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Che fare n.76 Giugno Ottobre  2012 (indice articolo)

I. La collisione tra la Cina e gli Usa, tra la Cina e l’Occidente non è cominciata oggi. Dura da secoli

II. Fabbrica planetaria e ordine imperialista a guida Usa

Acque agitate nelle relazioni internazionali in Asia

Presentiamo subito la nostra tesi.

Negli ultimi sei anni le relazioni internazionali in Asia hanno conosciuto rilevanti mutamenti. Sia nei rapporti tra gli stati del Sud-Est asiatico e sia nei rapporti di questi paesi con le grandi potenze occidentali. La sequenza dei principali avvenimenti, riassunta nella scheda di pag. 15, non indica solo ciò che caratterizza la normalità del mondo borghese: relazioni tra gli stati e i popoli tutt’altro che armoniche ma fisiologicamente improntate alle rivalità e alle alleanze mutevoli per curare i propri egoistici interessi e colpire quelli dei concorrenti. C’è qualcosa in più: i contrasti stanno diventando più acuti e cominciano a toccare campi vitali dell’ordine capitalistico internazionale.

Ciò è per noi il sintomo di un processo profondo: l’ordine capitalistico internazionale a guida Usa è incrinato da una catena di instabilità; questa catena trova uno dei suoi fulcri nella crescente divergenza tra gli interessi della Cina e quelli degli Usa; tale divergenza è destinata ad aggravarsi e, pur se con tempi non ravvicinati, concorrerà allo sviluppo di una catena di conflagrazioni in Asia che non potrà non coinvolgere l’intero pianeta; questa catastrofe porrà ai lavoratori dei cinque continenti, partendo dalle specifiche trincee in cui essi sono collocati, l’esigenza di battersi per un nuovo sistema sociale. Che, per noi, potrà essere solo il comunismo.

Il senso degli avvenimenti raccontati nella scheda diventa più trasparente se si confronta la situazione attuale con quella, in apparenza simile, dei primi anni cinquanta, quando il Sud-Est asiatico fu scosso dalla guerra di Corea. Anche la cronaca di quegli anni poteva far pensare alla precipitazione, più o meno prossima, in una nuova guerra inter-imperialistica. Eppure ciò non accadde. Quello scontro, uno scontro tra gli stati e i popoli e le classi, coincise, invece, con il consolidamento di un formidabile ciclo di sviluppo e da allora (dopo oltre 60 anni) non c’è stata una catastrofe simile a quella delle due guerre mondiali.

Due sono gli elementi, tra loro collegati, che, a nostro avviso, differenziano quella situazione da quella odierna e che permettono di decifrare ciò che sta bollendo in pentola. Per comprenderli, occorre risalire alle forze storiche che si manifestano attraverso i fatterelli di cronaca. Ne parliamo nella prima e nella seconda parte dell’articolo.

L’obiettivo di tutto il nostro ragionamento è quello di far emergere quale sia l’interesse immediato e storico dei lavoratori, dell’Occidente e dell’Asia, in questo scontro epocale. Ne parleremo nella terza e nella quarte parte dell’articolo che saranno pubblicate nel prossimo numero del che fare.

Indice

I. La collisione tra la Cina e gli Usa, tra la Cina e l’Occidente non è cominciata oggi. Dura da secoli

 II. Fabbrica planetaria e ordine imperialista a guida Usa

 

I. La collisione tra la Cina e gli Usa, tra la Cina e l’Occidente non è cominciata oggi. Dura da secoli. ( su indice )

 

Al contrario di quanto sostiene la storia scritta dai vincitori, i popoli asiatici non subirono mai passivamente la progressiva sottomissione del loro continente e del loro destino al dominio europeo. Emblematica fu la resistenza che nella prima metà del XIX secolo la classe dirigente cinese e la popolazione lavoratrice cinese opposero, ciascuna per i suoi specifici interessi e con i suoi specifici mezzi di azione, all’introduzione dello spaccio dell’oppio nel loro paese da parte delle navi mercantili britanniche. [v. riquadro]

È vero che questa resistenza era destinata a essere schiacciata dalle potenze europee, giacché gli industriali, i generali e i finanzieri europei erano i rappresentanti di un sistema sociale, quello capitalistico, che faceva girare in avanti la ruota della storia umana: pur avendo bisogno per nascere e carburare di saccheggiare le economie asiatiche, tale sistema sociale era, infatti, capace di una più alta efficienza nell’organizzazione della produzione e della riproduzione della vita umana.

È altrettanto vero, però, che quella resistenza, pur ancorata a strati sociali e ideologie pre-capitalistici, concorse al decollo del movimento moderno con cui i popoli asiatici, dalla fine del XIX secolo, iniziarono a battersi per liberarsi dalla cappa occidentale e per seguire l’Occidente nel suo sviluppo capitalistico: questo movimento cercò di farsi valere anche grazie ai semi di irriducibilità che provenivano dal passato pre-capitalistico dei loro popoli, sconfitti ma non domati.( su indice )

 

Il blocco dello sviluppo capitalistico in Asiab

 

Il movimento del risorgimento asiatico trovò le sue basi in strati sociali moderni nati dalla stessa manomissione dell’Asia compiuta dal capitale di Occidente e dall’inserimento dei paesi asiatici nel gorgo del mercato mondiale capitalistico.

I capitalisti e i banchieri europei e nordamericani cercavano in Asia, qualunque fosse la forma del dominio politico sul continente, una terra da cui trarre materie prime a basso costo e un mercato in cui riversare i manufatti dell’industria europea e nordamericana. Proprio per questo, gli industriali, i finanzieri, i generali e i diplomatici occidentali non avevano interesse a far nascere in Cina, in India, in Indocina, in Indonesia i complessi industriali siderurgici, tessili, meccanici con cui avevano ricoperto l’Europa occidentale e l’America del Nord. La nascita e lo sviluppo del sistema capitalistico con centro in Europa occidentale e in America del Nord avevano bisogno che le economie dei cinque continenti fossero unificate in un unico calderone ma con ruoli diversi e strettamente gerarchizzati.

I capitalisti europei e i loro apparati statali non potevano evitare, però, che, proprio l’insediamento in Asia delle imprese economiche e delle strutture militari che a loro stavano a cuore, portasse alla crescita di strati sociali moderni aventi la volontà e, questa volta, la capacità di farla finita con il dominio dell’Occidente. Si potevano sfruttare le miniere di stagno dell’Indocina e trasportarne i minerali in Europa senza la costruzione di ferrovie e di porti? Senza l’assunzione come minatori di contadini e di artigiani impoveriti? Senza la costruzione di un apparato statale e di un esercito basati anche sulla collaborazione e il lavoro di strati sociali indigeni? Si potevano distruggere ettari e ettari di foresta per la diffusione di piantagioni di gomma, richiesta dalla nascente industria dell’auto in Occidente, senza avviare analoghe trasformazioni economiche e sociali?

Il vampiraggio che il sistema capitalistico con centro in Europa impose sull’Asia ebbe così due conseguenze: da un lato, rovinò le economie e le società pre-capitalistiche stabilite da millenni in Asia, impedendo a centinaia di milioni di persone di continuare a vivere come avevano vissuto fino allora; dall’altro lato, incoraggiò e, allo stesso tempo, frenò lo sviluppo ampio e completo dei rapporti sociali capitalistici. Le limitate, storpiate e storpianti iniziative economiche avviate dall’Occidente capitalistico in Asia portarono, con tempi e modi specifici di ogni regione, alla formazione in Asia di un imponente movimento risorgimentale. Esso era promosso e sostenuto dall’intreccio, antagonistico, di due diverse spinte sociali: quella dell’emergente borghesia asiatica e quella del proletariato e delle masse contadine impoverite dell’Asia. ( su indice )

 

Il risveglio dell’Asia

 

La componente borghese ebbe i suoi protagonisti nella classe dirigente giapponese e nei movimenti politici nazionalisti sorti all’inizio del XX secolo in Cina, in Indonesia, in India, in Iran e in Turchia. Pur percorsa da differenze anche rilevanti sulla forma politica con cui configurare lo stato nazionale, le nascenti borghesie asiatiche avevano un obiettivo trasversale: quello di mettersi alla testa di uno sviluppo economico e sociale all’europea, attraverso l’emancipazione dalla tutela occidentale, la distruzione delle eredità pre-capitalistiche, la promozione dell’industrializzazione delle proprie comunità nazionale, l’inserimento profittevole di esse nel mercato mondiale.

Questo programma non lasciava molto spazio alle rivendicazioni caldeggiate dalle masse lavoratrici delle colonie e delle semi-colonie asiatiche.

In quegli anni esse erano costituite in grande maggioranza da contadini, la cui vita, pur ancora dispersa nei villaggi di campagna, risentiva già della corrente dei traffici del mercato capitalistico mondiale, che li spellava (direttamente o mediante il sottile strato di borghesi indigeni svenduti all’Occidente) con l’usura, il peso delle imposte e la violenza.

In una situazione simile si trovavano anche i pochi contadini e artigiani che, espropriati, erano riusciti a trovare lavoro come proletari nelle piantagioni, nelle ferrovie, nei porti, nelle miniere sorti  in seguito all’afflusso dei capitali occidentali, o che erano emigrati a milioni negli Usa, in Europa o nei paesi dominati dall’Occidente in cui occorreva manodopera semi-schiavile, come il Sudafrica e l’America Latina. Per questi proletari l’oppressione nazionale voleva dire una grande instabilità dell’impiego, l’assunzione in mansioni totalmente dequalificate, “giornate di lavoro lunghissime, mancanza di ferie regolari, assenza di igiene e di protezione contro gli infortuni, cattive condizioni di alloggio, bilanci famigliari in cui il vitto rappresentava sino al 75% e all’80% delle spese totali”(1), spietata repressione politica, impossibilità di costituire sindacati. Per i proletari asiatici, di conseguenza, il riscatto nazionale significava anche, quantomeno, la conquista di una condizione proletaria simile a quella degli operai europei che, in trasferta nelle ferrovie cinesi o nei porti indonesiani, lavoravano accanto a loro con ben diverso trattamento. I ceti borghesi indigeni nazionalisti erano disposti a lasciare spazio nella lotta anti-coloniale a simili riforme sociali?

Per un lungo periodo, l’anelito al riscatto nazionale e sociale delle masse lavoratrici dell’Oriente, rurali e urbane, si espresse separatamente dalle attività dei gruppi democratici borghesi, attraverso società segrete, movimenti religiosi, sollevazioni agrarie spontanee o scioperi improvvisi: la sollevazione anti-occidentale degli Yi Ho Tuan in Cina (1899-1901), il movimento saminista tra i contadini del centro di Giava dal 1890 al 1907, l’agitazione contadina nell’Annam del Sud del 1907 contro l’aumento delle imposte deciso dall’amministrazione francese, la trasformazione dell’organizzazione di solidarietà islamica della Sarekat Islam (sorta nel 1912 in Indonesia per iniziativa di alcuni commercianti di Giava) in un’associazione di massa sorretta da contadini e operai, lo sciopero degli operai indiani contro l’ondata repressiva britannica che nel 1907 si abbatté sul movimento nazionalista indiano. ( su indice )

 

El Gringo in Asia

 

Nei primi decenni del XX secolo il risorgimento asiatico diede due prove della sua forza storica.

Da un lato, il Giappone riuscì a compiere il balzo verso l’industrializzazione capitalistica. Da Tokio si diffuse un’“alternativa capitalistica asiatica” al dominio coloniale e semi-coloniale occidentale. È vero che essa si nutrì del dominio coloniale sulla Manciuria, sulla Corea e su Taiwan, in una parola dell’emulazione della politica spoliatrice delle potenze europee sui popoli dell’Asia continentale. Ma finché i lavoratori e i contadini coreani, cinesi, indocinesi e indonesiani non sentirono direttamente la frusta del Giappone, il motto giapponese “L’Asia agli asiatici” raccolse la simpatia di vasti settori dei movimenti democratici e antimperialisti in Asia. Senza questa simpatia e questo appoggio rimarrebbe inspiegabile la facilità con cui il Giappone, durante la seconda guerra mondiale, conquistò le colonie e le semi-colonie controllate dalle potenze europee e formò un’unione detta sfera di co-prosperità asiatica estesa dai confini orientali dell’India alle Filippine, dalla Siberia orientale all’Indonesia.

Dall’altro lato, dopo la prima guerra mondiale, i settori più avanzati dei movimenti contadini e dei ristretti ma agguerriti nuclei di proletariato industriale furono attratti dal proletariato rivoluzionario della Russia, della Germania, dell’Italia, ecc. organizzato nella Terza Internazionale. Furono attratti dalla tesi internazionalista secondo cui il riscatto dell’Asia può compiersi fino in fondo solo entro la rivoluzione comunista internazionale, con il sovvertimento del mercato mondiale e non con l’inserimento, pur conflittuale, entro di esso, come caldeggiavano invece le borghesie nazionali della Cina o dell’India o dell’Indonesia e come stava facendo il Giappone.

L’Occidente imperialista, con la collaborazione delle organizzazioni sindacali e politiche riformiste, riuscì a sconfiggere entrambe le spinte, prima quella contadino-proletaria e poi quella borghese.

Negli anni venti del XX secolo la mobilitazione e la radicalizzazione politica degli sfruttati asiatici fu sfiancata dal pugno di ferro delle armate occidentali e dal timore delle giovani borghesie asiatiche di doversi confrontare, una volta ottenuta l’indipendenza, con lavoratori organizzati.

L’ascesa capitalistica del Giappone fu stroncata dagli Usa nella seconda guerra mondiale. Lo scacchiere asiatico della seconda guerra mondiale fu altrettanto cruciale di quello europeo. Lo scontro principale vide la resa dei conti tra il Giappone e gli Usa: il Giappone voleva consolidare l’impero coloniale che aveva costituito nel Sud-Est asiatico e ampliarlo fino all’India britannica; gli Usa, già da decenni installati in Asia con la propria macchina di sfruttamento, volevano riprendere le posizioni perdute nelle Filippine e in Cina, sostituirsi alle potenze europee in difficoltà e mettersi alla testa di un vastissimo territorio sulle due sponde del Pacifico funzionalizzato agli interessi delle sue multinazionali e alla conservazione del sistema sociale capitalistico. La mostruosa macchina da guerra statunitense l’ebbe vinta.  ( su indice )

 

Il fungo nucleare non ferma la lunga marcia dei popoli asiatici.

