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Che fare n.76 Giugno - Ottobre  2012

Il razzismo arma del padrone

 Gioia del Colle, che sorge su una collina a metà strada tra Taranto e Bari, è il paese della mozzarella (…) Per battere sul tempo i grandi caseifici, Girardi faceva lavorare tutti di notte, dalle 10.00 di sera fino alle 6.00 del mattino. Ma mentre i dipendenti italiani seguivano le fasi lente della trasformazione del latte in massa, i marocchini dovevano correre da una parte all’altra. Prendere il siero. Versare l’acqua bollente. Spostare la cagliata. Trasportare le lastre di ghiaccio che servono a condensare il prodotto. Caricare i contenitori. Impilarli nei furgoni. A ripensarci oggi, Ismail prova una gran nausea, come se un enorme boccone di quella pasta bianca e gelatinosa gli si fosse fermato in gola e non volesse andare né su né giù. Gli manca il respiro. Ma non è il ricordo della fatica a farglielo mancare. È quello delle offese, delle umiliazioni.
In due anni, al Caseificio America, il padrone non lo ha mai chiamato per nome. Lo ha apostrofato «negro», «sporco negro», «ciuccio», «testa di cazzo», «trimmone» e con tutte le varianti offensive che il dialetto delle Murge contempla (…) Se Ismail ancora oggi dà tanta importanza alle parole, è perché la riduzione a una condizione subumana è stato il preludio allo sfruttamento. Per essere precisi, più che un luogo di sfruttamento il Caseificio America era un classico esempio di apartheid lavorativa, di regime segregazionista impiantato nella provincia pugliese. Sì, perché a Ismail e agli altri cinque marocchini era applicato un trattamento diverso rispetto agli altri dipendenti. Mentre gli italiani (in tutto cinque) potevano andarsene via all’alba, loro erano costretti a rimanere fino alle 9,00 per pulire il pavimento, le cisterne, gli strumenti di lavoro. Mentre gli altri italiani venivano pagati in nero, ma con assegni, e con una retribuzione accettabile, loro – i marocchini – venivano pagati 16 euro al giorno, cioè 400 euro al mese, in contanti.
Tanto non potevano protestare. Non c’erano ferie, né proteste, né diritti al Caseificio America. (…)

Con 400 euro al mese, Ismail riusciva comunque a campare. Vivevano in tre in uno stanzone di 35 metri quadri, pagando 100 euro al mese di affitto. Ogni giorno si buttava sul letto esausto alle 10 del mattino e si rialzava alle 8 di sera, giusto in tempo per mangiare un boccone e tornare al caseificio. Invisibile a sé e agli altri, fino a quando non ce l’ha fatta più e – insieme agli altri cinque – ha denunciato tutto. Tuttavia, quando sono andati al comando dei carabinieri, si sono sentiti dire dal maresciallo che tutti i datori si comportano così, che il lavoro a tempo indeterminato non c’è neanche per gli italiani e che loro che cosa pretendevano? Dovevano avere pazienza...

 

Da  http://www.rassegna.it/articoli/2012/01/31/82814/ismail-nel-paese-della-mozzarella

Che fare n.76 Giugno - Ottobre  2012

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