica marginale. Certo, i suoi muscoli non sono comparabili a quelli Usa, ma le mascelle sono, proprio per questo, se possibile, più fameliche. L’Italia partecipa al capitale finanziario mondiale. Le imprese italiane controllano all’estero 21mila aziende diffuse in 165 paesi, dove sono impiegati 1,5 milioni di addetti per un fatturato di 378 miliardi di euro (Istat, 2011). L’Italia ha una spesa militare di 23 miliardi di dollari, la ottava nel mondo (1). Sta modernizzando il suo apparato militare e si sta dotando di sistemi di arma offensivi per partecipare in proprio al dispositivo Nato per il controllo spaziale, oceanico e terrestre del globo. Partecipa a missioni militari nei cinque continenti con 8000 militari. A fare cosa? A difendere il progresso, la civiltà, la liberazione dei popoli? Per trovare la risposta basterebbe riflettere sulla vicenda dei marò imbarcati sulle navi mercantili che solcano l’oceano Indiano per conto delle imprese italiane e dell’assassinio da loro perpetrato contro alcuni pescatori indiani. La proiezione internazionale dell’Italia, delle sue forze armate, della sua diplomazia serve a conservare il dominio occidentale sui popoli e sui lavoratori del Sud del mondo. Serve per partecipare in posizione privilegiata al godimento dei frutti di questo dominio. Senza nessun servilismo verso gli Usa. Come è emerso in occasione dell’incontro tra Monti e Rasmussen a Roma del 27 aprile 2012, quando Monti ha espresso la contrarietà dello schieramento del sistema antimissile Nato in Europa dell’Est per non ostacolare il tentativo, nel quale l’Italia è particolarmente attiva, di attrarre la Russia entro un’alleanza strategica con la Nato.

I lavoratori italiani sono indifferenti a questo versante della politica del governo Monti oppure sperano che da esso possa venire qualche vantaggio anche per loro. Ad esempio con l’approvvigionamento a prezzi più contenuti del petrolio e di altre materie prime.

Ora, qualche spicciolo di questo tipo potrebbe anche esserci. Ma questo ipotetico vantaggio immediato va considerato all’interno di una valutazione di bilancio più ampia. Che comprende anche il prezzo politico salatissimo derivante dal consolidamento dell’appoggio del proletariato alla politica estera dell’Italia e dalle implicazioni di questa politica. Due in particolare.

Primo. Non ci si illuda di poter imporre facilmente la mano rapace dell’imperialismo italiano sui popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Non è stato così neanche in passato, come dimostra (ne abbiamo parlato nel numero 75 del che fare) la guerra di conquista della Libia. Ancor meno può esserlo oggi, quando ci si scontrerebbe con masse proletarie diventate numerose, orgogliose e capaci anche di colpire nella tana del lupo. La politica estera del governo Monti andrà prima o poi supportata con muscoli e sangue da parte della popolazione. Sarebbe la ripetizione all’ennesima potenza della tragedia che i lavoratori si procurarono legandosi al carro di Mussolini negli anni trenta e nella seconda guerra mondiale. Quale fu il costo complessivo delle guerre di conquista fasciste nei Balcani, in Nordafrica e in Medioriente? Dice niente il prezzo umano pagato dai marines Usa nella guerra di conquista e occupazione dell’Iraq?

Secondo. L’appoggio della politica estera del governo Monti porta a rafforzare tra i lavoratori italiani la convinzione tragica che i lavoratori degli altri paesi e soprattutto quelli del Sud del mondo siano nemici, mentre invece essi sono fratelli di classe con cui va costruita l’unità di lotta contro il capitale mondializzato.

Non sarà facile che la massa dei lavoratori in Italia si sottragga a questo incantesimo prima di essere stata presa alla gola dalle conseguenze della politica borghese cui oggi si accoda. Che almeno un nucleo di proletari apra gli occhi fin da adesso e inserisca la denuncia della politica estera italiana nell’attività per organizzare una vera opposizione ai provvedimenti del governo Monti sulle pensioni, il mercato del lavoro, la Tav, ecc.

 (1) Vedi il Rapporto 2012 sulla spesa pubblica curato da Sbilanciamoci (www.sbilanciamoci.org) e il rapporto annuale dell’Istituto Internazionale per le Ricerche per la Pace di Stoccolma (Sipri). (Torna al testo)

 

 

Che fare n.76 Giugno - Ottobre  2012

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