Dal Che Fare n.° 74 giugno ottobre 2011
Riportiamo un nostro intervento alla Fincantieri di Marghera subito dopo la presentazione del "piano industriale" della direzione dell’azienda
Fincantieri: un attacco alla classe operaia che potrà essere
respinto solo con una lotta risoluta e unitaria!
Alla fine dello scorso maggio la Fincantieri ha finalmente svelato le sue carte. Il suo "piano industriale" è una vera e propria dichiarazione di guerra contro i lavoratori, i loro nuclei organizzati, le loro organizzazioni. Con due capitoli. Capitolo primo: licenziamento di 2.551 lavoratori, chiusura degli stabilimenti di Sestri (Genova) e di Castellammare di Stabia, accorpamento degli stabilimenti di Riva e Muggiano (in Liguria). Capitolo secondo: nuove regole e nuovi standard per innalzare la produttività, nuove regole in materia di sciopero per limitare o azzerare gli scioperi nelle fasi più calde di costruzione delle navi, premi di produzione legati sempre più strettamente alla presenza e al cottimo (e quindi sempre più individuali), settimana lavorativa di 6 giorni su 7 (per ora solo a Palermo, poi …).
Le ragioni di questa dichiarazione di guerra, dal punto di vista padronale, non fanno una grinza. Nel mondo, dicono Antonini e Bono, presidente e amministratore delegato della Fincantieri, c’è un eccesso di capacità produttiva che durerà molti anni; le commesse di grandi navi sono dimezzate; gli altri paesi europei hanno da tempo abbandonato il settore o, come la Germania, hanno accorpato tutta la produzione in un solo stabilimento; e, infine, manco a dirlo, c’è la concorrenza di Corea del Sud e Cina, gli ultimi venuti nel settore della costruzione di navi. Da tutto ciò Fincantieri è obbligata a "razionalizzare" e a ridurre drasticamente i costi di produzione con il taglio degli addetti e l’incremento esponenziale della loro produttività con un piano aziendale che, dichiarano ai sindacati, non è modificabile.
La sola e unica risposta operaia efficace a questo attacco frontale dell’azienda è quella della lotta dura e unitaria per respingere al mittente tutto il piano. Difficile, ma possibile ad alcune precise condizioni. La prima è quella di scendere in campo senza indugi. I lavoratori di Castellamare e di Sestri lo hanno fatto immediatamente dando una prova della loro forza organizzata e costringendo il governo a convocare le "parti sociali". Anche a Marghera sono partiti i primi scioperi. Ma non basta. Mesi fa davanti alle lotte in Liguria, Campania e Sicilia e alla manifestazione unitaria di Roma l’azienda fu costretta ad un mezzo passo indietro. Poi, grazie anche alla collaborazione dei dirigenti sindacali, Fincantieri ha lavorato abilmente cantiere per cantiere per dividere i lavoratori e mettere i cantieri l’uno contro l’altro e ha fatto passare quasi ovunque la cassa integrazione, arma micidiale utilissima per indebolire la classe operaia. In questo modo ha estromesso dalla produzione un gran numero di lavoratori Fincantieri e gettato nella disoccupazione migliaia di lavoratori degli appalti rendendo più difficile la risposta dei lavoratori.
La seconda condizione indispensabile per una lotta vincente è l’unità tra tutti i cantieri. In questo c’è una responsabilità particolare dei lavoratori dei cantieri dove ancora si lavora, che sono chiamati ad uscire allo scoperto fermando la produzione, perché solo così si può costringere azienda e governo a capitolare. Non si deve accettare nessuna chiusura e nessun "accompagnamento alla pensione" se non con l’assunzione di nuovi lavoratori in pianta stabile. La terza condizione è il coinvolgimento diretto del governo, ma come controparte, non come un possibile amico dei lavoratori o un arbitro imparziale dello scontro. Inutile, e quanto mai dannoso, sperare nei "buoni uffici" del governo. Il governo è l’azionista n. 1 di Fincantieri, e se questo non bastasse, ricordiamo che è proprio il governo Berlusconi che ha fatto a pezzi il diritto del lavoro conquistato dal movimento operaio in decenni di lotte e che sta scardinando lo "stato sociale"… come potrebbe un governo del genere fermare davvero i suoi tirapiedi nella cantieristica?
Il governo deve essere obbligato dalla forza decisa e organizzata dei lavoratori a salvare tutti i cantieri, quali che siano le contingenze del mercato (gli 840 milioni messi in campo della Cassa Depositi e Prestiti per finanziare due nuove navi sono solo un primo, modesto risultato di questa forza). Ma nonostante le accese manifestazioni di Genova e di Castellammare, però, la lotta (scriviamo il 29 maggio) non sta prendendo questa piega. Ne hanno gravi responsabilità le direzioni sindacali Cisl e Uil sempre pronte a piegarsi alla logica del mercato, del "si salvi chi può" e "ci dispiace per gli altri". Questi "realisti", sempre pronti alla difesa del re-capitalista, stanno facendo passare tra i lavoratori l’idea che Marghera e Monfalcone, i cantieri che dovrebbero essere, per ora, i meno penalizzati, possono salvarsi da soli, e che quindi è bene non "esagerare" con la lotta in questi due cantieri perché c’è pure il rischio che le future navi le portino a Genova anziché a Marghera e Monfalcone … Questo è veleno allo stato puro, perché più passa la divisione tra i cantieri, più passa il padrone.
Come è veleno prospettare ai lavoratori "accomodamenti" al ribasso che non fanno altro che indebolire il fronte di lotta, o alimentare la fiducia nei "tavoli di trattativa" che durano anni con il solo effetto –vedi la desertificazione di Porto Marghera – di estenuare le lotte. Ma anche la più combattiva Fiom ha le sue grosse colpe. Sono anni che i suoi dirigenti, come se fossero degli aspiranti manager in carriera, "indicano" al padrone come rendere più competitivi i cantieri, come riqualificarli, come perseguire la "via alta allo sviluppo". Una tale politica fino ad oggi si è concretizzata (e non poteva che concretizzarsi in questo modo) solo nell’accettazione delle regole del mercato; nella semina, tra i lavoratori di Marghera, ad esempio, dell’illusione di essere i soli a saper costruire "le più belle navi del mondo nei tempi concordati e ai costi prefissati" (salvo, poi, che il 75% delle navi viene costruito e messo a punto dai lavoratori degli appalti e dei subappalti, sfruttati in modo bestiale); e nella accettazione nei fatti di ciò che si respingeva a parole, e cioè dell’appalto parcellizzato e malleabile come strumento indispensabile per rispondere ai costi e alle esigenze del mercato.
Diversa deve essere la risposta operaia se si vuol uscire da un tunnel che ha poco a che fare con le "strategie della navalmeccanica". I problemi che oggi vivono gli operai della Fincantieri sono comuni a tanti altri settori produttivi, perché non è solo la cantieristica ad essere sotto scacco e perché la "logica" di Fincantieri è la logica di Fiat, è la logica dei padroni.
I lavoratori della Fincantieri hanno quindi una sola strada davanti a sé: vedere l’azienda e il governo come la propria controparte, dare continuità alle prime risposte di lotta dei cantieri più colpiti, tessere l’unità tra tutti i cantieri, senza localismi. I cantieri navali sono tutt’oggi presidi di organizzazione operaia e già solo per questo motivo vanno difesi con determinazione. La Fincantieri non vuole solo licenziare; vuole anche fare piazza pulita di tutti i residui di opposizione operaia interna per riprendere saldamente il controllo dell’organizzazione del lavoro e degli stabilimenti: a questo servono le norme anti sciopero e anti sindacali che si vorrebbero introdurre tramite l’accordo sulla ristrutturazione. E per questo bisogna legare strettamente la lotta contro i licenziamenti alla lotta contro l’aggressione alla organizzazione operaia nei cantieri.
Bisogna battersi per formare velocemente un coordinamento operaio nazionale degno di questo nome, che abbia come proprio obiettivo di respingere integralmente il piano aziendale e miri a coinvolgere in pieno i lavoratori degli appalti, gli immigrati dal Sud e dall’estero, e i "territori", ovvero tutti coloro i quali vivono, hanno vissuto e sperano di vivere con un lavoro dignitoso e con la schiena dritta innanzi al padronato. Va dato respiro alla mobilitazione.
Portare la lotta dai cantieri nel cuore delle città, proiettarsi verso l’intero mondo del lavoro. Aprirsi e rivolgersi agli operai degli altri cantieri fuori dall’Italia. In tutta Europa c’è una discussione intorno al "sostegno pubblico" alla cantieristica: dobbiamo trasformare questa "discussione" in vertenza, in lotta unitaria, dalla Polonia alla Spagna, a difesa dell’occupazione e dell’organizzazione operaia. Una lotta che deve sapersi proiettare fuori dall’Europa verso i lavoratori dell’Asia anzitutto, che ci vengono presentati dai nostri veri nemici come i nostri avversari, e che possono essere, invece, i nostri compagni di lotta.
Si tratta di compiti che i lavoratori più coscienti ed attivi devono assumersi in prima persona.
29 maggio 2011
Dal Che Fare n.° 74 giugno ottobre 2011ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA