Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
La rincorsa dell'Asia operaia
“Il futuro del sindacato si sta creando in Asia”: così titolava il Sole24Ore del 10 agosto 2010 facendo il punto sul ciclo di lotte proletarie partito alcuni anni fa in Cina e ora debordato in vari paesi del Sud-Est asiatico.
Mentre in Occidente vengono dipinti come schiavi felici di esserlo e come temibili concorrenti dei lavoratori occidentali, i lavoratori cinesi e dell’Asia sud-orientale si stanno organizzando e stanno lottando, anche duramente, per migliorare la loro condizione salariale e i loro diritti organizzativi.
La lotta che ha bucato il muro dell’informazione italiana è stata quella alla Foxxcon, l’azienda di Shenzen dove 400 mila lavoratori fabbricano pezzi e prodotti per conto della Apple, della Nokia, della Hewlett-Packard, della Sony Ericsson, ecc. Lo sciopero e la vertenza alla Foxxcon sono stati, in realtà, solo un momento di una marcia che parte da lontano. L’abbiamo ripercorsa nei numeri [?] del “che fare”. Ne vediamo stavolta gli ultimi e più significativi episodi di cui siamo venuti a conoscenza.
Nel giugno 2010, la direzione aziendale della Foxxon ha introdotto un aumento salariale del 50% e promesso l’assunzione a tempo indeterminato di centinaia di migliaia di dipendenti e il miglioramento delle loro condizioni lavorative e abitative. La stampa occidentale ha ricondotto questa decisione alla generosità delle multinazionali dell’elettronica committenti della Foxxon. Queste ultime, poverine, all’oscuro degli orari e dei salari dei lavoratori della Foxxon, non ne avrebbero più tollerato il mantenimento non appena ne sono venute a conoscenza in seguito alla fuga di notizie su alcuni suicidi tra i dipendenti della gigantesca fabbrica.
In realtà, a mettere la proprietà della Foxxon e delle multinazionali con le spalle al muro sono stati gli scioperi, le proteste, le denunce condotte dai lavoratori e il clima di effervescenza proletaria esistente in Cina. “Solo nel mese di maggio si sono verificati ben scioperi in diverse regioni, per la maggior parte in fabbriche manufatturiere. Motivo principale: i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro. Particolare interessante è che, diversamente dal passato, quando con grande difficoltà filtravano notizie su scioperi e manifestazioni, adesso anche la stampa cinese riprende queste iniziative, ci sono lettere aperte di lavoratori e cittadini, interventi a sostegno da parte di personalità pubbliche. È cominciata una discussione aperta sulla possibilità di reinserire nella costituzione cinese il diritto di sciopero cancellato con le modifiche del 1982” (documento del “Chinese workers research network” riportato su http://inpuntowebcina.blogspot.coma cura dell'Ufficio internazionale della Fiom, 28 giugno 2010).
Una delle lotte più significative si è svolta negli stabilimenti cinesi della Honda. Il punto di partenza è stato lo stabilimento di Foshan.
Alla fine di maggio la maggior parte dei 1800 dipendenti della Honda di Foshan ha interrotto il lavoro per rivendicare consistenti aumenti salariali, da 1500 yuan (150 euro), portati a casa al prezzo di pesanti straordinari, ad almeno quota 2000-2500 yuan. In un primo momento l’azienda ha risposto picche e si è ritrovata con la produzione bloccata anche in altri stabilimenti per mancanza di componenti. Poi è stata costretta a cedere. Alla fine, i dipendenti hanno strappato un aumento salariale del 30%.
Nel corso della lotta i lavoratori di Foshan hanno eletto in assembla un comitato di lotta, si sono rivolti con una lettera aperta ai lavoratori in affitto presenti in fabbrica per sventare la manovra divisoria della direzione aziendale. Nella lettera i lavoratori si sono rivolti anche alla direzione aziendale per ricordarle che i miliardi di dollari di profitto che la proprietà incamera ogni anno sono generati dal fatica e dal lavoro dei suoi operai. A tal proposito, la lettera cita “un editoriale comparso su Xinhua New Agency del 2 giugno che sollecita la consultazione dei lavoratori sulla questione del salario e l’introduzione del diritto dei lavoratori stessi a conoscere, a partecipare e ad esprimersi” (ib.).
Il Corriere della Sera del 10 agosto conclude: “Forse, anche se ci vorranno ancora anni, è il prodromo della fine del lavoro low cost made in China”. Già: e questi sono i lavoratori di cui i lavoratori italiani ed europei dovrebbero aver paura e trattare da concorrenti?
Si è appena conclusa la lotta negli stabilimenti Honda e il copione si replica fra i lavoratori del comparto tessile. I sindacati ufficiali organizzano tre giorni di sciopero per un aumento del 40% dei salari e per una legge che il tuteli il diritto dei lavoratori a far sentire la loro voce. Questa volta, però, non siamo in Cina ma in Cambogia.
Ancora qualche giorno e la protesta operaia tocca gli operai peggio pagati al mondo. Si tratta dei lavoratori del Bangladesh.
Le loro condizioni di lavoro dei lavoratori tessili del Bangladesh sono molto precarie, con turni massacranti di 12-15 ore al giorno e sicurezza ridotta quasi a zero. Ricordiamo, ad esempio, quanto accaduto nel febbraio 2010 nella fabbrica Garib e Garib di Gazipur, dove un un incendio uccise 15 donne e 6 uomini rimasti intrappolati nell’edificio perché le uscite di sicurezza erano bloccate, il portone chiuso a chiave e le finestre sbarrate da grate.
Alla fine del giugno 2010, secondo un’indagine dell’Ituc, la Confederazione Internazionale dei sindacati, oltre centomila lavoratori delle industrie tessili del Bangladesh sono scesi in sciopero per chiedere che il loro stipendio di 1600 taka, circa 25 dollari al mese, fosse aumentato a 5000 taka, circa 78 dollari al mese. I proprietari di 300 fabbriche che producono vestiti anche per molti campioni del low cost come Wal Mart, H&M , Zara e Carrefour hanno chiuso i portoni a causa delle proteste. La polizia ha riferito di scontri e barricate sulle strade ad Ashulia, non lontano dalla capitale Dacca, cuore dell’industria tessile del poverissimo paese asiatico. Almeno 100 fra i dimostranti sono rimasti feriti. Ad animare la lotta sono state le giovani lavoratrici impiegate negli stabilimenti. Tra le richieste degli scioperanti quelle di una maggiore tutela sulla salute e la sicurezza nei posti di lavoro e quella di riconoscere il diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacati scelti liberamente.
Ancora in Bangladesh, nell’ottobre scorso, sono scesi in sciopero i portuali di Chittagong, il porto principale del paese dove transita il 90% delle merci scambiate dal Bangladesh con l’estero e soprattutto i prodotti tessili che costituiscono l’80% delle esportazioni del paese. Il governo del Bangladesh ha dovuto far intervenire l’esercito per permettere lo sblocco delle merci...
A precedere le agitazioni operaie in Cina, in Cambogia e Bangladesh, era stata la protesta dei lavoratori di uno dei più grandi stabilimenti della multinazionale Nike presenti in Vietnam. Oltre 20mila operai avevano scioperato per due giorni per ottenere salari più alti. La lotta aveva permesso di ottenere un aumento del 10% rispetto alla paga base di 59 dollari. E questo in uno dei paesi in cui le multinazionali occidentali si starebbero attrezzando per trasferire le produzioni dalla Cina diventata terra di operai ribelli...
Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA