Che fare n.76 Giugno Ottobre 2012
Com’era bello il colonialismo italiano in Cina !
È una menzogna, buona per oliare il brigantaggio capitalistico contemporaneo e accreditare i nostri briganti agli occhi dei lavoratori del Sud del mondo, quello che si sostiene di solito, e cioè che il colonialismo italiano sia stato impresa da operetta, che abbia procurato più danni che vantaggi all’Italia e che sia stato promosso dalla componente più arretrata della classe dominante italiane.
La storia mostra, invece, che è stato il capitale monopolistico dell’industria pesante e delle maggiori banche interconnesso con i vertici dello stato a premere, anche con la campagna propagandistica degli organi di informazione posseduti, per le imprese coloniali. Il colonialismo italiano fu così poco arretrato e insignificante che esso non si limitò a estendere la sua mano rapace sui Balcani, sul Nordafrica e sul Medioriente ma giunse a proiettarsi fino all’Estremo Oriente. Prima con la tela degli affari e della diplomazia e poi con la partecipazione alla spedizione imperialistica in Cina contro la ribellione degli Yi-He-Tuan (noti in Occidente con il nome di Boxers).
La spedizione fu organizzata dalle potenze capitalistiche nel 1900 in risposta alle ribellioni che i contadini, gli artigiani poveri e i disederati cinesi organizzarono contro le ramificazioni della piovra capitalista che stava scarnificando la Cina: le agenzie commerciali occidentali, le chiese cristiane e i centri missionari cristiani, le legazioni diplomatiche occidentali. Le aziende italiane avevano anch’esse le mani in pasta. Per coordinare i loro affari, nel 1897 si erano riunite nel Consorzio italiano per l’Estremo Oriente. Il consorzio riuniva 127 imprese italiane, tra le quali vi era il Credito Italiano, la Navigazione Generale Italiana e la compagnia di assicurazioni Universo, con sedi in Singapore, nella cosiddetta Bombay e a Hong-Kong.
Di fronte al moto popolare degli Yi-He-Tuan, le potenze occidentali misero da parte le rivalità con cui si fronteggiavano per spartirsi la preda cinese e organizzarono un corpo di spedizione unitario. Oggi si direbbe una missione di pace. Il senso dell’iniziativa è ben rappresentato dal messaggio con cui l’imperatore tedesco Guglielmo II salutò le truppe in partenza: “Pechino dovrà essere rasa al suolo. (...) È la battaglia dell’Asia contro l’Europa intera. (...) Nessuna grazia! Nessun prigioniero! Mille anni fa gli Unni di Attila si sono fatti un nome che è entrato nella storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome ‘tedesco’ [italiano, francese, inglese, statunitense... n.n.] di maniera che mai più in avvenire un cinese osi guardare di trasverso un tedesco”.
Ai primi di agosto la missione internazionale di “pace”forte di 16mila militari, sbarcò in Cina. L’Italia era nel mazzo. Il 14 agosto il corpo di spedizione espugnò Pechino.
“Hanno allora inizio una carneficina e un saccheggio sistematici (...) A Pechino migliaia di uomini sono massacrati in un’orgia selvaggia; le donne e intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore; tutta la città è messa a fuoco; il palazzo imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato dei suoi tesori. Un’analoga situazione si produce a Tientsin e a Baoding. Spedizioni punitive sono intraprese nelle zone rurali dello Zhili dove i missionari erano stati attaccati. I soldati stranieri bruciano interi villaggi. In Manciuria, dove i russi si sono assunto l’incarico di ‘pacificatori’, le atrocità non sono da meno: migliaia di cinesi sono sgozzati e i cadaveri gettati nell’Heilongjian” (Bastid M., Bergère M.-C., Chesnaux J., La Cina. Dalla guerra franco-cinese alla fondazione del partito comunista cinese, 1885-1921, Einaudi, Torino, 1974 p. 118).
La ferocia dei militari occidentali non fu gratuita. Doveva servire a dare una lezione agli “insolenti” cinesi e aprire la strada alla definitiva conquista dell’intero paese.
Agli italiani venne affidato il compito specifico di schiacciare le ultime resistenze all’interno della Cina. Il 2 settembre furono espugnati i forti di Chan-hai-tuan con 470 uomini di tre compagnie, due di bersaglieri e una di fanti di marina.
Le condizioni imposte dalle potenze occidentali alla Cina furono pesantissime. Il trattato prevedeva che la Cina non potesse acquistare armi per due anni (mentre le potenze europee facevano a gara ad armarsi fino ai denti con le più moderne corazzate!) e dovesse versare un risarcimento di 17 mila tonnellate di argento. Poiché la Cina non disponeva più di riserve di argento dissanguate nei decenni precedenti dagli altri trattati ineguali imposti dall’Occidente, il debito fu trasformato in rate da pagare in 39 anni. In garanzia le potenze occidentali assunsero il controllo diretto delle dogane cinesi.
L’Italia ebbe la sua parte del bottino: ottenne in perpetuo uso la zona di Tientsin. La colonia non era estesa, mezzo chilometro quadrato, ma era collocata in una zona strategica, tra Pechino e la costa. Il territorio fu amministrato da un console e da una corpo di spedizione che avevano la funzione di curare gli interessi economici e geopolitici italiani.
Dopo la prima guerra mondiale furono inviati a Tientsin 900 militari italiani che entrarono a far parte del corpo internazionale di spedizione in Estremo Oriente che combatté per mantenere attiva la ferrovia transiberiana con cui l’imperialismo riforniva gli eserciti bianchi organizzati per soffocare la rivoluzione bolscevica e la rivoluzione democratico-nazionale che agitava l’Oriente dalla Turchia alle Filippine.
Con lo schiacciamento della ribellione degli Yi-He-Tuan si chiuse la prima fase della resistenza del popolo cinese all’Occidente capitalista. L’Occidente pensava che la miniera cinese fosse sul punto di essere incamerata. Ed invece di lì a poco sarebbe nato un altro movimento antimperialista, su altri basi sociali e su un’altra piattaforma programmatica, in grado di cacciare via i colonialisti. Compresi quelli italiani.
Che fare n.76 Giugno Ottobre 2012
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