Dal Che Fare n.° 74 giugno ottobre 2011
L’India a cavallo del nuovo millennio
I primi anni novanta del XX secolo segnano una decisa svolta nella storia dell’India indipendente.
Il contrasto con l’imperialismo
Il capitale finanziario internazionale pregusta il momento in cui potrà ritornare da padrone sul sub-continente indiano. Prepara il banchetto con la richiesta di politiche "liberalizzatrici" finalizzate a smantellare l’armatura statalista su cui era stata costruita l’economia indiana: la riduzione delle barriere doganali, la diminuzione delle aliquote fiscali, il restringimento del sistema delle "licenze", la privatizzazione di alcune tra le migliori imprese pubbliche, maggiori spazi di manovra agli investitori esteri. Il capitale internazionale non è, però, l’unica forza sociale a spingere in questa direzione. A richiedere una revisione della precedente politica economica sono anche i settori e le imprese più dinamiche del capitale indiano, giunte oramai a dimensioni e livelli di concentrazione tali da essere costrette, per crescere ulteriormente, a confrontarsi più "liberamente" con i mercati internazionali. Cresciuti sotto la protezione dello statalismo di Nehru, avevano bisogno di liberarsi di quel tipo di intervento statale (1), di quel guscio che, da "serra", si stava trasformando in una morsa.
Pur convergenti, le due spinte capitalistiche non sono, tuttavia, coincidenti. L’ala liberalizzatrice della borghesia indiana vuole mantenere e consolidare l’ascesa del capitale nazionale, senza scivolare nel ruolo di intendenti e kapò dei capitalisti occidentali. Ha, quindi, interesse a portare avanti le riforme in modo graduale, così da permettere che dal tessuto delle piccole e medie imprese diffuso in tutto il paese emerga una rete capitalistica in grado di sostenere l’inserimento del paese nel mercato mondiale senza esserne stritolato. L’ala più lungimirante della classe dirigente indiana, sia nel partito del Congresso che in quello del Bjp, è, inoltre, consapevole che, a tal fine, deve preoccuparsi di contenere al massimo la polarizzazione sociale interna indotta dalle riforme.
In poco tempo, il contrasto tra la borghesia indiana e l’imperialismo emerge alla luce del sole, e nel corso degli anni novanta il ritmo delle riforme diventa più graduale. La ristrutturazione dell’economia indiana, nello stesso tempo, si consolida. Mettendo a frutto le dimensioni del paese, le potenzialità dell’accumulazione di capitali sedimentate nei decenni precedenti, la volontà del popolo indiano di andare avanti nel suo cammino ascendente, il poderoso ciclo di sviluppo che, negli ultimi vent’anni, ha investito l’intero continente asiatico, la borghesia indiana è riuscita, finora, nel suo intento. Dal 1990 ad oggi, il paese ha conosciuto una profonda trasformazione.
Vediamone gli aspetti principali e, soprattutto, le conseguenze sul decisivo versante dello scontro sociale e politico, in India e nel mondo.
Le riforme, la grande industria e la piccola impresa
Lo sviluppo industriale dell’India degli ultimi venti anni è stato notevole. Ne è un indizio il decollo degli investimenti esteri avvenuto dal 1990 ad oggi. Certamente, le multinazionali straniere hanno fruito delle privatizzazioni e della complessiva "apertura" dell’economia indiana.
Ma a beneficiarne sono stati anche e soprattutto i grandi gruppi indigeni (pubblici e privati). Nell’industria siderurgica e dell’alluminio, in quella chimica, in quella biotecnologica, ed in altri settori, si sono fatte le ossa aziende indiane affermate a scala mondiale (2). Nel 2005 le case farmaceutiche di Nuova Delhi hanno depositato presso l’
Us Food and Drug Administration richieste di brevetti più di ogni altra nazione. Oggi il settore delle fonderie indiano è il sesto per importanza al mondo e in termini di occupazione è secondo solo alla Cina. Multinazionali come la Kingfisher, l’Apollo, la Birla, la Ranbaxy, la Videocon, l’Hindalco, la Essar, non solo hanno conquistato con i loro prodotti importanti spazi nei mercati internazionali, ma sempre più spesso si lanciano in acquisizioni di imprese europee o di altre nazioni (3). Tramite gruppi come il Reliance Industries, l’India produce ed esporta crescenti volumi di prodotti petroliferi raffinati (nel 2009 si è toccata quota 29 miliardi di dollari) verso i paesi del golfo Persico, europei e dell’Asia orientale.Emblematico è poi il caso dell’industria automobilistica. Fino agli inizi degli anni ‘80, tre costruttori nazionali sfornavano un massimo di 40mila vetture all’anno. Nel 2009 la produzione di autovetture ha toccato 2 milioni e 600mila unità. Nuova Delhi è il settimo produttore mondiale di auto con un’occupazione complessiva (componentistica e indotto incluso) nel settore che, secondo alcune previsio ni, supererà i 20 milioni entro cinque o dieci anni. Oggi a Nuova Delhi (a fianco di case estere come Ford, Daewoo, BMW, Volkswagen, Nissan-Renault e Hyundai) giganteggia il colosso indigeno della Tata Motors. Con 20 miliardi di dollari di fatturato nel 2009-2010 e oltre 24mila dipendenti diretti in India, è il primo marchio automobilistico locale, il secondo produttore mondiale di autobus e il quarto più grande produttore di camion del globo. Nell’ultimo quinquennio ha registrato tassi di crescita di circa il 25% annuo. Nel 2008 ha acquisito sul mercato internazionale la Jaguar-Land Rover. Nel 2009 ha avviato la produzione, per il mercato interno, della Nano (l’auto più economica al mondo), ricevendo in appena tre mesi ordinativi per oltre 200mila vetture. L’altro gigante indiano dell’auto è la Mahindra, specializzata nella produzione di jeep e di "sport utilities". Con oltre 7 miliardi di dollari di fatturato e più di 100.000 occupati, ha recentemente acquisito la SsangYong in Corea del Sud. Anche nel campo della componentistica (batterie, freni, motori, elettronica, ecc.), l’industria indiana sta velocemente crescendo e ambisce a diventare uno dei maggiori esportatori internazionali.
È stimato che il volume d’affari del settore toccherà i 20 miliardi di dollari entro il 2015. Oltre che dalle esportazioni, la crescita dell’industria automobilistica di Nuova Delhi è trainata anche dallo sviluppo del mercato interno. Nel 2009 l’India è stato il nono mercato mondiale dell’auto, piazzandosi ad un’incollatura da Gran Bretagna, Italia e Francia. Ma non solo di autovetture si tratta. Si calcola che siano tra i 150 e i 300 milioni gli indiani che (a vari e molto differenziati livelli) hanno raggiunto, o si avviano rapidamente a raggiungere, un reddito ed una capacità di spesa tali da renderli potenziali consumatori di merci e servizi fino a "ieri" accessibili solo a ristrettissime fasce di popolazione. Ad esempio, fino a tutto il 2000 la rete di telefonia mobile aveva solo 3 milioni di abbonati; nel 2005 erano già stati superati i 100 milioni di utenti.
Se la politica delle "riforme" ha sin da subito dato un positivo impulso alla grande industria, la stessa politica, almeno per tutta una prima e non breve fase, si è al contrario tradotta in un rinculo per la media e piccola impresa, costretta a fare "improvvisamente" fronte ad una doppia ed agguerrita concorrenza. Mentre lo snellimento del "sistema delle licenze" consentiva alle grandi imprese di penetrare in quei comparti prima riservati alla piccola imprenditoria, la riduzione dei dazi doganali provocava un abbondante afflusso sul mercato interno (l’unico allora accessibile realmente alla piccola impresa indiana) di manufatti più competitivi di quelli da essa prodotti. Dai primi anni del nuovo secolo, però, si assiste ad una ripresa di quella fascia di piccole e medie aziende più "dinamiche" (come quelle operanti nella filiera dell’auto) che stanno proficuamente sfruttando il volano costituito dall’ampliamento del mercato interno e dal procedere del grande capitale indiano in campo internazionale (4).
Un giovane, esteso e combattivo proletariato
Lo sviluppo capitalistico che ha trasformato l’India negli ultimi venti anni, ha notevolmente modificato anche la composizione del proletariato indiano. Accanto al suo nucleo storico formato dai lavoratori (2 milioni) impiegati nel settore pubblico organizzato e tutelati da relative garanzie, si è andata formando una massa sterminata di salariati impiegati nelle fabbriche private e nel settore informale (5).
Facendo la tara delle difficoltà statistiche dovute alla particolare organizzazione dell’apparato produttivo indiano, si stima che siano almeno 50-60 milioni gli operai impiegati nel comparto industriale, una quota dei quali altamente qualificata. Se a questi si aggiungono i circa 30 milioni occupati dell’edilizia e i 15 milioni nei trasporti, si arriva ad una massa di lavoratori di 100 milioni. Tra i 50-60 milioni di operai industriali in senso stretto, solo 7-8 milioni risultano essere occupati nel settore "formale". La restante grande maggioranza lavora nelle numerose (e non necessariamente piccole o tecnologicamente arretrate) imprese "informali".
Nei primi quindici anni successivi alla "svolta" del 1990, il capitale indiano e quello occidentale, sfruttando l’oggettiva e incolpevole concorrenza esercitata dai lavoratori "informali" verso quelli "regolari", è riuscito a contenere fortemente l’incremento dei salari e a procedere verso un livellamento al ribasso delle retribuzioni anche nel comparto "organizzato". Si è calcolato che tra il 1993 e il 2004 il tasso della crescita delle retribuzioni in tutto il settore manifatturiero sia stato appena dello 0,05%. In pratica, quasi nullo.
Da qualche tempo però la musica sta cambiando. Scioperi e agitazioni stanno attraversando l’intera nazione coinvolgendo il settore "formale" e quello "informale". Alla base delle mobilitazioni non solo rivendicazioni salariali, ma anche quelle di diritti sindacali e di migliori (a c minciare dagli orari) condizioni lavorative. Queste lotte stanno portando a risultati di grande rilievo. Lee Quang, manager di una multinazionale di Hong Kong operante in India, ha descritto la nuova situazione in maniera illuminante: "Gli stipendi in India si stanno avvicinando a quelli delle nazioni sviluppate ad un ritmo molto veloce"; a causa del mutato clima sociale "le aziende hanno dovuto incominciare ad offrire salari più alti".
Negli ultimi tre anni, in varie branche del comparto manifatturiero si sono registrati aumenti salariali oscillanti tra il 15 e il 16%, dopo che già nel 2007 si erano registrati incrementi di circa il 12%. Il proletariato indiano sta, insomma, dimostrando sul campo (caso mai ve ne fosse bisogno) di non essere neanche lontanamente composto da schiavi miti e rassegnati ad accettare passivamente un’esistenza di stenti e di duro sfruttamento. Esso aspira, invece, a una vita migliore, e sta mostrando di saper lottare e organizzarsi per questa prospettiva. Al pari di quello cinese e di quello asiatico, è un giovane gigante che vede nell’avanzata a scala planetaria del "proprio" paese capitalistico il cavallo su cui puntare per ottenere un proprio avanzamento.
Sente di essere il vero motore dello sviluppo e del "progresso" della nazione e pretende la "sua parte". La borghesia indiana tenterà (sta già tentando) di sfruttare questo istintivo sentimento dei lavoratori per legare saldamente a sé ed alle sue prospettive di grande potenza emergente una quota decisiva della classe operaia indiana contro altre nazioni e contro i lavoratori di altre nazioni (e lo sta facendo anche con la conduzione di un’accorta politica estera, nelle acque sempre più agitate dei rapporti tra le potenze capitalistiche, come evidenziamonella scheda accanto).
C’è poco da meravigliarsi: è quanto succede anche qui in Europa, con un accodamento dei lavoratori alle proprie aziende e al proprio stato ancor più profondo e intessuto della partecipazione al dominio imperialistico sul mondo.
Quello che c’è da fare è, piuttosto, lavorare (teoricamente, politicamente ed organizzativamente) affinché quinel "vecchio" Occidente e là nella giovane Asia si inizino a costruire prime ed embrionali condizioni soggettive per uno sganciamento del proletariato da ogni prospettiva nazionalistica e per un affratellamento internazionale ed internazionalista di tutte le sue componenti. Di questo esercito mondiale del lavoro è parte integrante il mondo dei lavoratori delle campagne, di cui abbiamo proprio in India uno dei reparti più consistenti.
Un’agricoltura fortemente squilibrata
Le riforme varate a partire dal 1990 hanno investito in profondità anche le campagne. La diminuzione dell’investimento pubblico nelle infrastrutture agricole, la progressiva liberalizzazione del commercio tra i vari stati dell’Unione Indiana e tra il mercato interno e quello estero, l’adesione agli accordi di liberalizzazione stabiliti dall’Uruguay Round, la drastica riduzione dei crediti bancari agevolati ai contadini, hanno peggiorato pesantemente le condizioni della grande maggioranza dell’enorme fetta (tra il 50 e il 60%) della popolazione indiana che vive e lavora nelle campagne e hanno provocato una ancora più accentuata differenziazione sociale del mondo agricolo (6).
Il numero dei nuclei familiari rurali "senza terra" è passato dal 38,6 % dei primi anni ‘90 al 43% del 2005. È balzato dal 74% del 1994 all’82% del 2005 il numero di coloro, tra gli agricoltori "con terra", che vivono e producono in condizione di parziale o totale marginalità. Al degrado della condizione di centinaia di milioni di persone nelle campagne si accompagna un allarmante inquinamento della terra causato dallo sconsiderato uso degli agenti chimici durante l’attuazione della cosiddetta "rivoluzione verde" e il drastico rallentamento della crescita della produzione alimentare del paese, passata dal 3,2% annuo prima del 1990 all’1,6% dal 1990 ad oggi.
Questa situazione pone tanto le masse lavoratrici, quanto la borghesia di fronte a sfide epocali. Grazie alla liberalizzazione post- 1990, il potere e i profitti dei grandi conglomerati agrari e dei ceti (come quello dei grandi usurai) ad essi collegati si sono rafforzati. Questi conglomerati autoctoni (in concorrenza e insieme con le multinazionali dell’agro-business internazionale) ingrassano e comandano, direttamente o attraverso i mille fili invisibili del mercato e del credito, sul lavoro e la vita di centinaia di milioni di braccianti e piccoli contadini indiani.
Tuttavia, l’efficienza dell’agricoltura indiana non è ancora diventata adeguata al nuovo standard raggiunto dall’economia capitalistica indiana. Nelle campagne lavora oltre il 52% della forza lavoro (250 milioni di lavoratori), ma il contributo al Pil dell’agricoltura è un risicato 20% - nonostante l’India sia il primo produttore mondiale di tè, il terzo di cereali e il quarto di cotone. Una borghesia così ambiziosa come quella indiana non può alla lunga permettersi un’agricoltura con un livello di produttività tanto basso. Deve, quindi, sollecitare un altro grande balzo in avanti nell’espropriazione delle piccolissime proprietà (100 milioni di famiglie) e nell’estensione del dominio della grande impresa e dei suoi metodi di coltivazione. A questo passaggio di accelerazione del processo di espulsione della popolazione dalle campagne la borghesia indiana è interessata anche per un’altra ragione: per rifornire il mercato del lavoro con manodopera "fresca" da utilizzare nell’industria in espansione e anche da far entrare in concorrenza con la massa di occupati al fine di contenere il ciclo di lotte iniziato dal proletariato industriale (7).
Ma neanche gli sfruttati delle campagne sono soggetti passivi e indolenti, come li vuole rappresentare la propaganda imperialista. Essi stanno dando vita a lotte poderose, che si esprimono anche con la guerriglia naxalita nel Nord del paese. Per il momento la vita e le lotte dei proletari urbani e dei lavoratori delle campagne sono separate. Ma il fatto che gli sfruttati urbani e quelli rurali siano determinati, in India, a far valere, ciascuno nel proprio ambito, i propri interessi, pone la condizione di base, pur se non sufficiente, per ogni avanzamento politico futuro e il superamento dell’attuale separatezza.
Note
(1) Parliamo di "tipo" di intervento statale, perché la "svolta" dei primi anni ‘90 non significò un ritiro dello stato dalla società e dall’economia. Come più volte abbiamo sottolineato, una simile possibilità non esiste e non potrà mai esistere (vigente il sistema capitalistico) né in India né altrove. Con l’avvento delle "riforme liberalizzatrici" lo stato non si ritira, ma sposta progressivamente il baricentro del suo intervento verso funzioni più consone al sostegno di un moderno e sviluppato capitalismo nazionale, e in ciò si avvale di strumenti "diversi" rispetto a quelli del passato.
(2) Negli ultimi anni è fortemente cresciuto il peso delle esportazioni di merci provenienti da settori ad alta intensità di capitale e con manodopera qualificata, come quello chimico, metalmeccanico, elettronico ed automobilistico (quest’ultimo nel 2010 ha inciso per il 3,5% del totale delle esportazioni).
(3) Nel 2010 gli investimenti esteri indiani sono stati pari a 5,4 miliardi di dollari, con un incremento di 1,7 miliardi rispetto all’anno precedente. Inoltre, a giugno del 2010 le riserve in valuta internazionale detenute dalla Bank of India superavano i 282 miliardi di dollari.
(4) La piccola industria contribuisce per il 6,8% al Pil, rappresenta il 40% della produzione industriale e ormai copre il 35% dell’export di manufatti. Si calcola che le piccole aziende manifatturiere siano 10 milioni e che impieghino circa 30 milioni di operai.
(5) Meno del 7% della vasta forza-lavoro indiana (stimata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro intorno ai 470 milioni di unità) è impiegato in quello che è denominato settore "formale" (o "organizzato"). In pratica, solo 35 milioni di lavoratori hanno un posto tutelato da norme legislative. Tra questi, circa 21 milioni sono alle dipendenze dello stato e delle sue imprese. I restanti 15 milioni operano in aziende "formali" private.
(6) A tragica testimonianza di ciò, le migliaia di suicidi che ogni anno si veri- ficano tra i contadini indiani schiacciati dall’usura e dall’indigenza. Ma anche i movimenti di lotta e di resistenza che vanno sviluppandosi nelle campagne.
(7) Una simile "operazione", per non avere risultati sociali opposti a quelli a cui si mira, necessita che nel prossimo futuro il mercato del lavoro indiano accresca notevolmente le sue capacità di assorbimento di nuovi lavoratori nell’industria e nei servizi. In assenza di un tale fattore, l’incremento massiccio dell’emigrazione verso le città si presenterebbe gravido di pericoli sociali e politici.
Dal Che Fare n.° 74 giugno ottobre 2011
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA