Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
La crisi del sistema monetario internazionale (serie di articoli sul n.73)
Gli Stati Uniti, a muso duro
Incalzati dall’efficace azione a tutto campo delle autorità cinesi, in difficoltà nei rapporti con l’Unione europea sul piano economico e valutario, appesantiti da un deficit scattato in un solo anno dal 10% al 20% del prodotto interno lordo, incapaci di dare continuità ed energia alla propria ripresa produttiva, gli Stati Uniti di Obama si orientano sempre più verso la linea dura, l’azione aggressiva e unilaterale. Non hanno alternative: il tempo delle azioni soft è scaduto, anche se – come si è visto a Lisbona con la riunione della Nato – la ricerca di un consenso europeo e la riconferma dell’alleanza strategica con l’Europa, oltre che l’amo teso alla Russia in funzione anti-Cina e anti-islam, restano dei punti fermi, tali, però, solo allo scopo di poter meglio esercitare una politica di attacco strategico anzitutto in Asia.
Ecco perché la Federal Reserve ha deciso di immettere sul mercato, attraverso un maxi-acquisto di propri buoni del tesoro, un’enorme quantità di dollari allo scopo di deprimere il valore della propria moneta. Ecco perché, nel mentre compie questa operazione, il governo di Washington accusa quello di Pechino di fare una concorrenza sleale proprio attraverso la manipolazione della propria moneta, e agitando una mazza da baseball in mano, avanza due proposte provocatorie: la maxi-rivalutazione dello yuan e la fissazione di un tetto alle esportazioni di ciascun paese (leggi: Cina, Germania e Giappone) pari al 4% del suo pil. Ecco perché il Congresso statunitense ha già messo a punto, nel caso la Cina non dovesse piegarsi almeno in parte a queste imposizioni, misure protezionistiche che i nuovi venuti del Tea Party sono intenzionati a inasprire.
Per la Cina accettare simili diktat comporterebbe, oltre che una drastica decurtazione del proprio export, una devastante crisi sociale interna. Con insolita franchezza il premier cinese Wen Jiabao ha dichiarato al Business Forum euro-cinese di Bruxelles dello scorso ottobre: “molte delle nostre imprese esportatrici chiuderebbero, i nostri lavoratori emigrati dovrebbero tornare ai loro villaggi. Ma se esplodessero turbolenze economiche e sociali in Cina, sarebbe un disastro per il mondo intero”. Disastrosi per la Cina sarebbero pure gli effetti dell’iper-inflazione che gli Usa stanno preparando con la loro politica monetaria per l’entità del danno patrimoniale che deriverebbe sia dalla trasformazione delle sue enormi riserve di dollari in cumuli di carta straccia che dalla crescita di valore dello yuan. I danni, però, non sarebbero limitati alla sola Cina. Già il Brasile e altri paesi emergenti stanno prendendo contromisure nei confronti di questa nuova, grande massa di liquidità creata da Bernanke che si dirige spontaneamente proprio verso i paesi emergenti creandovi bolle speculative e corrosivi apprezzamenti delle loro monete. Altrettanto inquieti il Giappone e l’Unione europea, che molto puntano sulle esportazioni, e sono ovviamente danneggiati dalla crescita del valore delle proprie monete causata dalla politica monetaria di Washington.
Si vede qui in modo nitido come, a differenza che negli anni di Bretton Woods, la difesa degli interessi statunitensi cozzi oggi apertamente con gli interessi di componenti determinanti, e tra le più dinamiche, del capitale globale (avendo gli Usa abbandonato la produzione manifatturiera, secondo la bacchettata del tedesco Schauble) e perché la sua moneta, invece di garantire stabilità (quanto sono lontani i tempi della convertibilità in oro e dei cambi fissi!), sia diventata un fattore di turbolenza, di destabilizzazione di prima grandezza. E non solo in campo valutario. Del resto, se gli Stati Uniti si sono prefissi l’obiettivo di raddoppiare le proprie esportazioni nel giro di cinque anni, ed esattamente sulle esportazioni puntano anche gli altri paesi occidentali e quelli emergenti, la crescita dei conflitti inter-capitalistici è scritta nelle cose.
L’irrisolta contesa valutaria sembra infatti evolvere nel senso di una strisciante guerra commerciale, e le tensioni economiche verso l’intreccio sempre più stretto con quelle politico-strategiche. Commentando la visita di Obama in Cina dello scorso gennaio, De Cecco ha fatto un appropriato parallelo storico: “Tutti l’hanno buttata in politica, e il mescolare politica estera e politica economica è storicamente frequente, ma pericoloso. Riserve e cambi, dopo la globalizzazione di fine ‘800, cominciarono a far parte dell’armamentario di politica estera nei quindici anni che terminarono con il 1914. Una data che evoca perfino nei giovani il ricordo tragico della prima guerra mondiale”. A confermare la validità di tale riferimento è venuto il recente lungo tour asiatico in cui il “pacifista” Obama e i suoi ministri Clinton e Gates sono andati ad attizzare tutti gli irrisolti contenziosi territoriali e diplomatici intra-asiatici onde poter “offrire protezione” ai paesi in attrito con Pechino. Poi, a strettissimo giro di posta sono arrivate le oblique considerazioni e le minacciose previsioni di M. Naím, ex-direttore di “Foreign Affairs”:
“la ricchezza non è l’unica a crescere in Asia. Si intensificano anche i venti di guerra. […] L’Asia è in testa alla lista delle regioni importatrici di armi: tra 2002 e 2009 sei dei dieci principali compratori di armi furono paesi asiatici (Cina, India, Taiwan, Corea del Sud, Pakistan e Singapore). E poi c’è la Cina. La sua spesa militare cresce ogni anno del 10%. Può contare sulla seconda marina militare al mondo e una forza aerea che si prevede sarà una delle più potenti entro il 2020. Un rapporto Usa garantisce che ‘la Cina può contare sulla forza missilistica a corta gittata – tra 300 e 600 km. – più nutrita e letale del mondo’. Solo di fronte a Taiwan sono installati più di mille di questi missili. Quelli a più lunga gittata possono neutralizzare tutte le basi Usa in Giappone e Corea, e pare che la Cina disponga di armi capaci di affondare le portaerei americane.
“La storia mostra che quando un paese (leggasi Cina) aumenta in maniera notevole la forza militare, sia i suoi vicini (l’India), sia i rivali più lontani (gli Stati Uniti) non restano a guardare. Faranno il possibile per bilanciare l’equilibrio militare. Nei prossimi anni questa dinamica avrà su di noi un effetto tanto se non più rilevante di quello esercitato da guerre valutarie, deficit fiscali o crisi finanziarie.”
Non si contano più solo dollari e yuan; si contano missili.
Segue articolo intitolato "La vera alternativa"
Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
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