Dal Che Fare n.° 74 giugno ottobre 2011
La grande Intifada araba scuote il mondo intero.
La rivolta si avvicina ai "sacri regni" del petrolio
Bahrein, Oman, Yemen
La forza esplosiva della rivolta araba è arrivata fino nel Golfo, anzi nei tre Golfi: Persico, di Oman e di Aden, avvicinandosi così da più lati alla putrida monarchia saudita, il santuario dell’imperialismo nell’area. Contro di essa è scattata in Bahrein, Oman e Yemen una brutale repressione che finora ne ha avuto ragione.
Il Bahrein è un paese strategico per due ragioni: 1) è il paese arabo delle banche; 2) è il paese della V Flotta statunitense. Dopo la Malesia, rappresenta il principale centro mondiale dell’Islamic Banking. "Il suo petrolio sono i servizi finanziari: il 27% del Pil. E molto di più: se aggiungiamo gli effetti che il business finanziario ha sui trasporti, le telecomunicazioni, l’information technology, l’edilizia, si arriva al 35-40% del Pil", spiega l’amministratore delegato dell’Associazione delle banche del Bahrein. Manama possiede anche un fondo sovrano, ma non può vantare la ricchezza dei vicini sauditi, dei qatarini e degli Emirati, poiché le sue riserve petrolifere sono quasi esaurite.
Ma il Bahrein è anche, come dicevamo, il paese-base per la Us Navy Fifth Fleet, nella regione dal 1995, e dunque un paese-chiave per l’ordine imperialista nel Golfo Persico, parte integrante di quel Consiglio di cooperazione del Golfo chiamato a vigilare sulla tenuta dello status quo.
Ad animare, da metà febbraio, la rivolta in Bahrein è stata la discesa in campo degli strati più sfruttati del paese, di modeste condizioni sociali, che vivono nelle zone suburbane della capitale Manama. E all’interno di questi strati è stata rilevante la presenza degli operai e dei salariati, se è vero che "tra le migliaia di persone scese in piazza per settimane, molti erano impiegati della National Oil Company statale e di Alba, la multinazionale dell’alluminio, l’unica grande fabbrica in Bahrein" (v. "Il Sole 24 ore", aprile), e che il movimento di lotta si è rafforzato, nelle prime settimane, con la partecipazione di tanti lavoratori, statali e del privato, che alla violenza del regime hanno risposto con lo sciopero ad oltranza.
Alla fine di febbraio la lotta è divampata anche nel sultanato dell’Oman, mini-stato gendarme del lato sud dello stretto di Hormuz da cui transita il 40% del traffico petrolifero via nave del mondo: l’epicentro dello scontro è stato Sohar, porto e centro industriale, dove i manifestanti, organizzati in comitati popolari, hanno chiesto a gran voce, anche con tanto di incendio di commissariati di polizia, i diritti di libertà, la cacciata dei ministri corrotti, l’abolizione di alcune tasse e la redistribuzione sociale delle rendite petrolifere.
Parallelamente la lotta si è accesa anche nello Yemen, altro paese di importanza strategica per il controllo del traffico nel Mar rosso, altro alleato-chiave dell’asse Washington- Riyhad, con manifestazioni egiziane anti-Mubarak (nelle quali sono state inalberate immagini di Nasser) e l’estensione degli scontri dalla capitale Sanaa a tutto il paese contro il potere autocratico di Saleh. Il movimento di lotta ha rivendicato, soprattutto con la coalizione denominata Gioventù rivoluzionaria, il rilascio di tutti i prigionieri politici, lo scioglimento delle forze di sicurezza, la restituzione delle proprietà di stato appropriate dai privati, il processo ai funzionari corrotti e, naturalmente, la cacciata di Saleh. Di fronte all’estensione della Intifada araba in questi tre paesi strategici della penisola arabica, le classi dominanti hanno combinato la disponibilità ad acconsentire ad aperture politiche e a concessioni materiali con la spietata repressione dei moti di piazza. Il culmine è stato il pugno di ferro abbattuto in Bahrein:il 14 marzo, esattamente un mese dall’inizio delle proteste, almeno un migliaio di soldati sauditi e 500 poliziotti degli Emirati, sotto la guida di istruttori britannici, sono accorsi su carri armati per puntellare la dinastia regnante.
Dal Che Fare n.° 74 giugno ottobre 2011
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