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Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

India, un’ascesa dall’enorme peso sulla scena politica mondiale

Passo dopo passo, l’India sta conquistando un ruolo di primo piano nel panorama economico e politico mondiale. Non a caso, sul finire del 2010, Nuova Delhi è stata l’epicentro di un frenetico attivismo diplomatico, ben sintetizzato dal titolo apparso sul Corriere della Sera del 22 dicembre: "India, ora arrivano i Russi. È la sfilata dei Grandi alla corte di New Delhi. In 6 mesi Obama, Wen, Cameron e Sarkozy".

Certo, la marcia del capitalismo indiano non ha, al momento, né la velocità né la progressione di quello cinese. Nondimeno si tratta di un cammino che ha, e che ancor più potrà avere, un peso enorme sugli assetti geopolitici tra grandi potenze e sugli sviluppi della lotta proletaria mondiale.

Per bene inquadrare tutto ciò, non ci si può limitare alla cronaca o a semplici dati statistici. Bisogna andare un po’ indietro negli anni e tracciare a grandi linee il percorso e le "peculiarità" che (almeno) a partire dalla conquista dell’indipendenza hanno accompagnato e segnato la storia straordinamente complessa dell’ascesa del paese dell’Indo e del Gange.

Le righe che seguono hanno lo scopo preliminare di fissare alcuni paletti intorno ai quali incardinare l’analisi dello sviluppo capitalistico in India. Su questa base, nei prossimi numeri, cercheremo di mettere a fuoco l’articolata (anche geograficamente) dinamica del conflitto sociale, sindacale e politico in atto nel paese.

Il lento e contraddittorio sviluppo

dall’indipendenza agli novanta

Il programma nazionaleborghese di Nehru

L’India nasce come stato indipendente nel 1947, dopo due secoli di dominazione coloniale britannica. Il nuovo stato assume la forma costituzionale di un’unione raggruppante oltre trenta stati. Il potere governativo è saldamente nelle mani del partito del Congresso, una formazione interclassista pan-indiana formatasi ed affermatasi nei decenni precedenti. Vi prevalgono gli interessi dei ceti possidenti agrari ed industriali. Il loro obiettivo è quello di costruire un paese capitalista moderno e di trovare, liberati dai lacci della dominazione coloniale, una base più ampia per lo sviluppo delle loro attività capitalistiche. Hanno l’appoggio dei lavoratori urbani e delle masse lavoratrici delle campagne, i protagonisti della lotta anti-coloniale, che vedono nel programma del Congresso, anche contro le intenzioni di larga parte della direzione del partito, la base per uscire dall’inferno che ha loro elargito la civiltà bianca capitalistica. La strada è irta di ostacoli.

Le condizioni ereditate dal colonialismo britannico sono pesanti. Le esemplificano due dati: il tasso di alfabetizzazione è pari al 16% della popolazione; la vita media tocca appena i 32 anni. Le infrastrutture e le industrie di base sono scarse e inadatte a garantire un adeguato e moderno sviluppo economico. Nelle campagne, dove si concentra la stragrande maggioranza dei 350 milioni di persone che costituiscono la popolazione indiana (all’epoca il 15% di quella mondiale), si mescola l’agricoltura orientata all’esportazione impiantata dal capitale britannico (cotone, tè, oppio) e quella polverizzata  in micro-proprietà poverissime di autosussistenza. Nell’uno e nell’altro caso, le masse lavoratrici sono schiacciate dal lavoro nei campi e da una vita stentata, costretta al faccia a faccia quotidiano con la fame. A farla da padroni sono i grandi proprietari, gli usurai e gli artigli del capitale britannico che hanno in mano il controllo di funzionalizzare l’industria leggera e l’artigianato alle necessità produttive della sorgente grande industria di stato, che, allo stesso tempo, fornisce alle imprese private, a prezzi controllati, le materie prime e i semilavoratori di base per favorire, nel modo in cui era possibile nell’India degli anni cinquanta, l’ammodernamento  dell’industria leggera, altrettanto importante dello sviluppo dell’industria pesante. Dall’altro lato, il governo indiano tenta di tutelare la piccola e  piccolissima impresa semi-artigianale, intuendo l’importanza occupazionale rivestita da tale settore e l’effetto corroborante della sua stabilizzazione  sulla capacità di resistenza dell’India alle pressioni soffocanti dell’imperialismo, e subendo i contraccolpi derivanti dall’inerzia tecnologica e dal lento ritmo di crescita, caratteristici di questa realtà produttiva.

La politica di Nehru investe anche l’agricoltura, il settore economico dominante dell’India. Ma i risultati sono modestissimi, e solo in un secondo momento, alla metà degli anni sessanta, la classe dirigente indiana prende di petto, con la cosiddetta "rivoluzione verde", quest’altro decisivo versante di un moderno sviluppo capitalistico nazionale. 

Le radici dello "statalismo" indiano

Le forme assunte in India, all’indomani dell’indipendenza, dall’intervento dello stato a sostegno dello sviluppo capitalistico nazionale hanno certamente avuto tratti specifici. Ma la sostanza, le finalità e le motivazioni di questo intervento, al contrario di quanto afferma la "scienza" ufficiale, non costituiscono per nulla una particolarità storica o geografica né tantomeno un tentativo di realizzazione del programma comunista. Per almeno tre fondamentali motivi.

Primo: come spiega Marx, sin dal suo sorgere in Inghilterra, il capitale ha la necessità di essere accompagnato, protetto ed "allevato" dal proprio organismo statale. La storia secondo cui il capitale nasce "liberale" e solo successivamente è, suo malgrado, costretto a "subire" l’azione dello stato, è una pura (e per nulla ingenua) invenzione (2).

Secondo: tutti i paesi che (come l’India) hanno potuto avviare solo in ritardo lo sviluppo capitalistico nazionale, si sono trovati a fare i conti con la minacciosa presenza dell’imperialismo statunitense ed europeo, protesi a pugnalare nella culla il nuovo arrivato. Le nazioni emerse ed affermatesi grazie al moto di liberazione anticoloniale non potevano trovare che nello stato il baluardo appariscente per proteggere la "culla" (3).

Terzo: la mano centralizzatrice dello stato ha, infine, rappresentato l’organo con il quale i "nuovi arrivati" hanno compensato l’insufficiente disponibilità di capitale liquido che le borghesie europee (in misura tra loro differenziata) hanno potuto raccogliere su un arco temporale dilatato, e grazie alla rapina coloniale perpetrata tra il XVI e il XIX secolo. Nei paesi appena liberati dal colonialismo, i capitali "privati" sono (relativamente) poco concentrati e scarsi. Eppure, per avviare un moderno industrialismo bisogna investire (e in fretta) nelle infrastrutture e nelle produzioni di base. Si tratta di investimenti che necessitano di grandi quantità di capitale e che, peraltro, non garantiscono un immediato ritorno in termini di profitto. Solo lo stato ha la possibilità di concentrare nelle sue mani le risorse finanziarie necessarie per avviare simili intraprese, ed è proprio per questo che esso si presenta nella veste di imprenditore direttamente e in modo molto più esplicito di quanto accadde in Occidente.

Il "non allineamento" in politica estera

Per sorreggere il non facile avvio di un moderno sviluppo economico, la classe dirigente indiana si impegnò sulla scena mondiale per conquistare sponde economiche e spazi di manovra adeguati. Strinse solidi rapporti politici ed economici con l’Unione Sovietica (la seconda superpotenza di quegli anni), ma allo stesso tempo agì in modo da non averne le mani troppo legate. A tal fine, l’India partecipò alla costituzione del fronte dei paesi "non-allineati". Nato alla conferenza di Bandung nel 1955, il fronte dei "non allineati" era composto per lo più da nazioni che avevano da poco conquistato la loro indipendenza dal dominio coloniale. La loro finalità era quella di aiutarsi a vicenda in modo da garantirsi una maggiore capacità di contrattazione nei rapporti con le superpotenze dell’epoca, gli Usa e l’Urss. Anche nei rapporti con gli Stati Uniti il governo indiano seguì un criterio "elastico".

Dapprima le relazioni con Washington furono improntate a grande freddezza. Poi, in occasione del conflitto armato che nel ’62 vide (nella regione di confine dell’Aksai Chin) le truppe indiane avere la peggio contro quelle cinesi, si assistette ad un cauto disgelo tra Nuova Delhi e Washington.Insomma, sin dalla conquista dell’indipendenza, l’India dimostrò di ambire ad un ruolo "in proprio" sul panorama mondiale. Ne è una conferma l’avvio nei primi anni ‘60 di un programma nucleare che porterà al primo test atomico nel 1974.

La "rivoluzione verde"

Lo shock della sconfitta militare del 1962, la tensione crescente con il Pakistan, l’aumento dei bilanci militari, la crescita della popolazione urbana, il rischio di scivolare nella dipendenza alimentare dall’estero resero indilazionabile l’avvio di una svolta modernizzatrice anche in campo agricolo.

Le potenzialità agricole dell’India erano e sono immense. Grazie alla diversità dei climi e al rilievo favorevole, il 60% dell’immenso paese è coltivabile: 190 milioni di ettari (la  seconda superficie coltivata al mondo dopo quella degli Usa). Il ciclo dei monsoni permette due raccolti l’anno. Eppure a metà degli anni sessanta la denutrizione è ancora endemica e torna a ripresentarsi lo spettro delle carestie, che durante il periodo coloniale avevano decimato milioni e milioni di persone. Intorno alla metà degli anni ’60 (Indira Gandhi è succeduta a Nehru alla guida del Congresso e della nazione) viene avviato un programma finalizzato a sviluppare la produttività del settore. Lo stato interviene direttamente per promuovere l’utilizzo di nuove sementi ad alta resa, soprattutto per il grano e il riso, il miglioramento dei sistemi di irrigazione, l’uso dei macchinari e dei fertilizzanti chimici, l’allargamento della superficie coltivata. In pochi anni, il paese raggiunge effettivamente l’autosufficienza alimentare: la produzione di granaglie passa da 82 milioni di tonnellate nel 1960 a 176 milioni nel 1990.  La "rivoluzione verde", che non è accompagnata da una trasformazione radicale dei rapporti di proprietà agrari, non produce, però, un significativo innalzamento complessivo nel tenore di vita delle centinaia di milioni di contadini che affollano le campagne indiane (4). A trarre vantaggio da tale politica sono soprattutto i grandi ed i medi proprietari. Per applicare le nuove tecniche è necessario avere accesso al credito o disporre di capitali propri, è  necessario disporre di vasti appezzamenti di terreno. I piccoli ed i piccolissimi contadini mancano completamente del primo e del secondo requisito. La cosiddetta "rivoluzione verde" rafforza e genera, quindi, un moderno strato capitalistico agricolo a fronte di un impoverimento di massa di minuscoli agricoltori.

Per quanto la "rivoluzione verde" permetta di raggiungere, all’immediato, l’obiettivo nazionale dell’auto-sufficienza alimentare, la sua impostazione di classe è destinata a minare, alla distanza, questo stesso risultato. Non è difficile prevedere, infatti, che, sulle basi della politica agricola avviata negli anni sessanta, la resa per ettaro non potrà superare un certo limite e soprattutto che non si potrà risolvere il problema storico della denutrizione di una larga parte della popolazione.

Le tensioni iniziano a manifestarsi negli anni settanta, con lo sviluppo delle lotte dei contadini poveri e dei braccianti, con la decisione del governo indiano, di fronte al crescere delle tensioni sociali interne, di avviare una più spinta redistribuzione delleterre e di nazionalizzare il commercio del grano. Misura, questa, con cui si mirava a costruire le condizioni per poter offrire a prezzi calmierati il cereale alle fasce più povere della popolazione.

L’opposizione del grande capitale agrario (che insieme a quello industriale condiziona di fatto la politica del Congresso) fa fallire entrambe le iniziative governative. Lo scontro è la spia dei confliggenti interessi sociali che si sono accumulati in vent’anni entro la società indiana. A portarli alla luce è la crisi economica mondiale del 1973 ed i riflessi di essa sullo sviluppo capitalistico indiano.

Un’era sta per giungere al termine.

Di fronte all’impennata del prezzo del petrolio, la politica degli investimenti pubblici e lo sviluppo dell’accumulazione del capitale nazionale, portati avanti in precedenza, non possono più procedere garantendo, al contempo, la redistribuzione dei benefici della c rescita economica a vantaggio delle masse lavoratrici, l’arricchimento e l’allargamento degli spazi di manovra dei grandi gruppi capitalistici privati (5) e di stato e la sopravvivenza del vasto mondo delle piccole imprese e del settore artigiano.

La convergenza tra gli interessi delle varie classi sociali comincia a scricchiolare. La politica economica di Nerhu e poi quella, successiva, di Indira Gandhi avevano portato allo sviluppo di un consistente proletariato industriale impiegato soprattutto nelle grandi imprese di stato. Le sue condizioni erano decisamente migliori rispetto a quelle delle rimanenti masse lavoratrici urbane e rurali: sia dal punto di vista salariale ed occupazionale (praticamente si era quasi illicenziabili) che da quello "extra-lavorativo" (con la fruizione di abitazioni decenti e di una qualche tutela sanitaria). Questa posizione di relativo "privilegio" era il frutto di un "compromesso sociale" a cui lo stato e la grande  borghesia indiana erano stati costretti da due fondamentali fattori. Primo: senza il protagonismo e l’eroismo delle masse proletarie, la lotta di liberazione nazionale non avrebbe mai potuto essere vittoriosa. Secondo: il sostegno di questo importantissimo settore del mondo del lavoro era altrettanto vitale per il successo della politica industrialista dell’India indipendente. Da parte sua, il proletariato industriale vide nello sviluppo capitalistico della nazione una concreta prospettiva di miglioramento della propria complessiva condizione e, di fatto, si accodò alla politica del Congresso.

Negli anni settanta, per la prima volta, la classe operaia delle aziende statali sente che la sua posizione e le sue condizioni non solo rischiano di non progredire, ma vengono anche messe in discussione. Scioperi e movimenti di protesta si sviluppano in tutto il sub-continente provocando una durissima repressione governativa (6). La conflittualità sociale si acuisce anche nelle campagne con il risveglio di ampi settori di bracciantato, costituito per lo più da "fuori casta"(7) fino ad allora lontani dalla scena sociale, e con la reazione durissima, imperniata su vere e proprie spedizioni punitive e massacri, dei capitalisti e dei latifondisti. Il Congresso e il governo cercano di affrontare l’acuta crisi sociale che scuote il paese e di proseguire nel programma di sviluppo nazionale con un’accorta mescolanza di accentuazione del dirigismo statalista, di repressione delle spinte sociali più radicali tra gli operai e i braccianti, di aperture agli investimenti occidentali, di alleggerimento del sistema delle licenze, di contenimento delle pressioni del grande capitale privato rivolte ad acquisire mano libera nella gestione della forza-lavoro. La manovra, accompagnata da un cauto indebitamento sui mercati finanziari internazionali per reperire i finanziamenti richiesti dalla realizzazione dei piani di sviluppo progettati, sembra in un primo momento funzionare.

Ma è l’impressione di un mattino. Alla fine degli anni ottanta l’India è alle strette. Il rialzo dei tassi di interesse pilotato dalle amministrazioni repubblicane di Reagan (8), l’impennata del prezzo del petrolio seguito alla sfida lanciata all’imperialismo dall’Iraq di Saddam Hussein nell’estate del 1990, la caduta del mercato capitalistico che aveva garantito all’India una parziale protezione dai vampiri occidentali, il crollo dell’Unione Sovietica, portano l’India sull’orlo del collasso. Nel 1991 il governo indiano è costretto a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale.

Il Fondo Monetario Internazionale impone, ad umiliante garanzia per la concessione del prestito, che buona parte delle riserve auree indiane siano fisicamente trasferite a Londra. Nello stesso tempo, richiede una più decisa liberalizzazione dell’economia indiana. La finanza e le potenze imperialiste si leccano i baffi: il momento atteso da oltre quarant’anni di rimettere le mani sul gigante asiatico, sul suo immenso mercato e sulla sua estesa manodopera sembra a portata di mano. Come  siano andate le cose da quel "lontano" 1991 ad oggi è cosa che discuteremo nell’articolo "L’India a cavallo del nuovo millennio"

 Note

(1) Sulla cruciale questione della "separazione" (la cosiddetta "partition") col Pakistan rimandiamo a quanto scritto nel n. 73 del che fare.

(2) Su questa fondamentale questione dello stato rimandiamo all’articolo apparso sul n.71 di questo giornale "Stato, capitalismo e… rivoluzione". Ricordiamo che tutti gli articoli degli scorsi numeri sono reperibili sul nostro sito.

(3) Usiamo il termine "appariscente" perché in realtà lo stato (al contrario di ciò che può sembrare) è molto più elefantiaco e "invadente" nei paesi a capitalismo avanzato di quanto lo sia nei paesi "in via di sviluppo".

(4) Per un’analisi dei risvolti sociali ed ecologici della cosiddetta "rivoluzione verde", rimandiamo a vari scritti di Vandana Shiva, interessanti nella documentazione che offrono e in alcune riflessioni che svolgono, pur in presenza di un’impostazione teorica e una linea politica lontanissime dalle nostre.

(5) Al di là della contraddittorietà di alcune misure, la gabbia protettiva con cui lo stato avvolse l’economia indiana avvantaggiò enormemente le grandi concentrazioni capitalistiche "private" (come la Tata Motors, la maggiore industria automobilistica indiana - per fare un nome ormai noto a scala planetaria) che nel trentennio successivo all’indipendenza videro accrescere decisamente il loro potere e la loro influenza politica ed economica.

(6) Nel maggio del 1974, lo sciopero nazionale dei ferrovieri (categoria che di fatto era alla testa del movimento di lotta sociale) viene represso con una brutalità che secondo alcuni testimoni raggiunse "livelli mai visti prima in India". Circa ventimila scioperanti sono arrestati.

(7) In India la divisione della società nelle moderne classi proprie della società capitalistica si intreccia e si sovrappone all’antica divisione in caste peculiare del subcontinente asiatico. I "fuori casta" (o "intoccabili") costituirono per secoli e secoli (e, in buona parte, costituiscono ancor oggi) la parte più povera e più oppressa della società indiana.

(8) Tra il 1979 e il 1987, il pagamento degli interessi sul debito estero cresce del 22% all’anno.

Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

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