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Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

“Il Pakistan, sulla traiettoria di volo degli Stati Uniti”

 Le potenze capitalistiche occidentali seguono con apprensione quello che sta accadendo in Pakistan. Dal loro punto di vista, hanno ragione. Per motivi opposti, anche i lavoratori d’Occidente avrebbero interesse a seguire da vicino le vicende pakistane. Purtroppo, non è così.

Ciò che accade in Pakistan e nell’Asia meridionale non entra nel radar politico, piuttosto raggrinzito, dei lavoratori di “casa nostra”. Quando vi entra, rafforza l’idea diffusa tra la gente comune che si tratti di un paese “arretrato” e, in più, pericoloso, per il rischio che le bombe nucleari in possesso delle forze armate del Pakistan finiscano nelle mani dei “gruppi islamici radicali”. Non pochi lavoratori, poi, in coerenza con questo sentimento, arrivano a giustificare le incursioni della Nato nel nord del paese, “utili” a “debellare” il “terrorismo” che vi si sarebbe stabilito e che, da lì, minaccerebbe di frantumare la pace e la sicurezza a “casa nostra”, in Europa e negli Usa.

Contro questa indifferenza e questi luoghi comuni segnaliamo un libro dello scrittore pakistano Tariq Ali, “Il duello. Il Pakistan sulla traiettoria di volo del potere americano” (editore Baldini Castoldi Dalai, Luogo, anno e prezzo). I pregi del testo ne fanno una vivace introduzione alla storia sociale e politica del Pakistan.

 L’indipendenza dell’India: regalo della magnanima Gran Bretagna?

 Il primo pregio del libro è quello di sollecitare lo studio della storia per la comprensione dei drammi sociali del presente e per l’impostazione della lotta contro di essi. Relativamente al Pakistan, l’autore ritorna, in particolare, su due momenti cruciali della storia del paese: la conquista dell’indipendenza nel 1947 e lo scontro politico della fine degli anni sessanta.

In Occidente, si pensa comunemente sia stata la “generosa” e “civile” Gran Bretagna, che alla fine della seconda guerra mondiale comprendeva l’intero subcontinente indiano entro il suo impero coloniale, ad aver concesso l’indipendenza al Pakistan e all’India. Oltre a ciò, comunemente si ritiene sia stato il fanatismo religioso degli abitanti dell’Asia meridionale ad aver acceso nel 1946 la guerra civile tra i musulmani e gli induisti, ad aver condotto alla frantumazione dell’area in due stati, l’India e il Pakistan, e ad aver, così, condannato i due paesi alla miseria.

I fatti riportati nel libro raccontano, innanzitutto, che che la Gran Bretagna fu costretta a mollare la preda coloniale, che altrimenti non avrebbe lasciato, sotto la spinta di un poderoso moto antimperialista. Tariq Ali concentra la sua attenzione sulle lotte del biennio 1946-1947, sul sentimento di fratellanza e di unità esistente, nella lotta, fra i lavoratori e i diseredati, al di là della religione, contro l’imperialismo britannico.

Ci permettiamo di aggiungere che il moto anti-coloniale in Asia meridionale era iniziato vari decenni prima e aveva già conosciuto tre picchi, senza contare le avvisaglie del XIX secolo, nel 1905-1907, nel 1918-1922 e nel 1930-1931. Ogni volta le lotte contro la potenza coloniale erano state represse spietatamente. [In nota. Nel 1930, persino con l’aviazione: furono sperimentati i primi bombardamenti umanitari e intelligenti, con un bilancio di almeno 90mila morti.] Nel 1946 Londra cercò di ripetere l’impresa, ma non vi riuscì. Ripiegò, come vedremo, sul disegno, già avviato nel XIX secolo, di continuare a dominare l’Asia meridionale, a saccheggiarne le risorse naturali e la forza lavoro, con la vecchia tecnica del “divide et impera”.

 Il protagonista dello sviluppo storico: lo scontro tra le classi sociali.

 Un secondo pregio del libro è quello di mostrare quali furono i protagonisti di questo scontro e quanto sia deviante l’idea che spiega gli eventi dell’Asia meridionale attraverso la molla della religione.

Nel testo vediamo in campo, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, gli operai delle acciaierie, i ferrovieri, i portuali, le lavoratrici tessili, i braccianti delle piantagioni di tè, i contadini poveri, i marinai indiani della flotta britannica imperiale. Vediamo che ad averli fatti scendere in sciopero e nelle strade, spalla a spalla induisti e musulmani, fu la volontà di ottenere l’indipendenza politica, fu il sogno di poter conquistare, con l’indipendenza, il diritto all’organizzazione sindacale, la regolamentazione degli orari di lavoro, il miglioramento dei salari, l’istruzione e la sanità per tutti, ecc. Erano “fanatici”? Certo, erano determinati ad ottenere, anche a prezzo di enormi sacrifici, questi risultati. Erano determinati a liberarsi dall’inferno in cui li teneva prigionieri l’imperialismo britannico. L’imperialismo britannico doveva e deve temere questo fanatismo. Doveva e deve organizzare una propaganda martellante per metterlo in cattivo luce. Ma i lavoratori occidentali?

Nel testo, insieme agli sfruttati, vediamo, inoltre, che scesero in campo anche gli industriali, i professionisti e i grandi mercanti indiani. Ci viene spiegato il loro sogno di conquistare l’indipendenza per strutturare un mercato nazionale e uno stato capaci di garantire lo sviluppo dei loro interessi capitalistici. Ci viene raccontato anche la loro preoccupazione di tenere a freno, nello stesso tempo, le rivendicazioni sociali dei loro compatrioti sfruttati, considerate contrastanti con i loro progetti di sviluppo del capitale nazionale. Il libro permette, quindi, di comprendere il comportamento dei dirigenti del moto anti-coloniale come Gandhi, il senso della predicazione della “non-violenza”, il loro timore di portare avanti la lotta contro la potenza coloniale con i metodi radicali dello sciopero di massa, delle manifestazioni di strada e delle azioni armate per la paura, del tutto fondata, che simili mezzi di lotta avrebbero dato forza al protagonismo e alle istanze sociali delle masse lavoratrici.

Nel testo vediamo, inoltre, come si comportarono i grandi proprietari terrieri autoctoni, i loro legami con le imprese e l’impero britannici, la loro volontà di opporsi ad ogni cambiamento e, nello stesso tempo, la consapevolezza di dover accettare qualche cambiamento per far sì che, gattopardescamente, fossero riconfermati i loro privilegi di classe.

E accanto agli operai e ai contadini poveri, accanto ai borghesi indigeni, accanto ai latifondisti, Tariq Ali fa vedere come agì l’impero britannico. Che non si limitò alla repressione. Ma condusse a termine la manovra iniziata sin dall’ottocento, con la quale, facendo leva sulle divisioni territoriali che l’Asia meridionale ereditava dal suo passato pre-coloniale, mirò a evitare la nascita di uno stato indipendente unico dall’Afghanistan al Bengala, come sarebbe stato nell’interesse dei lavoratori autoctoni e come stava accadendo in quegli stessi anni nella vicina Cina maoista. Dal crollo dell’impero britannico in Asia meridionale nacquero, invece, più stati, il Pakistan (composto dal Pakistan orientale, l’attuale Bangladesh, e il Pakistan occidentale) e l’India furono i principali. Nacquero stati azzoppati nelle loro potenzialità di sviluppo economico. Nacquero stati che, con i loro confini e le loro contrapposizioni, separarono le masse lavoratrici dell’Asia meridionale entro gabbie religiose.

Il testo dimostra come storicamente non ci fosse motivo per la “partizione”. Non c’erano un islam e  un induismo  monolitici, diversità culturali o religiose, tali da giustificare una separazione statale. Perché, però, si produsse?

 All’origine della divisione dell’India

 Il terzo pregio del libro di Tariq Ali sta nel fatto che esso invita a riflettere su questo punto cruciale sbarazzandosi dei luoghi comuni sull’atavismo religioso dei popoli indiani. Si racconta delle grandi manovre britanniche, iniziate nell’ottocento e poi accelerate dal 1906, subito dopo la prima rivoluzione russa, con un progetto per la divisione della popolazione del Bengala secondo linee religiose e con l’incoraggiamento di Londra alla nascita della Lega Musulmana in contrapposizione al partito pan-indiano del Congresso. Si racconta quanto fu facile, una volta oliate e scientificamente strutturate le divisioni e le gerarchie, con una oculata regia (come è avvenuto in Jugoslavia alla fine del XX secolo) fatta di attentati, bombe e cecchini, scatenare la guerra fra sfruttati, i massacri e i pogrom di mussulmani da una parte e di indù dall’altra. Non è inutile ricordare che, parallelamente, dietro la stessa regia inglese (e statunitense), una catena di eventi simili si produceva in Medioriente, con la nascita artificiale di Israele in vista dell’obiettivo di impedire che l’incipiente risorgimento arabo portasse alla formazione di uno stato unitario dal Nilo all’Eufrate.

Giustamente, Tariq Ali sottolinea che la responsabilità della divisione dell’India non fu solo di Londra e che entrarono in gioco anche le manovre dei partiti politici locali. Rimangono un po’ sullo sfondo, tuttavia, gli interessi sociali che le ispirarono. Innanzitutto, quelli dei grandi proprietari terrieri, che videro nella “partizione” la via per indebolire la forza dei contadini e per impedire una radicale riforma agraria, simile a quella che il movimento anti-coloniale stava compiendo in Cina sotto la direzione di Mao. Ma a dettare il comportamento compromissorio con la potenza coloniale delle direzioni del moto anti-coloniale furono anche gli interessi dei borghesi dell’Asia meridionale, rappresentati soprattutto dalla direzione del partito del Congresso e, in particolare, da Gandhi.

In astratto la giovane borghesia autoctona aveva bisogno di conquistare un proprio mercato nazionale, come l’avevano conquistato, prima di essa, quelle italiana, tedesca, inglese, francese. Aveva interesse alla massima estensione di questo mercato, per allargare la base dell’accumulazione capitalistica indigena, per connettere i centri industriali già impiantati in alcune città con l’ampio retroterra agricolo, per centralizzare il vitale controllo delle acque in vista della modernizzazione dell’agricoltura, per essere meno debole nel rintuzzare gli inevitabili ricatti della ex-potenza coloniale e dell’imperialismo, quello Usa, che l’aveva sostituita alla guida del sistema capitalistico mondiale.

Tuttavia, nello scontro con la potenza coloniale, la borghesia indiana si comportò, però, debolmente, accettò mille compromessi, ebbe paura del dispiegamento dell’unica forza in grado di stroncare la politica balcanizzatrice di Londra e delle classi agrarie, e cioè la lotta di massa e radicale degli sfruttati. Finì per accettare la divisione del subcontinente in vari territori, dai confini religiosi e culturali inesistenti ma utili a mettere l’uno contro l’altro i lavoratori delle diverse religiosi e regioni, ad imprigionarli in muri statali.

Gli operai e i contadini poveri del continente indiano non riuscirono a spezzare questa doppia morsa. Per svariate ragioni. Entrò in gioco la loro debolezza strutturale, la loro dispersione entro una vasta area continentale. Pesarono le divisioni regionali e religiose nate dopo la conquista islamica del continente indiano, che l’impero britannico oliò con scientifica precisione ma non creò dal nulla. Pesò, soprattutto, l’isolamento dai lavoratori occidentali. Qui il racconto di Tariq Ali è, purtroppo, gravemente monco.

 Due silenzi

 I lavoratori occidentali sarebbero stati interessati a sostenere il moto anti-coloniale indiano. Rimasero, invece, indifferenti oppure appoggiarono le manovre del governo di Londra, nella convinzione, più o meno esplicitata, che il mantenimento del supersfruttamento dei popoli asiatici, anche se non più realizzata attraverso il dominio diretto bensì attraverso quello indiretto finanziario e termonucleare, favorisse il miglioramento delle loro stesse condizioni. Fu significativa, a questo proposito, l’azione del Labour Party e delle Trades Unions inglesi, che intervennero in più occasioni per far accettare la “partizione” all’ala radicale del partito del Congresso e alle organizzazioni sindacali indiane.

Nell’esito della lotta anti-coloniale in India pesò, infine, come riflesso di questa generale situazione, l’assenza nel movimento anti-coloniale di un partito che vi partecipasse con l’unica prospettiva in grado di rendere coerente la lotta antimperialista e rendere possibile la nascita di uno stato unitario: quella che l’Internazionale Comunista di Lenin aveva affermato al congresso di Mosca del 1920 e al congresso dei popoli dell’Oriente di Baku di qualche settimana dopo. Tariq Ali mantiene, purtroppo, il silenzio anche su questa prospettiva e sul fatto che, all’indomani della prima guerra mondiale, in India, nel terremoto sociale e politico che sconvolgeva l’ordine capitalistico in Europa e in Asia, era nato un raggruppamento comunista internazionalista intenzionato a basare la lotta anti-coloniale sull’alleanza non con i borghesi nazionali à la Gandhi ma con i lavoratori occidentali. Esso denunciava come il sottosviluppo indiano fosse il frutto dell’iper-sviluppo europeo e, in conseguenza di ciò, sosteneva che l’uscita dal sottosviluppo non potesse realizzarsi con l’impossibile inserimento, come stato indipendente, nell’ordine capitalistico mondiale, ma richiedesse lo scardinamento di questo stesso ordine.

Per questo concorso di cause, alla fine del 1947 sembrò credibile alle masse lavoratrici dell’Asia meridionali, come male minore, che la loro sorte futura potesse essere tutelata in stati separati e religiosamente caratterizzati.

 La nuova prova del 1968-1969

 Le masse lavoratrici del Pakistan e dell’India non riuscirono a intaccare la morsa a tenaglia dell’imperialismo e delle classi sfruttatrici indigene neanche nel secondo momento della storia del Pakistan su cui Tariq Ali accende i suoi riflettori, quello del biennio 1968-1969 e della successiva guerra tra l’India e il Pakistan che portò, nel 1971, alla frantumazione del Pakistan in due stati, quelli attualmente chiamati Pakistan e Bangladesh. Di nuovo, il libro fornisce gli elementi per riflettere su ciò che, realmente, è il motore degli avvenimenti politici e militari.

Nel ventennio successivo all’indipendenza, il Pakistan, diventato uno dei pilastri della controffensiva Usa contro il moto anticoloniale in Medioriente, aveva avviato, sotto la direzione delle forze armate, l’unica forza strutturata dello stato nato nel 1947, lo sviluppo di alcune attività industriali. Era, nel contempo, rimasta al palo la riforma agraria. Ciò aveva acuito la polarizzazione sociale. Soprattutto nella zona economicamente più avanzata del Pakistan orientale. Questa situazione, sotto l’influsso della lotta anti-imperialista in corso nel vicino Vietnam, portò alla rinascita della lotta dei lavoratori e dei contadini poveri del Pakistan.

Le pagine in cui Tariq Ali descrive quelle giornate sono davvero belle. E raccontano delle spinte all’unificazione delle lotte degli sfruttati del Pakistan con quelle degli sfruttati dell’India orientale, accomunate da una storia e da una condizione strutturale simile. Ci informano della presenza di una tendenza politica che intendeva costituire a cavallo del confine tra i due paesi un Bengala democratico-radicale come primo passo per un sovvertimento totale dell’ordine dominante nell’intero subcontinente indiano.

L’imperialismo Usa, la borghesia indiana, le forze armate pakistane temettero che questa mobilitazione potesse allargarsi al resto dell’area e congiungersi con quella vietnamita. L’India intervenne militarmente in Pakistan orientale e in accordo con la “comunità internazionale” eresse un altro muro statale artificiale tra le masse lavoratrici del Bengala orientale e quelle del Bengala occidentale. Ancora una volta, stretti in una morsa, gli sfruttati del Pakistan orientale videro il male minore nella separazione dallo stato di Islamabad che le aveva su più piani vessate. Nacque così il Bangladesh, a completare l’opera di frantumazione dell’area iniziata nel 1893 dall’impero britannico con l’imposizione della “Linea Durand” per separare i popoli dell’India dalle genti dell’Afghanistan.

L’ordine imperialista in Asia meridionale fu rinsaldato. Gli Usa esultarono: quando, di lì a poco, avrebbero dovuto subire, a cascata, la cacciata dal Vietnam (1975), la rivoluzione nazionale borghese in Afghanistan (1978), il crollo della dittatura dello scià in Iran (1979), essi avrebbero trovato nel Pakistan una delle basi da cui lanciare la controffensiva, che ancora oggi dura con l’occupazione neo-coloniale dell’Afghanistan, contro i popoli e gli sfruttati dell’area.

Arriviamo, così, ad un altro pregio del libro di Tariq Ali: la chiarificazione del cruciale ruolo geo-strategico ricoperto dal Pakistan nello scontro mondiale che si profila all’orizzonte tra gli Usa, l’Ue e la Cina.

 Perché l’imperialismo è così interessato al Pakistan?

 La posizione geografica fa del Pakistan (insieme all’Afghanistan) un paese cruciale per il controllo dell’Asia, per la gestione delle comunicazioni tra l’Asia e l’Africa, per il controllo (nella zona contesa con l’India del Kashmir) delle sorgenti dei principali fiumi dell’Asia sud-orientale. Subito dopo la nascita del Pakistan gli Usa riuscirono ad attrarlo nella propria orbita siglando una stretta alleanza con le forze armate del paese e impegnandosi nello sviluppo di queste ultime. Negli anni sessanta, insieme all’Iran dello scià e ad Israele, il Pakistan divenne uno dei pilastri del sistema militare di controllo dell’area degli Usa. L’importanza del Pakistan aumentò nella seconda metà degli anni settanta. Proprio in quegli anni, però, anche il Pakistan aveva conosciuto il risveglio della lotta di classe. Per continuare a svolgere il suo ruolo di mastino imperialista nell’area, il Pakistan doveva essere pacificato: dovevano essere spazzati via i sindacati e le formazioni di sinistra che, pur battute nello slancio del 1968-1969, era riuscite a mantenere l’agibilità politica. Da Washington venne, così, pilotato il golpe militare diretto da Zia-ul-Haq, un generale di brigata mandato alla fine del 1968 “in Giordania per aiutare ad addestrare l’esercito locale all’arte di soffocare le rivolte popolari” (pag 125).

Zia impose in Pakistan una dittatura feroce e l’islamizzazione delle istituzioni. Il paese divenne il retroterra della guerriglia reazionaria afghana foraggiata dai servizi segreti pakistani (ISI), ampiamente foraggiati e armati, a loro volta, da tutto l’Occidente e dagli Usa in primo luogo. Da allora, sono passati altri trent’anni, e, pur se la Nato ha occupato direttamente l’Afghanistan, il valore del Pakistan per i grandi poteri capitalistici dell’Occidente non è cambiato. È, però, diventata meno sicura, ecco la novità, la presa degli Usa e dell’Occidente sul paese.

Pur se la struttura economica del Pakistan è rimasta piuttosto arretrata rispetto a quella degli altri paesi dell’Asia sud-orientale (sono i regali che l’Occidente riserva ai suoi cagnolini), anche le masse lavoratrici e diseredate del Pakistan sono state attratte nel vortice del mercato mondiale. Si è aggravata la crisi dell’agricoltura tradizionale, con l’immiserimento di decine di milioni di contadini e il loro esodo verso le città. Anche il Pakistan è diventato una fonte di manodopera ultra-ricattata per il capitale mondializzato, sia quando essa è super-sfruttata in loco dalle multinazionali attraverso una lunga catena di appalti e sub-appalti, soprattutto nel settore tessile, sia quando gli sfruttati pakistani emigrano nei paesi del Golfo oppure in Europa e negli Usa. In questa situazione, i sentimenti delle masse lavoratrici verso l’Occidente hanno cominciato a virare verso l’ostilità aperta. I bombardamenti statunitensi sulle regioni settentrionali del paese la stanno rinfocolando.

Non c’è stata, è vero, una vulcanica esplosione di lotte come accadde nei due periodi che ci racconta Tariq Ali, ma quello che bolle in pentola nell’immensa periferia di Karachi e nelle campagne pakistane così come tra gli immigrati pakistani nel Golfo Persico e in Occidente lo ha fatto vedere al mondo intero il bambino proletario sindacalista Iqbal Masih (v. “che fare” n. ?). Quello che bolle in pentola lo si comprende se si allarga lo sguardo all’intera Asia sud-orientale, se si riflette su ciò che questo continente è diventato in trent’anni e si tengono presenti le lotte proletarie cresciute negli ultimissimi anni.

 Quale futuro?

 Negli ultimi trent’anni, l’Asia sud-orientale è diventato uno dei baricentri del potenziale industriale mondiale. Negli ultimissimi anni, la sterminata massa di proletari che vi si è addensata è  entrata in effervescenza. I riflessi di questo mutato clima sociale giungono sino al Pakistan. Vi si rifrangono, ovviamente, con le debolezze generate dal prisma di uno sviluppo economico locale monco e deviato. Nondimeno, l’apatia e l’impotenza scontate per decenni cominciano ad incrinarsi anche tra i diseredati pakistani che vivono negli slums ai bordi della ricchezza borghese e che soffrono per la miseria, le conseguenze dell’alluvione, la repressione statale, i bombardamenti statunitensi in territorio  pakistano.

Non bastasse lo sviluppo di questo sentimento popolare verso l’Occidente, gli Usa e la Ue vedono che il governo e i capitalisti pakistani, in  modo simile a quanto stanno facendo quelli turchi e altri settori borghesi del mondo musulmano, cominciano ad avvertire il fascino e la convenienza delle allettanti proposte della Cina. Per Pechino il Pakistan rappresenta la via per giungere in Africa e in Medioriente senza passare per gli stretti della Sonda e della Malacca controllati dalle flotte nucleari statunitensi. Il progetto più significativo di collaborazione cinese-pakistana è quello del porto di Gadwar, con il quale la Cina ottiene il suo sbocco diretto sull’Oceano indiano.

Per ora questo scontento e questo movimento rivendicativo “pan-asiatici” a duplice matrice sociale sono incanalati dietro la bandiera dell’islamismo radicale o quella del nazionalismo cinese. Si tratta di due prospettive incapaci, come abbiamo motivato nei numeri precedenti del giornale, di guidare l’emancipazione degli sfruttati asiatici dalla morsa dell’imperialismo e del sottosviluppo. Per noi, la loro presa sugli sfruttati asiatici rappresenta, però, un sintomo della maturazione, nel sottosuolo dei processi sociali, delle condizioni per l’affermazione dell’unica prospettiva in grado di condurre una lotta coerente contro l’imperialismo e lo sfruttamento capitalistico che ne è alla base: quella che l’Internazionale Comunista di Lenin, raccogliendo i denti di drago seminati da Marx e da Engels anche sulla questione coloniale, fece rifulgere a Baku.

Una delle armi più potenti con cui l’imperialismo si prepara ad aggredire l’ascesa dell’Asia borghese e proletaria è la riproposizione a scala pan-asiatica delle divisioni coltivate e imposte dall’impero britannico nell’Asia meridionale, è quella di mettere “l’Asia contro l’Asia”, come spiega in un libro documentato l’ex-direttore dell’Economist B. Emmott. Torneremo a parlarne nei prossimi numeri, cercando di allargare lo sguardo all’intero sub-continente indiano, di ripercorrere la sua densa e antica storia, di analizzare la gigantesca operazione di balcanizzazione che sta mettendo in atto l’imperialismo e di vedere dove stanno, cosa fanno, cosa sognano i nostri fratelli di classe asiatici. Il futuro sarà loro e nostro, insieme, per il comunismo, o sarà barbarie. 

Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

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