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Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

La fabbrica mondializzata dell’automobile

Quella automobilistica è una delle industrie mondializzate per eccellenza. Non solo nel senso che, ormai, le “quattro ruote” vengo sfornate da fabbriche presenti praticamente in tutti i continenti, ma soprattutto per come si configura la produzione stessa dell’autovettura.

Tra gli anni ’60 e ’80 del XX secolo ogni auto era quasi per intero prodotta all’interno di un dato stabilimento. Ovviamente ci si avvaleva di “pezzi” costruiti all’esterno, ma il loro peso nell’economia complessiva del prodotto era relativamente secondario. Per usare il linguaggio (a dir poco approssimativo) degli economisti ufficiali, nel 1980 il 70% del valore aggiunto di un’automobile veniva generato dal cosiddetto “costruttore” e “solo” il 30% era invece generato nelle aziende collaterali addette alla produzione della componentistica.

In pratica (per fare un esempio “tagliato con l’accetta”, ma utile a rendere l’idea), più di due terzi del valore (materie prime escluse) di una Fiat 127 provenivano dal lavoro degli operai di Mirafiori, mentre meno di un terzo proveniva da quello dei lavoratori delle imprese addette, magari, alla costruzione delle batterie elettriche o di altre componenti. 

Oggi tale rapporto è più che capovolto. Si calcola infatti che attualmente il “valore aggiunto” dal “costruttore” si aggiri mediamente intorno al 30%, mentre quello proveniente dalla filiera della componentistica sia all’incirca del 70%. È plausibile inoltre supporre un ulteriore ampliamento di questa forbice.

A tutto ciò va aggiunto un altro elemento. Le aziende produttrici di componenti non sono più relegate solo nella sfera delle piccole e medie imprese. Queste continuano ad esserci (e, non va dimenticato,  spesso nei sub-appalti è anche diffuso il lavoro “nero”), ma il settore vede ormai la presenza decisiva di grandi gruppi multinazionali  che oltre ad avere un forte peso sul mercato mondiale, hanno importanti livelli occupazionali. Basti pensare che il più grande costruttore planetario di componenti, la Bosch GnbH, ha circa 280mila dipendenti, più del doppio della Renault.

Inoltre, mentre prima gli stabilimenti dei costruttori “esterni” erano quasi integralmente edificati a ridosso della grande fabbrica di riferimento, adesso questo tipo di produzione, pur non avendo sempre abbandonato i siti geografici tradizionali, si è diffusa ben oltre gli originari confini. Per fare un altro esempio: una vettura uscita, poniamo, da Mirafiori potrebbe essere dotata di un motore fatto in Polonia, di pistoni tedeschi, freni a disco messicani, servosterzo indiano, ecc. Esemplificando un po’ si può dire che la grande fabbrica automobilistica è oggi il punto terminale di una gigantesca piovra con tentacoli sparsi nei cinque continenti il cui compito fondamentale è quello di assemblare e “mettere in opera” una miriade di pezzi prodotti in giro per il mondo. Ecco perchè le ristrutturazioni “alla Pomigliano” non sono “solo” finalizzate a spremere al massimo gli operai dello specifico stabilimento, ma anche a “battere i tempi” per tutto l’indotto al fine di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori dell’intera filiera.

Questa trasformazione “rivoluzionaria” nel modo di “fare l’auto” è servita ai grandi marchi per razionalizzare e  contenere i costi, scaricare parte dei rischi su “terzi”, spingere ad un ulteriore specializzazione produttiva, ecc. Il suo fine però è stato anche politico: spezzare la forza della classe operaia occidentale che negli anni ’60 e ’70 aveva avuto uno dei suoi principali epicentri nella grande fabbrica automobilistica.

Frammentare la produzione , toglierne intere fette dai classici siti industriali, impiantare stabilimenti a basso costo di manodopera o iper-produttivi (o, meglio, con entrambe le caratteristiche associate) ai quattro angoli del mondo ha, in effetti sottoposto il proletariato europeo e nordamericano ad una spasmodica concorrenza sul mercato mondiale del lavoro e ciò ha contribuito a fiaccarne fortemente la capacità di lotta e resistenza. Nello stesso tempo ha però di fatto altrettanto fortemente contribuito ad ingrossare a livello planetario le fila della classe operaia la cui massiccia presenza non è più oggi confinata al solo “vecchio mondo industrializzato”

Questo, che al momento qui in occidente sta rappresentando un fattore di paralisi, potrà a date condizioni, trasformarsi in un potente elemento di forza e di rilanci per la lotta proletaria. Fondamentale, tra queste condizioni, è iniziare a conquistare una prospettiva internazionale ed internazionalista.

Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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