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Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

La grande intifada araba scuote il mondo intero

Tunisia: lì dove tutto è cominciato.

Come altri paesi arabi appena usciti dall’infausta era coloniale, anche la Tunisia ha cercato una sua propria via a lo "sviluppo indipendente".

L’ha fatto a partire dal 1957 sotto la guida di Bourghiba e del suo partito nazionalista (moderato), seguendo un tracciato per molti versi obbligato: espansione dell’industria di stato, in specie nella metallurgia e nell’estrazione dei fosfati, e "collettivizzazione" delle terre. Credé di poter mettere fine all’estroversione dell’economia tunisina mettendole al collo il laccio del debito estero, sotto forma di un "aiuto allo sviluppo" da parte degli Stati Uniti. Alla fine degli anni ’60 una simile quadratura del cerchio si era già rivelata impossibile ed ecco Bourghiba virare verso riforme di stampo "anti-statalista" per cercare di beneficiare del movimento, allora appena all’avvio, delle delocalizzazioni industriali dall’Europa. Comincia da quel momento la progressiva presa di possesso del paese da parte di Fmi, Banca mondiale, stati occidentali. Questa presa di possesso ha trasformato la Tunisia in un (assai profittevole) reparto esterno dell’industria europea, prima di tutto di quella tessile e negli ultimi anni di quella della componentistica e dell’elettronica.

Hinterland industriale dell’Europa

Sin dagli anni ottanta, il capitale europeo ha cercato in Tunisia forza lavoro a basso costo, ultra-ricattabile e priva della forza di contrattazione.

L’ha trovata grazie ai piani di aggiustamento strutturale e agli accordi di libero scambio imposti ai governi tunisini, che hanno portato alla formazione di un ampio esercito industriale di riserva alle porte dell’Europa mediante i licenziamenti di massa dalle imprese di stato (rilevate e ristrutturate da investitori esteri o meno), la riduzione dei sussidi statali per i beni di prima necessità, i fallimenti di tanti piccoli produttori artigianali e rurali a causa dell’abolizione delle barriere commerciali erette dopo l’indipendenza a difesa della produzione nazionale. Per garantire che l’imposizione delle condizioni di super-sfruttamento dei lavoratori richieste dagli investimenti esteri fosse accettata dalla popolazione senza colpo ferire, nel 1987 sale al potere, con un colpo di stato, Ben Ali.

Per vent’anni, il capitale internazionale ha trovato in Tunisia uno dei Bengodi in cui ha potuto investire e delocalizzare liberamente, anche per acquisire un mezzo di ricatto contro i lavoratori in Europa. In un articolo del 30 ottobre 2010 il quotidiano della Fiat, la Stampa, descriveva l’allargamento del parco industriale in mano agli europei in Tunisia (1) e ne sintetizzava le ragioni con queste righe: "[È] un paese che offre manodopera qualificata a basso costo [i salari vanno da 40 euro a 150 euro, n.], procedure semplificate, infrastrutture funzionali e una pressione fiscale sforbiciata dal 35 al 24%. Ma soprattutto offre alle società totalmente esportatrici zero tasse sui primi dieci anni di investimento e zero Iva, più contributi statali per chi si apre nelle regioni sotto-sviluppate, e la riduzione al 2,5% della ritenuta alla fonte sui compensi per professionisti che prestano servizi alle società non residenti (regime off-shore). Se si aggiunge che il libero accesso ai mercatidella Ue è garantito dal 1° gennaio 2008 e che la ‘democratura’ del presidente Ben Ali garantisce stabilità politica e un liberismo temperato, ecco spiegato l’eldorado. (…) [Ancor più tale per il suo ruolo di] piattaforma commerciale per i paesi dell’accordo di Agadir (Egitto, Tunisia, Marocco e Giordania) che dal 2006 si scambiano merci senza dazi."

Che dopo vent’anni, la pacchia per l’élite tunisina e per il capitale imperialista stesse per finire lo aveva annunciato la rivolta operaia e popolare della regione di Gafsa nel 2008. Questa rivolta ha infiammato per sei mesi una delle regioni più povere del paese, rimasta lontana dai nuovi insediamenti industriali sotto l’egida delle imprese europee e, al contempo, una delle più proiettate sul mercato mondiale, grazie all’estrazione di fosfati di cui la Tunisia è il sesto produttore mondiale. Una regione che il mercato mondiale ha letteralmente stritolato:la Compagnie des Phosphates de Gafsa (CPG), che detiene le concessioni minerarie, è stata capace, infatti, con la più spinta meccanizzazione e razionalizzazione delle operazioni di estrazione, di abbattere i propri dipendenti diretti da 14.000 (1980) a 5.800 (2005) e di moltiplicare nel contempo i propri profitti erigendo il subappalto  e la precarietà a sistema, e facendo leva su tassi di disoccupazione che in alcune città della regione arrivano al 38,5%.

Attraverso scioperi, manifestazioni, sit in, lotte sulle barricate, la popolazione in lotta ha rivendicato lavoro e misure strutturali contro la disoccupazione, che colpisce soprattutto i giovani e in modo particolare i giovani istruiti, e la precarietà. Né i partiti di opposizione né l’Ugtt nazionale e, tanto meno, quella regionale, pesantemente compromessa con il potere benalista, hanno preso in carico tali rivendicazioni. Solo le sezioni locali dell’Ugtt e dell’Associazione per la difesa dei diritti umani, il Partito comunista dei lavoratori della Tunisia (di tendenza hoxjsta) e alcune associazioni di immigrati tunisini in Francia hanno appoggiato questa lotta. Contro cui, dopo un iniziale momento di disorientamento, il regime di Ben Ali ha scatenato una repressione durissima, culminata nella messa sotto assedio delle città in rivolta. Da più parti, la rivolta è stata considerata la prova generale anticipatrice della sollevazione iniziata il 17 dicembre 2010.

La sollevazione e lo sciopero generale politico

Il 17 dicembre 2010, davanti al municipio di Sidi Bouzid, Mohamed Bouazizi, anni 26, diplomato disoccupato, si dà fuoco per protestare contro l’ennesimo sequestro del suo carretto di venditore ambulante. Il suo gesto suscita immediatamente la reazione popolare: la protesta nel giro di tre giorni coinvolge le città vicine e il 27 dicembre raggiunge Tunisi, unendo in una sola lotta la capitale e le sue province, la città e le campagne, le regioni interne e quelle costiere, divise da importanti differenziali di sviluppo.

Le piazze si riempiono di giovani e meno giovani, di donne velate e a capo scoperto, di operai, lavoratori, disoccupati, liberi professionisti. Quanto all’Ugtt, se a livello nazionale le dirigenze sono tirate a forza nella lotta dalle pressioni degli iscritti, a livello locale i membri del sindacato aprono le proprie sedi alle proteste -prima di tutto a Sidi Bouzid- fornendo un luogo fisico dove le masse si possono auto-organizzare, chiamando di volta in volta a manifestazioni e a scioperi locali e nazionali.

Non a caso il vero punto di svolta della sollevazione è l’11 gennaio, quando, a seguito della pressione delle federazioni regionali, l’UGTT nazionale proclama per il giorno seguente lo sciopero generale nelle regioni di Sfax, Kairouan e Touzeur e per il 14 a Tunisi.  La partecipazione degli operai e delle masse popolari allo sciopero del     12 è senza precedenti e ha conseguenze politiche importanti: lo stesso giorno Ben Ali silura il capo dell’esercito, generale Ammar, perché rifiuta di sparare sugli insorti, mentre una parte consistente della borghesia, che è stata e si sente marginalizzata dagli affari dal controllo sempre più familistico di Ben Ali e dei suoi parenti sui maggiori contratti economici, decide di aderire alla rivolta. Il 14 gennaio allo sciopero generale contro la repressione proclamato dall’UGTT è l’intero paese a partecipare: questo sciopero segna la fine di Ben Ali. Per la prima volta dai tempi delle indipendenze un governante arabo è licenziato (giustamente) dalla sua propria gente.

Lo sostituisce un "governo di unità nazionale" guidato da un uomo del partito dei Ben Ali, Gannouchi, mentre una parte della polizia, fino a quel momento responsabile di una feroce repressione, passa con i rivoltosi.

La breve vita dei due governi Gannouchi

Il governo Gannouchi, che riceve la benedizione dell’organizzazione dei padroni tunisini e dell’Occidente, ha, però, vita breve. Il movimento dei lavoratori lo considera troppo compromesso con la politica di Ben Ali e incapace di portare avanti il programma nazionalborghese chiesto dalla piazza e ben rappresentato dal documento del fronte "14 gennaio" che presentiamo sul nostro sito. Sotto la pressione della piazza e delle organizzazioni locali e di base dell’Ugtt, la Ugtt è costretta a ritirare la sua delegazione nel governo di unità nazionale e poi ad organizzare scioperi e manifestazioni contro il governo, ancora a guida Gannouchi, che nasce dopo questa frattura. Il 7 e 8 febbraio, il premier Gannouchi vara alcune delle misure chieste dalle piazze (la dissoluzione dell’Rcd,  l’esproprio e la nazionalizzazione dei beni della famiglia "allargata" di Ben Ali) e nomina 24 nuovi governatori "in accordo con l’Ugtt". Ma i temporeggiamenti continuano e le proteste riprendono massicce già dal 19 febbraio(2). A Tunisi scendono in piazza in 40.000 chiedendo un nuovo governo libero da qualsiasi legame con il passato regime e, entrando in politica estera, le dimissioni del nuovo ambasciatore di Francia (per la medesima ragione). Ghannouchi gioca la carta delle elezioni, ma gli animi non si placano. Il 25 febbraio, scendono in piazza in tutto il paese svariate centinaia di migliaia di manifestanti (100.000 nella sola Tunisi): il secondo governo Ghannouchi cade due giorni dopo, consapevole di non poter soddisfare le rivendicazioni della "piazza" e di non avere, nel contempo, la forza di sgomberarla con mezzi violenti. Gli subentra, con il benestare dell’Ugtt, Beji Caid Essebsi,un ex-ministro di Bourghiba rimasto in disparte nell’ultimo ventennio.

Il programma del governo Essebsi

Da alcuni mesi sembra essere tornata la calma. Una calma nella quale sta prendendo corpo un accorto tentativo di normalizzare la situazione nel senso della piena ripresa della produzione e della piena continuità dello stato. Nella sua intervista a Jeune Afrique (del 3-9 aprile) Essebsi ne ha tracciato i passaggi essenziali.

Una lunga sequenza elettorale, per la Assemblea Costituente (il 24 luglio), per il referendum sulla nuova costituzione, quindi elezioni presidenziali e di seguito elezioni legislative. Nel frattempo, ordinato ritorno al lavoro e alla "fiducia" nel rilancio dell’economia (non una sola esplicita parola, in questa lunga intervista, sulle attese sociali ed economiche dei lavoratori e il cambiamento delle loro condizioni di lavoro e di vita). Quanto all’Ugtt, sì alla sua consultazione sulle questioni importanti, ma poi a decidere deve essere il governo. Limitazione delle epurazioni del vecchio personale politico dell’Rcd, perché "la Tunisia ha bisogno di tutti i suoi figli" (si capisce: non una sola parola, invece, sui figli della Tunisia che hanno dato vita ai mille comitati…, di quelli la borghesia tunisina e mondiale ne ha bisogno solo come schiavi sottosalariati). No all’"esportazione della rivoluzione",  sì all’aggressione alla Libia. Di nuovo mano tesa alla Francia (e all’Europa), purché si limitino ad "accompagnare" questo cammino alla normalizzazione capitalistica della situazione tunisina senza compiere passi falsi.

Note

(1) Nel 2010 solo le imprese italiane occupavano ufficialmente, senza contare il lavoro nero, la occupazione in contoterzi,  55 mila lavoratori.

(2) Era in gioco, tra l’altro, il varo o meno di un nuovo piano di ristrutturazione che il Fmi aveva cominciato a negoziare con Ben Ali alcuni mesi prima della sua cacciata. Il piano prevedeva una ulteriore apertura dell’economia tunisina ai mercati mondiali anche nei servizi e nella produzione agricola e agro-alimentare; l’ulteriore incremento della flessibilità (che per sua natura non conosce limiti) nel mercato del lavoro e nei servizi pubblici; il contenimento dei (residui) sussidi statali sui beni alimentari e sui carburanti; la riduzione della copertura pensionistica; l’abbassamento delle tasse per le imprese e l’innalzamento delle imposte di consumo; il potenziamento del sistema bancario per favorire la trasformazione della Tunisia in un hub (centro) regionale di servizi bancari; la "modernizzazione" delle politiche monetarie entro il 2014, tramite l’introduzione del tasso di inflazione programmato, la convertibilità del dinaro e la liberalizzazione delle transazioni finanziarie.

Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

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