 

Sull’onda di questi successi, negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, gli Usa e i suoi alleati occidentali ritennero stesse per realizzarsi il loro sogno multi-secolare: stabilire il totale dominio sull’intera Asia, compresi i paesi che fino allora era riusciti, almeno in parte, a sfuggire, il Giappone e la Cina.

Ma era solo un’illusione.

Proprio nel fuoco della seconda guerra mondiale e nel consolidamento dei rapporti sociali borghesi che essa impulsò, la spinta risorgimentale dei popoli asiatici fece un balzo in avanti. I suoi protagonisti furono questa volta le masse lavoratrici povere, delle campagne e delle città. Il loro programma non era quello della Terza Internazionale, nel frattempo degenerata e poi sciolta per opera della politica stalinista. Era quello democratico-borghese che l’ala più avanzata della borghesia asiatica aveva lasciato cadere nel fango e che ora era condotto a un primo successo grazie a una spinta sociale ben più potente: quella di centinaia di milioni di contadini poveri e, con loro, di ristretti ma agguerriti nuclei proletari che non volevano più continuare a vivere nell’inferno, che volevano emulare i loro predecessori europei. E che il fungo nucleare su Hiroshima e su Nagasaki non intimorì, come invece si proponevano i macellai di Washington.

Questo moto sociale rivoluzionario costrinse l’Occidente a lasciare la Cina, l’India e altri paesi di enorme importanza dell’area, tra cui la Corea del Sud, il Vietnam del Sud e l’Indonesia. Questi paesi non tornarono ad essere colonie europee né diventarono colonie o semi-colonie statunitensi. Diventarono paesi indipendenti. Centinaia di milioni di persone entrarono definitivamente sulla scena storica. Esse diedero un slancio invincibile allo sviluppo della rivoluzione sociale borghese in un’area vastissima del globo.

Non era questo lo sbocco cui guardavano gli Usa, i vincitori della seconda guerra mondiale, il super-mostro finanziario e termo-nucleare emerso alla testa della sanguinosa piramide del capitale mondiale. Essi volevano incorporare sotto la gestione del trust mondiale statunitense le materie prime, le forze di lavoro e i sistemi produttivi compresi negli imperi coloniali asiatici delle potenze europee e del Giappone. Della Cina innanzitutto.

Gli Usa non risparmiarono sforzi per imporre questo destino ai popoli dell’Asia: facendo leva sulle classi sociali più retrive dell’Asia (loro che erano alla testa dell’apparato produttivo e militare più avanzato del mondo!), gli Usa e i loro alleati organizzarono la secessione del Pakistan dall’India (2), rioccuparono le Filippine e vi stroncarono il movimento nazionalista, attaccarono il movimento nazional-rivoluzionario in Cina, in Corea e in Vietnam, promossero in fretta e furia la ricostruzione capitalistica del Giappone e la repressione del suo movimento operaio per farne una portaerei inaffondabile puntata sui popoli dell’Asia continentale, puntellarono la dittatura dello scià in Iran per chiudere l’anello di accerchiamento anche sul versante occidentale dell’Asia. E quando si resero conto che i risultati attesi non arrivavano e che, anzi, in Indocina era difficile conservare il bastione del Vietnam meridionale, nel 1965, gli Usa non esitarono ad organizzare il golpe contro l’Indonesia di Sukarno e lo sgozzamento (un milione di assassinati!) della base militante del partito comunista locale.

Non dovrebbe bastare simile esperienza per comprendere cosa si nasconde dietro le belle frasi che i governanti dell’Occidente stanno in questi mesi pronunciando a favore del progresso civile e della democrazia dei popoli asiatici? Lo tengano a mente i lavoratori dei paesi del Sud-Est asiatico a cui si rivolgono i pifferi magici dell’Occidente quando parlano di Tibet o di Cambogia-Myanmar o quando propongono i loro uffici per la regolazione “pacifica” delle controversie sui confini nel mar Cinese meridionale.

Come accennavamo sopra, malgrado questa offensiva articolata e feroce, l’Occidente fu costretto al compromesso. La lezione si è impressa indelebilmente nella coscienza dei popoli del Sud del mondo. Essi compresero che persino il paese dotato della terribile arma termo-nucleare non è irresistibile. L’imperialismo dovette accettare, pur sotto il proprio assedio asfissiante, che miliardi di persone cominciassero a sviluppare in Asia il sistema sociale che gli europei avevano sviluppato in Europa e a cui pretendevano di sbarrare la strada negli altri continenti. ( su indice )

 

Un matrimonio d’interesse

 

 Dopo decenni di contrapposizione, negli anni settanta gli Usa e la Cina di Mao e di Deng si tesero la mano. Ma non fu la fine della contrapposizione storica tra Occidente e Oriente asiatico, tra gli Usa e la Cina. La simbiosi che da allora e fino a qualche anno fa si è stabilita tra gli Usa e la Cina è stata, in realtà, un altro momento di quella collisione storica, è stata la forma in cui essa si è svolta negli ultimi decenni del XX secolo. Vediamo perché.

Di solito si considera l’alleanza tra la Cina e gli Usa come la sottomissione della Cina agli Usa, la resa della Cina popolare all’imperialismo. Ma guardiamo le cose globalmente.

Certo, lo abbiamo discusso più volte, gli Usa e le multinazionali occidentali tesero la mano alla Cina di Mao e di Deng per mettere le mani sull’eldorado della forza lavoro cinese e del vasto mercato di smercio cinese. L’accordo tra Washington e Pechino ha permesso alle multinazionali e alle banche occidentali di eludere la crisi di disgregazione in cui il sistema capitalistico stava per sprofondare nei primi anni settanta e di disporre di una formidabile arma di ricatto con cui erodere e piegare la forza contrattuale di cui i lavoratori occidentali disponevano fino agli ultimi decenni del XX secolo in virtù del monopolio del lavoro industriale da loro posseduto. Ma è del tutto fuorviante ritenere che la Cina, il popolo cinese, i lavoratori cinesi abbiano partecipato a questa epopea come comparse neo-coloniali. Essi vi hanno partecipato con l’intenzione di proseguire la loro lunga marcia. Questo è stato ed è vero non solo per i borghesi o proto-borghesi della Cina (e dei paesi limitrofi) ma anche per i contadini poveri e i lavoratori urbani.

La mondializzazione è di solito vista solo dal punto di vista dell’erosione delle conquiste del proletariato occidentale, della limitata crescita numerica del proletariato occidentale, della libertà acquisita dai movimenti del capitale finanziario e delle condizioni di sfruttamento selvagge vigenti nelle zone economiche speciali del cosiddetto Sud del mondo. Ma la mondializzazione non è stata solo questo e non è stata semplicemente questo. È stata una trasformazione sociale di portata storica del capitale stesso che ha investito oltre la metà dell’umanità, la quale l’ha vissuta non come un salto all’indietro ma come un passo in avanti dopo quello costituito dalla conquista dell’indipendenza politica, come un altro passo in avanti verso il riscatto dalla sottomissione in cui i popoli del Sud del mondo erano stati assoggettati a partire dal XVI secolo. Basterebbe scambiare due parole con un lavoratore immigrato dall’Asia per rendersi conto di questa dinamica. Proprio questa volontà ha impedito che il balzo capitalistico della Cina divenisse la base per permettere all’Occidente di tornare a farne una propria colonia più o meno mascherata, come l’Occidente si prefiggeva e come ha tentato di fare nella crisi di Tien-an-men nel 1989.

Ora questa volontà del popolo cinese e dei popoli asiatici sta emergendo alla luce del sole. Sia sul versante borghese, con il consolidamento di una borghesia e di uno stato, quelli cinesi, che vogliono il loro posto tra le grandi potenze che reggono i destini (capitalistici) del mondo. Sia sul versante proletario, con la crescita di un movimento di lotte, in Cina e in altri paesi del Sud-Est asiatico, che vuole strappare migliori salari, riduzioni di orario di lavoro senza penalizzazioni salariali, l’effettivo diritto di organizzarsi sindacalmente nelle aziende (3). ( su indice )

 

Non il replay degli anni sessanta

 

Per un duplice concorso di cause storiche, la stessa accumulazione capitalistica mondiale ha, quindi, portato in Asia allo sviluppo capitalistico che in passato aveva frenato. Ora questo sviluppo sta trasformandosi in una bomba ad orologeria per l’attuale ordine capitalistico internazionale. Tant’è che, come emerge dagli avvenimenti raccontati nella scheda, gli Usa e i loro alleati hanno iniziato a “indurire” la loro politica verso la Cina.

Questa conclusione potrebbe sembrare una forzatura. Si potrebbe pensare: in fondo, lo sviluppo capitalistico di una parte dell’Asia, quello del Giappone e delle cosiddette Tigri, nel secondo dopoguerra è riuscito a inserirsi, pur se con contrasti rilevanti, nell’accumulazione capitalistica mondiale. La ricostruzione del Giappone e il trascinamento in questa ricostruzione di Taiwan, Singapore, Hong Kong e Corea del Sud hanno oliato l’accumulazione mondiale. Perché l’ascesa capitalistica della Cina e, a cerchi concentrici allargati, quella del Sud-Est asiatico dovrebbero diventare dirompenti per l’attuale ordine capitalistico internazionale?

Per rispondere a questa domanda va considerato un altro elemento caratteristico della mondializzazione capitalistica degli ultimi trent’anni. Ne parliamo nella seconda parte dell’articolo. ( su indice )

 

Note

(1) J. Chesnaux, L’Asia sud-orientale nell’era dell’imperialismo, Einaudi, Torino, p. ?

(2) V. l’articolo “Il Pakistan sulla traiettoria di volo degli Stati Uniti” sul che fare n. 73 e l’articolo “India, un’ascesa dall’enorme peso sulla scena politica mondiale” sul che fare n. 74

(3) Tale movimento è così profondo che nei piani alti delle multinazionali si è cominciato a valutare la convenienza di ri-localizzare gli impianti industriali negli Usa e in Europa, dove sperano di godere del ridimensionamento dei diritti dei lavoratori che nel frattempo, in collaborazione con i governi occidentali, sono riuscite a portare a casa anche grazie all’arma della delocalizzazione. ( su indice )

II. Fabbrica planetaria e ordine imperialista a guida Usa ( su indice )

 

Ci soffermiamo ora sul secondo elemento, legato al primo, che ci porta a vedere nella cronaca delle relazioni internazionali tra gli stati in Asia un riflesso e un carburante di una crisi epocale, non ancora dietro l’angolo, dell’ordine capitalistico mondiale.

La mondializzazione del capitale degli ultimi trent’anni non è stata solo la formazione di un articolato apparato industriale al di fuori delle metropoli imperialistiche. Non c’è stata semplicemente la diffusione della fabbrica moderna esistente in Occidente. C’è stata la nascita, sempre su basi capitalistiche, di un nuovo sistema di macchine, i cui reparti sono dislocati sui cinque continenti. Il lavoratore collettivo che corrisponde a questo sistema di macchine è un lavoratore mondiale.

A quali condizioni il capitale può mantenere il suo sistema di sfruttamento su questo apparato produttivo e su questa classe lavoratrice?

 Fino agli anni settanta del XX secolo la produzione industriale, che pure richiedeva il mercato mondiale e ad esso si rivolgeva, era concentrata in impianti collocati nei paesi occidentali. Anche se la produzione di un’automobile richiedeva lo stagno, la gomma, il rame, le terre rare importati dai paesi del Sud del mondo, la gran parte dell’attività manufatturiera si svolgeva, però, entro una zona territorialmente limitata in Occidente, nella quale erano concentrati le acciaierie, le fabbriche di pneumatici e di vernici, le fabbriche delle batterie e degli altri componenti elettrici, i reparti per la costruzione del motore e poi le carrozzerie. L’auto risultava essere il prodotto di un lavoratore collettivo compreso entro un perimetro regionale o al più nazionale.

La mondializzazione capitalistica della fine del XX secolo ha cambiato questa situazione.

Essa ha portato e si è nutrita con la formazione di una fabbrica planetaria, i cui reparti sono dislocati su scala continentale e/o planetaria (1). Questa fabbrica planetaria non è la semplice estensione geografica di quella caratteristica dell’epoca precedente. Essa presenta caratteri parzialmente nuovi nel processo produttivo, nell’organizzazione dei livelli di impresa, nella tipologia dei rapporti contrattuali con cui le imprese assoldano i lavoratori, nella profondità della spremitura delle energie del proletariato (non più limitata al piano fisico ma estesa al piano psichico e mentale), nella ricerca di conoscenze scientifiche e tecnologiche (nella quasi totalità dei casi per fini anti-sociali, quello della guerra innanzitutto) attraverso la cooperazione senza confini di muscoli e cervelli, nell’accentramento di questo gigantesco movimento economico in un pugno di istituzioni finanziarie che spostano fabbriche e investimenti da un continente all’altro alla ricerca della massima redditività. Pur se tali modifiche non fanno ancora intravedere un mutamento nell’organizzazione capitalistica del lavoro di portata simile a quello che si è avuta nel passaggio dall’operaio professionale del periodo della Seconda Internazionale all’operaio-massa della catena fordista, non per questo, però, sono meno significative.

Questa trasformazione è stata resa possibile da due processi storici: dalla diffusione capillare di moderni rapporti sociali capitalistici in Asia, in Africa e in America Latina impulsata dalle rivoluzioni anti-coloniali; dallo sviluppo delle tecnologie micro-elettroniche e fotoniche e satellitari che permettono in tempo reale di connettere stabilimenti dislocati a migliaia di chilometri come se fossero i reparti di un’unico stabilimento.

Il lavoratore collettivo è diventato davvero planetario.

Per poter far girare e dirigere un processo produttivo così configurato i capitalisti hanno bisogno di un’armatura, composta innanzitutto dalle istituzioni statali ma non ristretta a queste ultime, che lo imbrachi alla stessa scala. Interviene qui una questione di fondo. ( su indice )

 Il capitale e il suo alveo

 

Il sistema capitalistico nasce sporco, scaraventa l’umanità in una barbarie che essa non aveva mai conosciuto ma dà risposte storicamente progressive ai problemi che l’umanità a livello planetario stava incontrando intorno al XVI secolo nella produzione e nella riproduzione della propria esistenza. Queste risposte si fondano sulla nascita di un nuovo rapporto sociale, quello tra il capitalista e il proletario. Ma affinché questo rapporto sia la base per un ricambio organico tra la specie umana e la natura più avanzato di quelli esistenti in passato e per l’inglobamento dell’intera umanità entro le maglie del sistema sociale capitalistico, occorre che sia integrato e cementato da un intreccio di altre relazioni sociali. Potrebbe esistere il sistema capitalistico senza il mantenimento dell’oppressione del sesso femminile da parte di quello maschile? Senza l’adattamento al mondo borghese del ruolo della donna quale meccanico mezzo di produzione di sfruttati e di sfruttatori? Senza la gerarchizzazione tra i popoli della Terra? Senza l’apparato statale nazionale? Senza un cerchione statale-militare-monetario-ideologico supplementare che, con i suoi ramificati tentacoli, garantisca la coesione organica tra questi livelli a scala planetaria e promuova la riproduzione a questa scala delle basi di un sistema sociale che è nella sua essenza planetario?

L’esperienza dei cinque secoli dell’era capitalistica mostra che non è possibile. Mostra, in particolare, che i rapporti sociali capitalistici possono riprodursi e permettere la riproduzione allargata della specie umana se sono integrati da un cerchione globale che lo imbrachi nella sua interezza alla scala di volta in volta consona alla estensione della socializzazione raggiunta al processo produttivo. Per un periodo storico questo ruolo è stato svolto dalla potenza marinara genovese, poi dai Paesi Bassi, per un altro periodo dall’impero britannico e poi dall’imperialismo Usa.

Questo fatto empirico non è un mistero per la dottrina del marxismo rivoluzionario.

Il rapporto sociale tra il capitalista e il proletario e i rapporti sociali che lo integrano sono antagonistici, sono fondati sull’oppressione dell’essere umano sull’essere umano, sull’alienazione dell’essere umano da se stesso e dalla natura di cui egli è espressione. In conseguenza di ciò, le contraddizioni su cui il capitale si fonda e che esso riproduce a scala allargata generano una spirale che, in assenza di una corazza difensiva planetaria, anziché sostenere e fluidificare l’accumulazione nel suo insieme, la sfibra e la pilota in un instabile regime di alta turbolenza. La stessa cosa accade quando la corazza esistente è troppo ristretta rispetto all’acutezza raggiunta dagli antagonismi e all’estensione della scala di socializzazione raggiunta dal processo produttivo. ( su indice )

 

Come stanno le cose oggi?

 Oggi il cerchione che imbraca il sistema capitalistico mondiale è rappresentato dagli Usa, dalle sue alleanze militari con l’Europa il Giappone e l’Australia, dal dispositivo di basi militari piazzate ai quattro angoli della Terra, dal sistema degli stati-nazione uscito dalla storia del XIX e dal XX secolo e gerarchicamente organizzato sotto il controllo di Washington, di Wall Street e del Pentagono. L’alveo incardinato sull’imperialismo Usa poteva andare bene fino a trent’anni fa. Corrisponde alla scala di socializzazione nazionale o al più semi-continentale delle forze produttive di trent’anni fa. Oggi non è in grado di garantire la (provvisoria) ricomposizione in avanti degli antagonismi fra classi sociali e fra popoli su cui si fonda e di cui si nutre il capitale. Né sul versante borghese né sul versante proletario.

La concorrenza tra la borghesia emergente in Cina e quelle imperialiste non trova un terreno di ricomposizione e ciascuna di esse non si accontenta della quota che l’altra è disposta a lasciarle della ricchezza di cui il capitale nel suo insieme espropria il lavoratore collettivo mondiale. Gli Usa e le altre potenze imperialiste non vogliono certo eliminare l’apparato industriale che si è formato in Cina e nel Sud del mondo, non vogliono certo far tornare le centinaia di milioni di proletari che vi lavorano nei campi. Vogliono funzionalizzare a sé questo apparato. Vogliono che le borghesie emergenti ridimensionino le loro aspirazioni. Vogliono, soprattutto, che i lavoratori del Sud del mondo rimangano o ritornino allo stato di disorganizzazione, di debolezza e di ricatto di qualche anno fa.

Ma entro l’ordine capitalistico vigente, gli Usa e i loro alleati occidentali non sono in grado di imporre queste pretese. Non sono in grado di mantenere il grado di sfruttamento che desidererebbero sulle centinaia di milioni di proletari nati nella “ex”-periferia, rinvigoriti da decenni e decenni di lotta e dal loro inserimento nel cuore stesso dell’accumulazione capitalistica. I miglioramenti strappati dai lavoratori del Sud del mondo negli ultimi anni sono il riflesso di questa marcia storica. Essi si ripercuotono sul rapporto tra il capitale e il lavoro nelle metropoli imperialiste e stanno costringendo le borghesie dell’Ue e degli Usa a mettere in discussione, almeno parzialmente, il patto sociale stabilito in casa propria nel XX secolo, con effetti a cascata che, nel loro intreccio, terremotano uno degli elementi della “fluidità” della riproduzione allargata dei rapporti sociali capitalistici sui cinque continenti: la divisione gerarchica, secondo linee nazionali e razziali e religiose, della classe lavoratrice planetaria.

L’effetto dirompente sull’ordine capitalistico di questo duplice scontro tra le classi trova un esempio significativo nell’aumento del prezzo delle materie prime registrato negli ultimi anni. Una quota consistente delle materie prime è estratta nel Sud del mondo. Tra le funzioni svolte dal cerchione britannico e poi da quello statunitense vi è stata quella di garantire alle imprese occidentali l’acquisizione delle materie prime a prezzi stracciati. Non era e non è in gioco solo il petrolio ma anche l’uranio, il rame, la bauxite, le cosiddette terre rare, il caffè, il cacao, ecc. Oggi sta diventando difficile garantire questa condizione basilare dell’accumulazione capitalistica proprio per effetto della duplice spinta sociale (borghese e proletaria) che anima lo sviluppo capitalistico della Cina e degli altri paesi emergenti del Sud del mondo. Tanto per dire: nel 1973 gli Usa riuscirono a organizzare in Cile, senza pagare conseguenze pesanti, il golpe contro Allende per riprendere in mano il controllo delle miniere di rame del paese. Oggi invece...( su indice )

 

Guerre non risolutive

 

L’ordine capitalistico mondiale a guida Usa, per come è oggi configurato, comincia a non essere più adeguato alla produzione e alla riproduzione della specie umana, neanche nel modo antagonistico proprio dei rapporti sociali capitalistici. L’indebitamento stratosferico degli Usa, il peso esorbitante che in tale indebitamento ha la spesa militare, le difficoltà del dollaro a continuare a svolgere il ruolo di moneta mondiale sono l’espressione della crescente incoerenza tra le esigenze di sviluppo di un alveo adeguato alla riproduzione capitalistica e le capacità effettive degli Usa, pilastro dell’ordine capitalistico esistente, a guidare la formazione di tale alveo. Non che non siano stati compiuti passi in questo senso, strazianti per i lavoratori e i popoli che li hanno subiti.

La disgregazione del Comecon (l’“unione economica” dei paesi dell’Europa orientale imperniata sull’ex-Urss), della Jugoslavia, dell’Iraq e della Libia non hanno rappresentato lo stritolamento di forme statali deboli e l’allargamento dell’area dominata dittatorialmente dagli Usa, dalla Ue e dal capitale monopolistico? Gli interventi compiuti in campo economico dopo il 2007-2008 dagli Usa e dalle potenze europee non sono un’altra risposta in questo senso? Anche lo sforzo delle borghesie europee di costruire un’Unione effettiva non esprime l’esigenza dell’accumulazione capitalistica di essere accompagnata da un alveo più ampio di quelli nazionali o semi-continentali esistiti finora?

Questi passi non hanno tuttavia risolto il problema. Hanno, però, mostrato la barbarie che il capitale si avvia a scatenare. Questa volta a scala planetaria.

Noi sosteniamo che l’epoca che si sta aprendo sarà quella in cui il capitale e i suoi stati cercheranno di trovare, sulla pelle del proletariato e della natura, un nuovo ordine capitalistico, con un cerchione più solido e mostruoso di quello attuale incardinato sugli Usa. Che questa ricerca passerà attraverso uno scontro planetario che coinvolgerà in pieno l’Occidente e l’Oriente e che in questa apocalisse universale il lavoratore collettivo planetario che si è formato sarà posto di fronte al problema di instaurare il socialismo internazionale.

Non siamo alla vigilia immediata di questo terremoto. Anzi. Ma il percorso è segnato. Non perché il governo Usa e degli altri stati imperialisti vogliano in partenza arrivare a questo sbocco, per loro assai arrischiato. Non perché la storia sia determinata dai piani megalomani di qualche pazzo generale o amministratore delegato. Ma per un gioco di azioni e reazioni fatale che è già partito e di cui la cronaca raccontata nella scheda ci dà un piccolo assaggio.

È quello su cui ci soffermeremo nella terza parte dell’articolo che verrà pubblicata nel prossimo numero del giornale insieme alla quarta in cui ragioneremo sull’atteggiamento con cui i lavoratori dei cinque continenti, il bersaglio principale dell’affilar di lame tra le potenze imperialiste e i paesi emergenti, sono schierati in questa fase iniziale dello scontro. ( su indice )

Nota

(1) Vedi ad esempio i dati relativi a uno dei settori produttivi centrali dell’accumulazione capitalistica, quello delle automobili. Nel 2011 sono state prodotte nel mondo 80,1 milioni di auto (+3% rispetto al 2010). La metà è stata sfornata da stabilimenti collocati in Asia, un quarto in Cina. In Europa sono stati prodotti 21 milioni di auto (di cui 17,7 nella Ue). I 17.8 milioni di auto prodotti nelle Americhe sono stati così ripartiti: 13,4 nella Nafta e 4,3 nell'America Latina. (Da Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2012). ( su indice )

Che fare n.76 Giugno Ottobre  2012

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