Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
A cosa punta la politica di Fini verso gli immigrati?
Le divergenze che si sono sviluppate all’interno del centrodestra sul tema dell’immigrazione non sono un semplice gioco delle parti. Né possono essere ricondotte a giochi propagandistici con finalità più o meno elettorali.
Dietro quello che la stampa e le televisioni presentano come uno scontro quasi personalistico tra Fini e Berlusconi, si cela qualcosa di decisamente più profondo. A “confrontarsi” sono, in realtà, due diverse visioni di gestione del “sistema Italia”. Per entrambe la cosiddetta “politica immigratoria” costituisce un tassello di grande importanza.
Il presidente della Camera parte da alcuni dati di fatto. Gli immigrati in Italia sono quasi 5milioni e continuano ad aumentare. Il loro lavoro è fondamentale in tutti i settori: dall’industria all’edilizia, dall’agricoltura ai servizi. Più di un milione di immigrati è iscritto ai sindacati. Intanto cresce il numero degli immigrati di cosiddetta ”seconda generazione”, cioè dei bambini e dei giovani nati in Italia.
Dinnanzi a questa situazione, quello che il leader di Futuro e Libertà contesta al governo (di cui fino a ieri ha fatto pienamente parte) non è certo la mano pesante nei confronti dei cosiddetti “clandestini” né è la pratica dei “respingimenti” in mare. Il nocciolo della critica è un altro: l’incapacità e la non volontà da parte del centrodestra leghista e berlusconiano di farsi portatore di una politica che tenti di far sentire i lavoratori immigrati (o, almeno, una non irrilevante quota di essi) partecipi e coinvolti nel progetto di rilancio competitivo dell’imperialismo italiano.
Proviamo a spiegarci meglio. Da due decenni i lavoratori immigrati sono bersaglio del razzismo istituzionale. In questa azione, portata avanti anche dagli esecutivi di centrosinistra, i governi presieduti da Berlusconi si sono distinti “alla grande”. Leggi come la Bossi-Fini o come i vari “pacchetti sicurezza” hanno contribuito a rendere particolarmente precaria la condizione dell’immigrato, facendolo vivere sotto la minaccia del ritiro del permesso di soggiorno, dell’espulsione o dell’essere costretto o ricostretto alla “clandestinità”. Tutto ciò è stato funzionale per la competitività delle imprese nostrane, in quanto ha messo a loro disposizione abbondante massa di manodopera ultra-ricattabile, utilizzabile anche come arma di pressione al ribasso verso i lavoratori italiani. Per padroni e padroncini una vera e propria manna.
Il problema, sostiene Fini (e dietro di lui una parte della finanza e dell’imprenditoria nostrana), è che non ci si può limitare a pensare di andare avanti in eterno solo per questa strada. Una nazione che voglia mantenersi nei “posti alti” della gerarchia capitalistica internazionale non può basare le sue “fortune” esclusivamente sul basso costo della manodopera, né può “limitarsi” a considerare e, soprattutto, far sentire una sezione ormai cospicua del mondo del lavoro (quella appunto immigrata) come un corpo estraneo all’interno della società italiana. Tirare troppo la corda in tal senso, spiega Fini, potrebbe portare ad effetti controproducenti come quello, ad esempio, di spingere ampie fette della gioventù immigrata a comportamenti collettivamente “rivoltosi” e ribelli.
Il “rilancio del paese” richiede che si imbocchi una via più articolata. Per il presidente della Camera (e per un settore dei capitalisti italiani) è necessaria una riorganizzazione della vita sociale nel suo insieme che innalzi la produttività delle aziende e dell’intero “sistema nazione”. Per realizzare effettivamente questa riorganizzazione, che ha come bersaglio i lavoratori, italiani e immigrati, occorre suscitare la “partecipazione” attiva dei lavoratori. E in questo progetto, visti i numeri e la posizione produttiva, vanno coinvolti anche gli immigrati. Le “aperture” del leader di “Futuro e libertà” (come la proposta di concedere la cittadinanza ai figli di immigrati ”regolari” nati in Italia o la richiesta di piccole deroghe alla legge Bossi-Fini per chi ha perso il posto di lavoro a causa della crisi) sono ispirate ad una simile prospettiva.
Una prospettiva che, proprio per mantenere un ferreo sfruttamento sulla manodopera immigrata, mira a conquistarne non solo le braccia ma anche un po’ il cuore. Perché ciò sia possibile è necessario che l’immigrato non si senta più un mero ospite temporaneo (mal)sopportato solo fino a quando è buono ed utile per sgobbare, ma che inizi a sentirsi come un cittadino (ovvio: sempre di serie B, ma pur sempre un cittadino) e che in quanto tale senta le sue sorti più legate a quella della nazione “ospitante”. Un “legame” oggi finalizzato a indurre l’immigrato ad “accettare” supinamente e spontaneamente di piegarsi ancor di più alle esigenze ed ai voleri delle imprese. Domani, magari, a fargli “accettare” come cosa “naturale” di diventare carne da cannone contro altri lavoratori per difendere la “nuova patria” qualora la competizione internazionale dovesse passare dal piano commerciale a quello militare.
È abbastanza ovvio e “normale” che agli occhi della massa degli immigrati la politica patrocinata da Fini, che, detto per inciso, vede una sempre maggiore coincidenza con quelle del centrosinistra, possa apparire (e, sul piano degli effetti immediati e “a breve”, possa ipoteticamente anche essere) “migliorativa” rispetto a quella berlusconiana.
Non si tratta di negare ciò. Ma, proprio a partire da ciò, di chiamare i più attivi ed attenti tra i lavoratori immigrati a battersi (anche scontrandosi con il “senso comune”) contro questa prospettiva che, se accettata e fatta propria, diventerebbe, tra l’altro, un elemento di disarmo e di ulteriore difficoltà per la lotta e l’organizzazione dei lavoratori immigrati. Un elemento che, insomma, agirebbe contro i fondamentali fattori su cui basarsi per mettere in piedi una reale battaglia per la difesa ed il miglioramento della propria condizione.
Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA