Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
Immigrati: la "sanatoria" del governo, l’ "occhio di riguardo" verso le immigrate addette al lavoro di cura, le iniziative di lotta dei lavoratori immigrati in Italia.
Un flop o un successo del governo?
Nel settembre 2009 il governo Berlusconi, dopo il varo del pacchetto sicurezza, ha aperto una nuova “sanatoria” per il solo settore del lavoro domestico e di cura, con misure ultra-restrittive che hanno escluso dalla regolarizzazione la gran parte degli 850.000 immigrati senza permesso presenti in Italia e che a un anno di distanza hanno portato all’approvazione di solamente metà delle 300.000 domande presentate.
Anche se in molti l’hanno definita una “sanatoria flop”, una “sanatoria truffa”, una “sanatoria vergogna”, in realtà è stata, per il governo, un successo contro i lavoratori immigrati e contro l’intera classe lavoratrice. Berlusconi e soci, infatti, hanno imposto quanto non erano riusciti a fare nel 2002, quando le proteste di piazza del movimento dei lavoratori immigrati e di una piccola parte dei proletari italiani avevano ottenuto una regolarizzazione generalizzata a tutti i settori di lavoro. Un successo anche perché il governo Berlusconi ha utilizzato la regolarizzazione come mezzo per propagandare e socializzare tra i lavoratori italiani e dentro lo stesso mondo dell’immigrazione una triplice contrapposizione: quella ormai classica, ma sempre attuale, tra immigrati regolari e “clandestini”; quella tra clandestini buoni, bravi e utili, e perciò da regolarizzare (le donne) e clandestini da bastonare e ricacciare a mare (gli uomini); infine quella tra le immigrate bianche e cristiane provenienti dall’Europa dell’Est e dall’America Latina –ritenute così brave a far da serve... pardon, da poter accudire i nostri nonni o i nostri genitori– e le immigrate provenienti dall’Africa e dai paesi a religione musulmana di cui sarebbe bene, invece, diffidare.
Allo stesso tempo questa operazione è stata presentata non come una sanatoria parziale ma, parole del ministro Maroni, come un “provvedimento di emersione del lavoro nero”, “una regolarizzazione contributiva”, insomma come un (ipocrita) riconoscimento da parte dello stato italiano del merito e dei diritti di queste lavoratrici. Certo, per le lavoratrici regolarizzate l’ottenimento del permesso costituisce una tappa fondamentale per la propria stabilizzazione e, magari, per ricongiungere a sé i propri familiari. Sicuramente per una parte di esse la regolarizzazione contrattuale ha significato un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, forse anche un maggiore salario o l’ottenimento di una giornata e mezza di riposo alla settimana... Ma è anche vero che questo settore si distingue per aver anticipato nell’ambito del lavoro sommerso, e per aver in seguito istituzionalizzato a livello contrattuale, delle condizioni di lavoro peggiori rispetto a tutti gli altri settori in tema di orari e di paghe. Il contratto collettivo nazionale, siglato anche dalla CGIL, prevede infatti per le lavoratrici conviventi fino a 54 ore di lavoro settimanali e un salario di 572,71 euro lordi mensili per il livello di inquadramento più basso, finendo per istituzionalizzare la discriminazione sessuale e razziale su base contrattuale dato che in questo settore l’occupazione è quasi totalmente femminile e immigrata.
Quanto è pesante il lavoro di cura!
Al di là di quanto definito dal contratto, in questo settore vi è una notevole varietà di condizioni di lavoro, che diventano di gran lunga più pesanti per chi è costretto alla convivenza rispetto a chi lavora ad ore, così come il lavoro si fa più “totalizzante” per chi si occupa della cura di una persona, soprattutto se anziana o malata. Infatti il lavoro di cura comporta, rispetto al lavoro domestico, uno sforzo sia fisico che psichico maggiori. Implica condizioni di particolare pesantezza, come la convivenza 24 ore su 24 con l’assistito e il contatto continuo con la sofferenza e la non autosufficienza. Implica, soprattutto in caso di convivenza presso la famiglia in cui si lavora, che la segregazione occupazionale si trasformi in una sorta di clausura, imposta direttamente attraverso il divieto o la limitazione di uscire, oppure indirettamente con una saturazione del tempo di lavoro e un’estensione della giornata lavorativa che di fatto impediscono di avere momenti di socialità al di fuori dell’ambito di lavoro. Ancora, implica che “si sia una di casa”, “una di famiglia” quando si tratta di accettare di passare qualche ora in più nella famiglia, di andare incontro all’altrui dipendenza, ma si torni ad essere una dipendente, “una a cui si dà lavoro”, “una che, diventata pretenziosa, non sa più stare al suo posto”, quando ci si permette a parole o nei fatti di reclamare i propri diritti o condizioni migliori.
Le condizioni di vita/lavoro a cui sono costrette queste donne presso le famiglie che assistono sono a volte così dure da segnarne profondamente non solo la salute fisica ma anche quella psichica. Non è un caso che in Ucraina, in Romania e nelle Filippine, ma anche tra i membri della comunità medica internazionale, si parli sempre più apertamente dell’alto numero di donne che, di ritorno dall’Italia, hanno dovuto essere ricoverate in istituti psichiatrici. “Sindrome italiana”: così sono stati significativamente definiti gli stati di profonda depressione e il complesso di malattie mentali invalidanti, con sensazioni di persecuzioni, di maltrattamenti e ossessioni, facilmente ricollegabili all’esperienza di lavoro fatta in Italia.
Vi è però anche un’altra declinazione della “sindrome italiana”. Alla segregazione si aggiunge, nella maggior parte dei casi, la lontananza forzata dai propri familiari, che spesso, anche a causa della difficoltà di ottenere un permesso di soggiorno, si protrae per anni e anni. Molto spesso queste donne si lasciano alle spalle famiglie con figli adolescenti, che vengono cresciuti da nonni o zii, oppure con genitori anziani affidati a loro volta a “badanti”, o ancora con mariti disoccupati, non di rado alcolizzati, per i quali non c’è più posto nel nuovo mercato del lavoro. Cosicché, come spiega Tatiana Nogailic dell’Associazione donne moldave in Italia, “in Moldova non c’è più la cerniera tra le generazioni, nel paese sono rimasti solo vecchi, bambini e giovanissimi. Così i minori forzatamente abbandonati sviluppano una forma depressiva acuta. Anche questa, per i giornali di Chisinau, è ‘sindrome Italia’. Rende i bambini ansiosi, apatici, spesso aggressivi perché senza più punti di riferimento”. In questo modo il “trasferimento” delle capacità di cura delle donne emigrate in Occidente, combinandosi con le politiche liberiste e la destrutturazione dello stato sociale nei paesi di origine, comporta non solo la devastazione delle famiglie di queste lavoratrici, ma anche lo sfaldamento del più ampio tessuto sociale.
Un supporto della vecchia divisione sessuale del lavoro
Dunque, questo “saccheggio” neocoloniale delle capacità di accudimento delle donne immigrate fa sì che, nell’intero Occidente e non solo in Italia, il lavoro di cura ed il lavoro domestico ricadano comunque sulle donne. I processi di divisione internazionale del lavoro da un lato hanno redistribuito su scala globale il lavoro domestico e di cura tra una parte delle lavoratrici occidentali e le lavoratrici immigrate dei paesi del Sud del mondo e dell’Est dell’Europa. Dall’altro si sono basati su una vera e propria segregazione di genere che, nell’Occidente paladino della liberazione femminile, ha lasciato del tutto inalterata quella divisione sessuale del lavoro che vorrebbe le donne naturalmente preposte alla cura della casa e della famiglia e che costituisce, con la divisione in classi e lo sfruttamento dei popoli colonizzati, uno dei pilastri storici della riproduzione sociale del sistema capitalistico. L’ha lasciata inalterata, anzi l’ha approfondita attraverso l’effetto amplificatore dell’oppressione di classe e di razza che viene ad instaurarsi nel rapporto di lavoro tra le donne immigrate e le famiglie che le impiegano.
Infatti la crescente femminilizzazione del mercato del lavoro, innescata dal ciclo di sviluppo postbellico e aumentata enormemente nell’ultimo trentennio, pur avendo segnato un progresso innegabile, non ha affatto significato l’emancipazione dal lavoro domestico e di cura attraverso una sua ripartizione più equa in ambito familiare e la sua socializzazione attraverso i sistemi di welfare. Il lavoro domestico e di cura ha invece continuato a gravare sulle spalle e sul tempo di vita della stragrande maggioranza delle donne, condannandole a un doppio sfruttamento –nell'ambito del lavoro salariato e fra le mura domestiche. Al contempo una parte delle donne e delle famiglie occidentali, come abbiamo visto, ha potuto liberarsi parzialmente di questo doppio sfruttamento usufruendo di una forza lavoro a bassissimo costo, gettata sul mercato internazionale del lavoro dalla distruzione e dall’azione di rapina e di neocolonizzazione perpetrata dall’Occidente nell’Est Europa e nel Sud del mondo.
Tutto questo si è combinato al tendenziale invecchiamento della popolazione, avvenuto nell’ultimo mezzo secolo nell’intero Occidente, dovuto alla diminuzione dei tassi di natalità e all’allungamento medio delle aspettative di vita. Anche da questo è derivata la crescita della domanda dell’attività di cura e di assistenza a cui il sistema capitalistico non può e non vuole rispondere con le uniche misure in grado di rendere piena l’esistenza degli individui anche quando non sono più giovanissimi –misure che sono appunto la socializzazione dell’economia domestica e delle attività richieste dalla riproduzione della specie, la riduzione dell’orario di lavoro, la finalizzazione della produzione sociale al valore d’uso e non al valore di scambio. Anche in questo caso, quindi, uno degli aspetti progressivi del sistema capitalistico si è trasformato nel suo opposto: l’invecchiamento e l’uscita dal mondo del lavoro, invece di permettere una riappropriazione del proprio tempo di vita, comportano l’isolamento e la ghettizzazione delle persone anziane.
Infine, nello stesso Occidente l’attacco neoliberista allo stato sociale da un lato ha portato alla destrutturazione e all’affossamento di quanto ottenuto dalle lotte del movimento dei lavoratori e di quello femminista nella socializzazione del lavoro domestico e di cura, colpendo anche quel poco di assistenza pubblica alla popolazione anziana e non autosufficiente ancora esistente. Dall’altro è stata incentivata, anche attraverso misure specifiche messe in campo dagli Stati come rimborsi e assegni sociali, una soluzione privatistica e “familiare” della crescente richiesta di servizi di cura che ha portato ad organizzare una sorta di sistema di assistenza “domiciliare”, il cui fondamento è l’ampia offerta di forza lavoro femminile immigrata a basso costo disponibile nel mercato del lavoro internazionale.
Questo welfare fatto in casa è una soluzione che sul breve periodo sembra avere una certa efficienza dal punto di vista capitalistico. Non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista politico e ideologico, grazie alla funzione di regolazione della conflittualità all’interno delle famiglie e in seno alla società svolta dalla stratificazione e dalla gerarchizzazione che questa soluzione stabilisce tra le fila proletarie, tra il sesso maschile e quello femminile, tra la donna occidentale e quella immigrata, tra il proletariato occidentale e quello dell’Europa dell’Est e del Sud del mondo.
Forme di resistenza
Non è tuttavia una soluzione definitiva. A rimetterla in discussione sono per ora in massima parte le stesse donne immigrate che lavorano al servizio delle nostre famiglie. La rimettono in discussione innanzitutto con la loro stessa emigrazione, vissuta come ricerca di una possibilità per sé e per le proprie famiglie di ricostruirsi una vita dignitosa lì e sempre più spesso qui, in Occidente, e di sfuggire così al destino di impoverimento e subordinazione che la nuova divisione mondiale del lavoro sta riservando ai loro paesi. La rimettono in discussione attraverso la ricerca di ritagli di tempo libero da dedicare a se stesse e a mantenere il contatto con il mondo esterno, scrivendo e telefonando ai propri cari rimasti nel paese di origine e incontrandosi con altre donne anch’esse immigrate, anch’esse impegnate a curare ed assistere. La rimettono in discussione attraverso i tentativi di ottenere il permesso di soggiorno per ricongiungere la propria famiglia, per cambiare lavoro o, almeno, per trovare un impiego a ore. La rimettono in discussione attraverso forme di auto-attività che spaziano dalla frequentazione di chiese, all’auto-tutela attraverso i sindacati, alla vera e propria auto-organizzazione in associazioni attraverso cui rivendicano, accanto alla dignità della propria cultura, la regolarizzazione e il riconoscimento dei propri diritti di lavoratrici.
Ancora: questa soluzione è rimessa in discussione anche dalla vicinanza e dalla socializzazione che viene a crearsi tra queste lavoratrici immigrate e le famiglie da loro assistite quando, nonostante la relazione di oppressione e subordinazione insita nel rapporto lavoro, avviene un riconoscimento –anche soltanto episodico, embrionale e parziale– del valore umano del lavoro da esse svolto. Un riconoscimento che, benché fatto in privato, concorre ad arginare in qualche misura la criminalizzazione pubblica e l’inferiorizzazione degli immigrati: anche nella nostra società mercificata la contraddizione tra “essere merce” ed “essere sociale” è insopprimibile e la socialità, sebbene mediata dal denaro, non può essere completamente assorbita dal denaro.
È appunto dalla resistenza che in varie forme stanno mettendo in campo le stesse lavoratrici immigrate che occorre partire per saldare in un’unica lotta l’attivizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati per migliori condizioni di lavoro e per l’abolizione delle legislazioni anti-immigrati, la mobilitazione del proletariato tutto per la difesa e l’ampliamento delle politiche di welfare, e la lotta unitaria delle donne per la presa in carico del lavoro riproduttivo da parte di tutta la società e rispondere così all’attacco del capitale, senza lasciare alcuna possibilità di scavare nuove e vecchie divisioni fra le nostre fila.
Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA