Dal Che fare n.73 dicembre 2010 - gennaio 2011
Il caso Pomigliano e "dintorni"
Come fronteggiare la "filosofia" Marchione?
Il messaggio di Marchionne è netto: la sopravvivenza dell’azienda sul mercato mondiale richiede un pesante incrudimento dello sfruttamento del lavoro operaio. Marchionne sostiene che i lavoratori hanno interesse a sostenere questo programma. E ad attivizzarsi per la realizzazione di esso, come è successo negli stabilimenti Chrysler degli Usa. Il messaggio è rivolto ben oltre i confini della Fiat. È proprio vero che il piano di Marchionne non abbia alternative?
Circa trenta anni fa la Fiat di Giovanni Agnelli e Cesare Romiti mandava un segnale di decisa svolta a tutto il capitalismo italiano.
Nel 1979 vengono improvvisamente licenziati in tronco 61 delegati ed operai “selezionati” ad arte tra i più combattivi sindacalmente e politicamente. Passano pochi mesi e, nel 1980, l’azienda automobilistica fa pervenire 14mila lettere di licenziamento che, dopo una lunga vertenza persa dal movimento sindacale, vengono trasformate in 23mila cassintegrazioni.
L’obiettivo dichiarato è quello di riprendere saldamente in mano il controllo degli stabilimenti e ripristinare quel clima di “efficienza produttiva” minato dalle possenti mobilitazioni operaie del lungo “autunno caldo” italiano. Si tratta di dare un taglio ad un ciclo di lotte proletarie che, cominciato alla fine degli anni ’60 e protrattosi per una parte del decennio successivo, ha portato a grandi conquiste salariali e normative come quella, ad esempio, dello Statuto dei lavoratori. Un’ondata di lotte che ha fatto crescere grandemente il peso ed il potere di contrattazione della classe operaia in fabbrica e nella società e che, se così si può dire, ha reso “timidi” e titubanti gli industriali
L’uno-due della Fiat ha il sapore di una scarica elettrica, di una chiamata alla “riscossa” per l’intero padronato italiano. Una riscossa che, parallelamente, comincia a manifestarsi in tutto l’Occidente. Sono infatti gli anni di Reagan negli Stati Uniti e della Tatcher in Inghilterra. Gli anni in cui sulle due sponde dell’Atlantico inizia ad essere messe in seria discussione ed attaccata (pur con tutte le debite differenziazioni tra un paese ed un altro) la posizione che il mondo del lavoro salariato ha conquistato nei decenni precedenti. Comincia in Europa e in Nord America quel lungo periodo di erosione dei diritti e delle “garanzie” operaie che, pur essendo andato molto in avanti, non è ancora terminato.
Si passa all'incasso
E veniamo all’accordo separato di Pomigliano, imposto da Marchionne e firmato da Cisl e Uil, è cronaca di appena”ieri”. In questi mesi si è parlato in lungo e in largo dei pesanti effetti peggiorativi che tale intesa avrà sulla manodopera in termini di carichi e ritmi lavorativi, orari e diritti. In queste righe, quindi, evitiamo di tornarci sopra.
Vogliamo, invece, soffermarci sulla portata storica dell’affondo di Marchionne. A tal fine, ci può aiutare rilevare una differenza ed una similitudine con quanto successe all’inizio degli anni ’80. Diversamente da allora, la Fiat non sta facendo da apripista, non sta dando uno scrollone all’universo confindustriale sollecitandolo a ”cambiare registro” e a “darsi una mossa” per rimettere nell’angolo una (bontà loro) “troppo pretenziosa” classe operaia. Oggi Marchionne raccoglie i frutti del pesante lavoro ai fianchi che da decenni l’intero padronato ed i vari governi conducono contro il mondo del lavoro. Li raccoglie da par suo e li traduce (ecco la similitudine) in una iniziativa la cui valenza va ben oltre i “semplici” confini della Fiat.
Inoltre, nell’80 la direzione aziendale fece esplicitamente leva sull’attivizzazione del management intermedio (con la “famosa” marcia torinese dei 40mila quadri contro gli operai) per vincere la partita politica a Mirafiori. Adesso, invece, questo nuovo affondo è stato preceduto da un ampio sfoltimento di questo management. La Fiat oggi tende a presentarsi come un’azienda “piatta” che, in nome dell’efficienza, non chiede sacrifici ai soli operai, ma snellisce anche il proprio apparato burocratico (spesso e a ragione inviso ai lavoratori) senza andare troppo per il sottile.
L’obiettivo di "Fabbrica italia"
La forza del "ragionamento" di Marchionne si fonda certamente sul ricatto occupazionale ed è piena di falsità, ma allo stesso tempo si basa su un’analisi "realisticamente" spietata dell’attuale situazione economica internazionale. In sintesi Marchionne dice:
Per sopravvivere ed emergere nell’attuale competizione mondializzata, prosegue il manager che vive con “un piede a Torino e l’altro a Detroyt”, non basta disporre di operai che ubbidiscono come robot: ci vuole di più. Tutte le loro energie fisiche e mentali devono essere finalizzate a migliorare la produttività e la competitività dell’azienda. Il lavoratore deve sentirsi parte di essa ed “attivizzarsi” per ottimizzarne le prestazioni. I piani di ristrutturazione e riorganizzazione produttiva per funzionare al meglio hanno necessità di una manodopera orientata in tal senso.
Va, quindi, azzerata ogni capacità di resistenza collettiva dei lavoratori. Va estirpata l’idea stessa che essi possano, e che ad essi convenga organizzarsi come un qualcosa di non totalmente integrato con l’impresa. Da qui l’attacco alla Fiom (ed a qualsiasi organismo sindacale che non sia pienamente sdraiato sulle richieste e sulle esigenze padronali) con tanto di licenziamenti politici di delegati, di semplici iscritti o simpatizzanti.
Basta insomma con le rivendicazioni che non giovano alle aziende. Basta con ogni (pur piccolo e “residuale”) potere di interdizione delle strutture sindacali sull’organizzazione del lavoro in fabbrica. E basta con la “rigida” contrattazione nazionale di categoria. Spazio, invece, dove è possibile (cioè solo se e quando le condizioni del mercato lo consentono), a contratti di settore o aziendali in cui gli eventuali aumenti salariali siano rigidamente dipendenti dall’andamento dell’impresa e le condizioni di lavoro (orari, ritmi, pause…) vengano ritagliate a puntino sulle necessità produttive e di mercato delle singole aziende.
L’amministratore delegato Fiat non spara parole a vuoto quando afferma che solo i lavoratori delle imprese che primeggeranno nei mercati mondiali potranno vedere relativamente tutelate e, in alcuni casi, migliorate (?) le loro condizioni. Né le spara quando, contestualmente, si dice disposto (a parole e in futuro) ad erogare salari più alti in cambio di una maggiore “produttività” negli impianti italiani.
Il problema qui non è quello di valutare la veridicità di questa promessa (noi ne dubitiamo, e molto), ma di comprendere (per combatterlo) il messaggio che viene lanciato e che chiama i lavoratori a sentirsi un tuttuno con l’azienda ed a vedere nel suo successo (contro altre aziende ed altri lavoratori) la sola via per una propria sopravvivenza.
Come si è giunti a questo punto?
Senza nulla togliere a quanti hanno tentato in vari modi di contrastarlo, bisogna riconoscere che l’opposizione proletaria al piano Marchionne è stata sostanzialmente blanda e al di sotto delle necessità tanto alla Fiat, quanto nella società. Per comprendere il perché di ciò bisogna innanzitutto soffermarsi (lo facciamo negli altri articoli di queste pagine) sugli effetti, al momento inibenti e paralizzanti, che la mondializzazione della produzione industriale (e di quella automobilistica in primis) sta avendo sulla classe lavoratrice occidentale.
Su questo piano la casa automobilistica torinese-statunitense si è mossa da tempo con decisione (vedi scheda) e Marchionne non dice il falso quando afferma che: “Abbiamo in Italia sei stabilimenti e produciamo l'equivalente di quello che si realizza in una sola fabbrica in Brasile” (il Sole 24 Ore, 20/11/2009).
Stabilimenti come quelle di Tichy in Polonia o di Betim in Brasile, coniugano un costo della manodopera relativamente basso, ritmi lavorativi forsennati e un’alta produttività degli impianti. Tutto ciò non è solo fonte di profitti, ma diventa anche una potente arma di ricatto verso gli operai degli impianti italiani che da tempo non sono più il cuore strategico e produttivo dell’azienda. La radice fondamentale della debolezza con cui si è risposto a Marchionne è questa. Bisogna prenderne atto ed iniziare a fare i conti con questa situazione irreversibile.
Cosa si può fare di fronte ad una concorrenza planetaria così agguerrita e al parallelo e concreto pericolo che l’Italia continui a perdere per strada pezzi importanti del proprio patrimonio industriale? A prima vista potrebbe sembrare che l’unica realistica via per “salvare la pelle” sia quella prospettata dall’amministratore delegato “che non usa la giacca”. Schierarsi anima e corpo con la “propria” azienda, fare di tutto affinché questa acquisti competitività e posizioni nel mercato mondiale e sperare in tal modo di salvaguardare l’occupazione e, magari, ottenere anche qualche piccolo miglioramento salariale. In fin dei conti non ci vuole poi tanto a capire che è meglio accettare tagli ai propri diritti, turni sfibranti e ritmi massacranti piuttosto che vedere scomparire gli impianti industriali ed essere gettati nella disoccupazione. Insomma il classico “bere o affogare” presentato ai lavoratori di Pomigliano.
La Fiom e Marchionne
La Fiom è stato l’unico sindacato "di peso" a schierarsi contro questo ricatto. Prima con l’opposizione all’accordo separato di Pomigliano e con lo sforzo di promuovere mobilitazioni anche negli altri stabilimenti Fiat. Poi con la manifestazione nazionale del 16 ottobre a Roma e con la esplicita richiesta fatta alla Cgil di indire lo sciopero generale nazionale.
Non è dunque una casualità se la Fiom viene vissuta e percepita da una quota di lavoratori (non solo metalmeccanici) e giovani come un importante (l’ultimo?) baluardo contro lo strapotere confindustriale. In questo scontro col padronato (e col governo) la Fiom ha dovuto anche registrare un suo non lieve isolamento dal resto della Confederazione. Una buona parte della Cgil, infatti, ha ripetutamente fatto ben capire di non condividere la scelta operata a Pomigliano, mentre altre sue categorie (come ad esempio i chimici) hanno firmato rinnovi contrattuali e intese aziendali che in sostanza recepiscono i cardini dell’accordo separato sulla contrattazione stipulato a marzo del 2009 da governo, industriali, Cisl e Uil. Cardini che sono tra le basi dell’azione portata avanti dalla Fiat.
Inoltre la recente elezione della Camusso a segretario generale sta ad evidenziare come la Cgil stia spostando ulteriormente il suo baricentro verso una ricerca più serrata della ripresa del "dialogo" e dell’intesa con Cisl e Uil. Ricerca, questa, che non può che andare in direzione opposta a quella perorata dalla federazione metalmeccanica. Il tutto mentre nel corso della vertenza Fiat è emersa anche una sostanziale separatezza (se non proprio concorrenza) tra gli operai dei diversi stabilimenti e la non travolgente riuscita degli scioperi contro i licenziamenti politici di Melfi e Mirafiori. Difficoltà (come quella di un’attiva partecipazione dei giovani all’attività sindacale) tutte figlie dell’attuale stato di paralisi e frammentazione che vive l’intero mondo del lavoro.
Proprio per far fronte ad esse, il segretario generale della Fiom Landini ha recentemente proposto di unificare i tanti contratti nazionali di categoria in soli quattro o cinque grandi contratti. Ciò, secondo Landini, sarebbe più corrispondente all’odierna realtà produttiva e, soprattutto tenderebbe ad unificare (e quindi a rafforzare) i lavoratori.
L’idea non è certamente peregrina. Non lo è soprattutto dinnanzi al tentativo della Confindustria di azzerare la contrattazione nazionale. Ma una simile proposta, per potersi tradurre in realtà, deve necessariamente essere supportata da una grande stagione di lotta e mobilitazione. Il padronato infatti la potrebbe "accettare" solo se gli venisse imposta a viva forza. Inoltre tali ipotetici mega-contratti potrebbero mantenere intatta la loro valenza unificatrice e positiva solo se strappati con la lotta. Altrimenti diventerebbero sin da subito dei gusci fragili e vuoti al cui interno pullulerebbero come e più di adesso tantissimi e differenziatissimi regimi contrattuali.
I lavoratori ed i delegati più attenti ed attivi sono di fatto chiamati a riflettere su tutto ciò e, aggiungiamo, a cominciare a fare i conti con i limiti strutturali dell’impostazione politica e sindacale della Fiom per superarli in avanti.
Tutta l’iniziativa della Fiom ruota, infatti, intorno all’ipotesi che sia possibile imboccare una via capace di coniugare il "rilancio competitivo" con il rispetto dei diritti e delle condizioni dei lavoratori. Il problema è che, però, ogni prospettiva che lega la tutela operaia al rilancio della competitività aziendale e nazionale fa sì che si vada allo scontro con armi spuntate in partenza.
Primo: perché è un dato di fatto generalizzato a tutto l’Occidente che le imprese (e quelle nelle condizioni della Fiat in particolare), per mantenere e conquistare spazio nel mercato, devono preliminarmente aggredire la condizione dei lavoratori. Secondo: perché legare il proprio destino a quello dell’azienda porta di fatto (e ben al di là della volontà di chicchessia) a creare fossati con i lavoratori degli altri stabilimenti, della altre aziende e degli altri paesi e, quindi, a non favorire la messa in campo dell’unica forza che ci può difendere: un fronte di lotta unitario, internazionale ed internazionalista dell’intero mondo del lavoro.
La verità è che se si accettano i presupposti di Marchionni (mercato e competitività) non c’è partita. Questi presupposti oggi incatenano all’azienda. Domani, se la competizione per il dominio del pianeta dovesse passare dal piano commerciale a quello militare, incateneranno alla patria chiedendo ai lavoratori di ogni paese di diventare carnefici e vittime di altri proletari sui campi di guerra.
Una strada per venir fuori da questo inferno esiste
Per poter iniziare ad intravederla è necessario cominciare a rendersi conto che dal resto del mondo non arriva solo la concorrenza. In Asia, America e ovunque vivono e lavorano centinaia e centinaia di milioni di operai. I loro problemi e le loro ansie hanno le stesse radici dei guai che affliggono noi: le leggi del mercato, del profitto e della competitività.
Oggi la gigantesca forza potenziale che il proletariato avrebbe a scala mondiale è paralizzata dalla concorrenza reciproca in cui i lavoratori sono gettati dai meccanismi di funzionamento del capitalismo internazionale. È questa concorrenza che deve essere contrastata.
Come? Cominciando anche da “piccole” cose.
Ad esempio dandosi da fare affinché i coordinamenti sindacali (nazionali ed internazionali) delle grandi imprese non siano il luogo dove i rappresentanti dei vari siti industriali vanno a scontrarsi l’uno con l’altro al fine di strappare commesse e produzioni per il proprio impianto, ma al contrario diventino vivi organi di organizzazione e lotta comune tra lavoratori di diversi stabilimenti e di diverse nazioni.
Spingendo per far si che le varie vertenze non restino chiuse nei singoli stabilimenti, ma coinvolgano direttamente gli operai dell’indotto ed il tessuto proletario (famiglie, giovani…) che vive intorno alla fabbrica.
Cominciando a battersi per far avanzare la certamente difficile rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario a scala internazionale. Nel precedente numero di questo giornale scrivevamo che questa rivendicazione non è da intendersi come un grimaldello con cui poter superare magicamente tutte le difficoltà. Ma è da intendersi come una prospettiva a cui lavorare "perché è l’unica in grado di evitare che la necessaria lotta contro i licenziamenti e la chiusura degli stabilimenti possa trasformarsi in una guerra tra lavoratori delle diverse nazioni (o dei diversi siti industriali), ognuno a difesa del proprio fortino assediato e contro il fortino altrui".
La strada che qui ci sforziamo di evidenziare non è certo agevole. All’inizio e per tutto un periodo potrà, giocoforza, essere percorsa solo da una risicata minoranza proletaria che per “reggere ed andare avanti” è e sarà chiamata ad appropriarsi del marxismo rivoluzionario, cioè dell’unica teoria che consente di leggere in anticipo gli sviluppi dello scontro tra le classi a livello internazionale. La nostra organizzazione è impegnata con tutte le sue (purtroppo non gigantesche) forze a contribuire a questo processo.
Dal Che fare n.73 dicembre 2010 - gennaio 2011
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA