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Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

La grande Intifada araba scuote il mondo intero.

Le radici storiche del movimento proletario in Egitto

Il protagonismo del proletariato nella lotta di classe in Egitto non è una novità dell’ultima ora. La novità sta solo nell’estensione di tale protagonismo, che deriva, prima di tutto, dalla crescita dei suoi ranghi avvenuta negli ultimi trenta anni, dall’inserimento diretto del suo lavoro e della sua esistenza nella dinamica globale del capitale mondializzato e dalla più estesa proletarizzazione della società egiziana. La classe lavoratrice ha, in effetti, svolto un ruolo di primo piano in tutti i momenti salienti della lotta del popolo egiziano per riscattarsi dall’umiliazione e dal sottosviluppo in cui l’Egitto e l’intero mondo arabo sono piombati nell’epoca coloniale: lo scontro a cavallo tra il 1879-1882 che portò l’Egitto sotto il diretto controllo della Gran Bretagna; la grande battaglia per l’indipendenza del primo dopoguerra, che fece passare il paese dal protettorato britannico alla monarchia di re Faruk, formalmente indipendente ma in realtà pedina di Londra; e, poi, la ripresa del movimento antimperialista nel secondo dopoguerra, fino all’abbattimento della monarchia di re Faruk nel 1952 e, nel 1956, alla nazionalizzazione del canale di Suez, con la connessa guerra contro Israele, la Francia e la Gran Bretagna.

La classe operaia ha partecipato in prima fila a queste memorabili lotte aspettandosi che la conquista dell’indipendenza, la formazione di un moderno stato borghese (in Egitto e, in prospettiva, nel mondo arabo) potessero permettere lo sviluppo di un’economia capitalistica "autocentrata" e, sulla base di ciò, il miglioramento delle condizioni di lavoro e di esistenza proprie e delle masse lavoratrici tutte, urbane e rurali. Vi è stato un solo brevissimo "momento", tra il 1919 e il 1924, in cui, con la nascita dei primi nuclei comunisti e poi con quella del partito comunista nel 1922, aderente l’anno successivo alla Terza Internazionale, la parte più avanzata della classe proletaria sostenne il tentativo di fare della classe lavoratrice dell’Egitto una forza autonoma ed indipendente (dalla borghesia nazionale) della lotta al colonialismo imperialista, collegandola alla battaglia internazionale per il socialismo. Ma questo tentativo, intrinsecamente fragile per il ruolo ancora molto limitato del    proletariato industriale, fu stroncato, prima ancora che per motivi interni all’Egitto, per la forza della controrivoluzione internazionale, soprattutto nelle metropoli imperialiste, e per la parabola involutiva del movimento comunista legato alla Terza Internazionale.

Il riconoscersi nella prospettiva risorgimentale nazional-borghese portò i lavoratori a sostenere la politica di Nasser, ad accettare di disciplinarsi alla condizione da essa posta di annullare la vita politica della classe proletaria e di inquadrarne le esigenze entro la struttura del sindacato di stato. La speranza era che ciò potesse favorire lo sviluppo  capitalistico e l’autonomia del paese sulla scesa internazionale e, alla fin fine, il proprio riscatto sociale. Le cose andarono diversamente, tanto su un versante quanto sull’altro.

Il nasserismo, in Egitto e nell’intero mondo arabo, impattò con la presenza diretta e indiretta (tramite il neonato stato di Israele) del superimperialismo yankee, erede dei vecchi poteri coloniali scalzati, e con l’estrema difficoltà a inserirsi da pari in un mercato mondiale fortemente strutturato e dominato da un pugno di potenze industriali e finanziarie intenzionate a non cedere spazio ai nuovi venuti. Questo doppio impatto mandò in pezzi ogni ipotesi di effettiva realizzazione del sogno pan-arabo, e lasciò le singole nazioni arabe sole, anzi in crescente concorrenza tra loro, nel cercare una (impossibile) via d’uscita "individuale".

Benché i tempi e i modi del ripiegamento siano stati differenti per i differenti paesi, c’è stato ovunque, a cominciare da Tunisia e Egitto, un ripiegamento della rivoluzione antimperialista araba. Dall’orgoglioso sforzo iniziale di costruire economie "autocentrate" e, in prospettiva, complete, dagli ambiziosi progetti di "sostituzione delle importazioni", dai proclami di anti-imperialismo e di "socialismo arabo", l’uno dopo l’altro i paesi arabi sono rifluiti verso nuove forme di dipendenza economica e politica, con l’accettazione di fatto di specializzazioni subalterne e del ruolo di gendarmi locali dell’ordine mondiale a stelle e strisce.

Il ripiegamento e la sottomissione all’imperialismo mise fine anche al  periodo di progresso materiale nella condizione dei lavoratori iniziato negli anni cinquanta. L’Egitto diventa una società-caserma, nella quale il capitale internazionale organizza uno dei reparti più profittevoli della fabbrica planetaria e uno dei bastioni militari per il controllo della nevralgica area a cavallo del canale di Suez. I tentativi che i lavoratori, a più riprese nell’arco di trent’anni, mettono in campo per difendere le proprie condizioni e i residui spazi di iniziativa sindacale si  scontrano e sono messi a tacere dal sindacato di stato (l’Egyptian Trade Union Federation, Etuf) e, quando ciò non basta, dalla spietata macchina repressiva della polizia e delle forze armate.

La ripresa della lotta proletaria, come hanno mostrato gli scioperi del 2004-2008 e la sollevazione del 2011, non poteva che far saltare, oltre all’élite raccolta attorno a Mubarak, anche la cappa del sindacato di stato. La continuazione della lotta  intrapresa fino alla completa vittoria richiederà che il proletariato sappia fare i conti anche con la propria stessa fiducia di potersi emancipare senza attaccare le basi stesse dell’imperialismo, e cioè il sistema sociale capitalistico. Siamo sicuri che, tra le varie componenti dell’Intifada egiziana ed araba, i proletari, così come sono stati i primi a continuare la lotta anche dopo la fine di Mubarak, saranno i primi a riconoscere la natura di classe del blocco che ha preso il potere al Cairo; i primi a bruciare le illusioni, presenti estesamente nella società egiziana, che si possano conseguire in Egitto gli obiettivi democratici del movimento di massa senza una sua ulteriore radicalizzazione rivoluzionaria; i primi a saper guardare oltre i limiti di una democrazia borghese tutta ancora da conquistare per proiettarsi verso quel pieno riscatto di classe, che essa non potrà mai realizzare e che potrà avverarsi solo nel quadro del socialismo internazionale.

Dal Che Fare  n.° 74 giugno ottobre  2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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