Che fare n.76 Giugno Ottobre 2012
Crisi in Italia, crisi in Europa
Come preparare il terreno per organizzare una difesa di classe?
Le schede che pubblichiamo nella pagina seguente mostrano che i provvedimenti varati dai governi nei vari paesi europei hanno caratteristiche, motivazioni e obiettivi simili.
I piani di austerità sono motivati con l’esigenza di risanare il debito pubblico e di rilanciare la competitività dell’economia nazionale ed europea. In suo nome viene imposto l’allungamento consistente dell’età pensionabile, si dà alle aziende ampia libertà di licenziare, si taglia la sanità pubblica e la “spesa sociale”, si allunga di fatto e di diritto l’orario lavorativo, si sgretola la contrattazione nazionale collettiva, si precarizzano e si flessibilizzano i rapporti di lavoro, si tagliano i salari (soprattutto con l’aumento della tassazione indiretta nazionale e locale). Nel precedente articolo ci soffermiamo sulle cause di ciò. In questo vogliamo ragionare su come i proletari possano mettere in campo una linea di difesa coerente.
Le risposte di piazza
Finora al centro dell’offensiva anti-proletaria sono stati i paesi mediterranei. In Grecia, Portogallo e Spagna (molto meno, almeno finora, in Italia) i lavoratori hanno provato a reagire. Ad Atene, Madrid, Barcellona e Lisbona hanno scioperato ripetutamente e più volte hanno riempito le piazze. Eppure, nella sostanza, le misure messe in piedi dai loro governi (e “suggerite” dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale) sono passate, e senza che in Europa, purtroppo, si sia acceso un duro scontro di classe. In Italia il governo Monti a maggioranza bipartisan ha portato a casa su pensioni e mercato del lavoro in pochi mesi quello che i precedenti governi avevano tentato di imporre da vent’anni e che i lavoratori avevano conquistato con un ciclo di dure lotte. Le stesse sacrosante mobilitazioni greche, per quanto nutrite e partecipate, non sono state attraversate da un sentimento di rifiuto di massa contro le politiche governative e la motivazione di queste politiche. Le quali, come è accaduto in Italia, sono apparse e appaiono alla stragrande maggioranza dei lavoratori inevitabili nella loro sostanza. Da mitigare nei loro aspetti più pesanti (e per questo si è andati in piazza), ma nel complesso da “subire” come una medicina amara senza alternativa. A determinare questa “sensazione di massa” concorrono una serie di fattori, tra loro legati.
Uno: la percezione (più che esatta) di avere a che fare con un attacco “deciso” a livello sovra-nazionale, in un ambito che le organizzazioni tradizionali dei lavoratori (regionali o nazionali) non sono in grado di condizionare.
Due: l’abitudine a concepire il proprio “benessere” legato indissolubilmente al “benessere” del capitale nazionale. Questa “abitudine” s’è formata nei secoli passati, nei quali i lavoratori europei hanno tratto beneficio dalla posizione di predominio mondiale occupata dal capitale europeo (ne parliamo nel precedente articolo). Ciò induce i lavoratori a ritenere che ci si possa salvare e si possa “evitare il peggio” solo contribuendo a rilanciare il “proprio” capitale nazionale e a non vedere realistiche alternative alle politiche di sacrifici richieste dalla "situazione attuale”.
Tre: la concorrenza al ribasso tra operai dei diversi continenti imposta dal capitale mondializzato, la quale al momento sta avendo un effetto paralizzante sulla classe lavoratrice europea. Si pensi, ad esempio, al caso Fiat e a quanto la pressione esercitata dalla concorrenza dei lavoratori degli altri paesi e continenti abbia costretto i lavoratori della Fiat di Pomigliano e Mirafiori ad “accettare” i nuovi contratti aziendali (fortemente peggiorativi) imposti da Marchionne subito dopo, non a caso, la “fusione” con la Chrysler.
Tutti più su? No tutti più giù.
A questi fattori si aggiunge l’illusione che gli attuali sacrifici, se utilizzati “bene” per “rilanciare la competitività del paese” nei settori tecnologicamente avanzati, potrebbero aprire le porte, in futuro, a un avvicinamento della condizione dei lavoratori dell’Europa mediterranea a quella dei lavoratori in Germania. Lo dice Monti quando, nel mentre bastona, agita la carota del “rilancio economico”. Lo sostengono i più noti “esperti economici”. Lo dicono anche il Pd di Bersani ed i vertici della Cgil, per i quali la politica governativa è “solo da correggere” con opportuni interventi che la rendano meno iniqua e più stimolante per la “crescita”. Lo sostengono in tanti, ma si tratta di uno specchietto per le allodole.
Che al momento una larga fascia di lavoratori goda in Germania (1) di condizioni di orario, salariali e normative migliori rispetto a quelle del restante mondo salariato continentale è un dato di fatto. Completamente falso è, però, che, con il tempo, le politiche in atto in Europa possano portare il resto del proletariato a migliorare verso gli attuali livelli tedeschi. È vero invece il contrario.
Nell’offensiva in corso contro il mondo del lavoro salariato in Europa si è partiti dalla “periferia” (o da paesi che, come l’Italia, proprio “periferia” non sono ma che versano in condizioni “particolari”) per puntare al bersaglio grosso: svalorizzare drasticamente il valore della manodopera dei lavoratori della Germania e del cuore del continente.
Raggiungere un simile obiettivo non è semplice. La classe operaia tedesca conserva un’effettiva capacità di contrattazione collettiva e, inoltre, si trova in un contesto nazionale in cui la disoccupazione è al minimo dal dopo-unificazione del 1989. Ciò rende i lavoratori meno ricattabili. Per avere la meglio sul più numeroso proletariato industriale del “vecchio continente” vanno dunque costruite condizioni sociali adatte allo scopo. Bisogna costruire un mercato del lavoro unificato a scala continentale con una massa consistente di disoccupati e precari disposti a tutto, che i capitalisti possono utilizzare come (involontaria) arma di ricatto per porre sotto assedio il proletariato tedesco. Se consideriamo le misure prese dai governi dell’Europa mediterranea, vediamo che esse hanno tra i loro effetti quello di rimpolpare l’esercito industriale di riserva europeo.
Preparare il terreno per una politica di classe
Questa situazione sta paralizzando la capacità di difesa del proletariato in Europa, di quello indigeno e anche di quello immigrato. Eppure è solo attraverso un ampio e duro ciclo di lotte che i lavoratori potranno cominciare a organizzare la difesa dei loro interessi.
Sicuramente lo sviluppo di questo ciclo non può essere deciso a tavolino da un’organizzazione (meno che mai quando essa è piccola come la nostra), magari con un’accorta scelta di parole d’ordine “magiche” o il semplice elenco di pur sacrosante rivendicazioni. Richiede che i lavoratori siano presi pesantemente per il collo dal capitale, e non solo sul terreno immediato, come non è ancora accaduto e come accadrà, anche e soprattutto per effetto dell’evoluzione della situazione internazionale in cui si colloca lo scontro politico in Europa.
Ma proprio in vista di questo inevitabile appuntamento, è e sarà necessario predisporre il terreno con una battaglia sindacale e politica, anche ultra-minoritaria, che cerchi di far emergere (anche a partire da momenti minimali di mobilitazione quali possono essere gli scioperi indetti dalla Cgil o le assemblee convocate nei luoghi di lavoro) spunti di riflessione politica sulla reale portata dell’attacco in corso, sull’illusorietà di potervisi difendere legando la tutela della condizione proletaria al rilancio della competitività aziendale e della potenza imperialista dell’Europa. E sul fatto che la difesa degli interessi proletari dipende solo dall’ampiezza e dalla radicalità del movimento di lotta dei lavoratori e dalla sua capacità di tessere l’unità delle fila proletarie, tra proletari italiani e proletari immigrati, tra proletari d’Italia e proletari di altri paesi europei, dei paesi europei del Sud e dei paesi europei del Nord, e tra questi e quelli degli altri continenti, compresi quelli nordamericani e di quelli asiatici.
Proprio per questo, proprio perché la difesa contro il capitale mondializzato richiede un’organizzazione altrettanto mondializzata, vanno denunciate e contrastate le politiche che dividono le fila della classe proletaria: l’illusione di poter risalire la china insieme con il rilancio della competitività; il razzismo; l’indifferenza o il sostegno verso le spedizioni neo-coloniali dell’imperialismo italiano. E vanno nello stesso tempo battute le vie per cominciare a stringere primi veri contatti di lotta e di organizzazione con i lavoratori degli altri paesi a scala europea ed extra-continentale per parificare al rialzo le condizioni di lavoro e i diritti sindacali-politici. Un passo in questo senso è connesso anche allo sforzo di conoscere e socializzare le lotte che i lavoratori asiatici, africani e latinoamericani stanno conducendo per strappare alle multinazionali e ai rispettivi governi salari minimi più alti, tetti all’orario di lavoro settimanale, spazi per un’effettiva iniziativa sindacale.
I pochi lavoratori che oggi intendono portare avanti questa battaglia non possono procedere isolati o in ordine sparso o vincolati in partiti che di fatto la minano con i loro riferimenti teorici e la loro prassi politica. Hanno bisogno di organizzarsi in un collettivo di lavoro in vista della formazione di un partito politico incardinato attorno ad una dottrina capace di permettere la comprensione della dinamica dello scontro tra le classi nei singoli paesi e a scala planetaria e di orientare conseguentemente l’iniziativa di classe. Per noi dell’Oci questa dottrina è unicamente quella del marxismo rivoluzionario, che va conquistata fondendo l’iniziativa politica tra i lavoratori e verso i lavoratori con un’attività di studio e di conferma della teoria marxista alla luce degli svolgimenti storici contemporanei.
Noi dell’Oci non siamo e non invitiamo ad essere velleitari. Siamo ben consapevoli del fatto che mancano, al momento, le condizioni, oggettive e soggettive, per la formazione di tale partito. Ma non è prematura un’iniziativa per la costituzione di nuclei organizzati che si muovano su questi binari e che inseriscano nella propria attività la battaglia contro la campagna sull’inutilità del partito per i lavoratori imbastita ossessivamente dalla borghesia. Che, da parte sua, si è ben guardata dal curare i suoi interessi a “mani nude”. I padroni e i loro rappresentanti istituzionali, nel portare avanti nei mesi scorsi l’attacco contro i lavoratori, si sono avvalsi di potenti apparati istituzionali e propagandistici. E pur provvisti di questi apparati e del potere economico, essi non stanno risparmiando energie per dotarsi di un partito o di un sistema di partiti all’altezza della situazione, come sta a indicare il lavorìo tessuto all’ombra del governo Monti da Casini, Rutelli, Pisanu, Bersani, Vendola in vista delle future elezioni politiche. I borghesi più accorti sanno che, nell’epoca di ferro che si prepara, non possono fare a meno di un partito e di un sistema di partiti capace di gestire lo stato e irreggimentare capillarmente la società in funzione dell’affermazione della potenza capitalistica italiana ed europea.
E i lavoratori dovrebbero continuare a nutrire diffidenza verso la formazione di un loro partito?
(1) La stessa situazione tedesca non va esagerata. Esiste infatti in Germania un’estesa fascia di lavoratori precari e “sottopagati”. Secondo un recente studio dell’Istituto per il lavoro dell’università di Duisburg-Essen vi sono circa 8milioni di lavoratori che percepiscono meno di 9,15 euro lordi all’ora e, tra questi, quasi un milione e mezzo prende meno di 5 euro. Sempre secondo questa ricerca il numero dei lavoratori a basse paghe tra il 1995 e il 2010 è cresciuto in Germania di oltre 2milioni di unità. (torna al testo)
Che fare n.76 Giugno Ottobre 2012
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA