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Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

 Preziosi insegnamenti dalle mobilitazioni dei lavoratori in Europa della primavera e dell’autunno 2010

 Di fronte all’offensiva capitalistica dell’Ue, va preso atto che i lavoratori dell’Ue hanno registrato un enorme ritardo. È altrettanto vero, però, che non sono state del tutto assenti lotte e mobilitazioni difensive. In primavera, c’è stata la robusta fiammata in Grecia, con la successione di 12 scioperi generali e di ampie manifestazioni di piazza. A maggio hanno tentato di far sentire la loro voce i lavoratori in Romania, con la manifestazione più partecipata dal 1989. In autunno, l’epicentro si è spostato in Francia, con 5 giornate di sciopero-mobilitazione e lo sciopero ad oltranza per oltre tre settimane nelle raffinerie e in alcuni porti. A cavallo delle mobilitazioni in Francia ci sono stati, inoltre, lo sciopero generale in Spagna e quello in Belgio alla fine di settembre e la manifestazione Fiom del 16 ottobre in Italia. Dall’analisi di tali mobilitazione emergono alcune preziose indicazioni sul lavoro politico, per un periodo non breve inevitabilmente ultra-minoritario, cui sono chiamati i lavoratori più combattivi e lungimiranti.

 La lotta, unico strumento di difesa

Queste iniziative, soprattutto quando -come in Grecia e in Francia- hanno inciso sulla fluidità del processo produttivo e di trasporto, hanno avuto il merito di “affermare” agli occhi dei lavoratori che i proletari hanno una sola arma per far valere i loro interessi: la loro lotta. D’altronde, come sono state ottenute le conquiste che oggi il capitale vuole rimangiarsi se non con la lotta e, meglio, con lotte poderose? Per mesi e mesi, nel 2008-2010 i lavoratori sono rimasti in attesa, hanno accettato “fatalisticamente” la cassintegrazione, i licenziamenti dei precari, l’annuvolarsi dell’orizzonte del futuro, l’appesantimento della giornata lavorativa. Nel 2010 questo cerchio magico s’è rotto. Debolmente? Incoerentemente? Sì, è così. Non è detto, inoltre, che si sia rotto permanentemente e che non si arretri ancor di più.

Il mondo del lavoro salariato in Europa è, infatti, politicamente quasi paralizzato, stretto tra la paura di perdere tutte le conquiste passate e la competizione con i proletari del mondo intero. La nuova generazione comincia a sentire sulla sua pelle le prime note della sinfonia che i capitalisti europei vogliono d’ora in poi suonare ai lavoratori, ma la rete protettiva delle famiglie e le riserve accumulate dalle precedenti generazioni proletarie costituiscono un cuscinetto ancora significativo. Una parte dei lavoratori europei e, in parte, immigrati, soprattutto in Germania, sono, poi, convinti che la prospettiva incarnata dal governo Merkel non abbia alternative. Tali difficoltà sono così profonde che in Francia le ripetute giornate di mobilitazione e lo sciopero ad oltranza in alcune aziende strategiche non sono riusciti ad innescare un effetto valanga, la generale scesa in campo del proletariato e la politicizzazione esplicita dalla lotta per buttare giù dalla piazza Sarkozy.

E tuttavia, pur in questo quadro generale, dalle mobilitazioni dei mesi scorsi rimane, in ogni caso, il risultato politico di aver segnalato agli occhi dei lavoratori che la lotta è l’unico argine contro l’offensiva dei padroni e dei governi. Ed è unicamente la lotta, aggiungiamo noi, anche con estemporanee fiammate, a creare il clima sociale nel quale nuclei, anche ultra-ristretti, di giovani lavoratori possono destarsi ad un’attività sindacale e politica di lungo periodo.

Un potenziale enorme

 Si potrebbe obiettare: “Ma queste iniziative non hanno fermato l’attacco, né in Francia né altrove. Quindi l’insegnamento che trasmettono è che la lotta non paga.” Certo, esse non sono riuscite a parare i colpi, ma è altrettanto vero che hanno mostrato l’impatto dirompente di cui sarebbe capace la lotta proletaria se venissero interamente messe a frutto le potenzialità di cui dispone la classe proletaria. Innanzitutto, le mobilitazioni dei mesi scorsi, il blocco delle raffinerie francesi, le conseguenze a catena che il blocco della lavorazione del greggio stava innescando nel meccanismo produttivo generale, hanno confermato, per l’ennesima volta, che non è vero che gli operai non esistono più, che essi rimangono il perno della macchina economica e che, proprio per questo, possono essere in grado di fermarla, di colpire gli interessi degli sfruttatori e di costringerli quantomeno alla moderazione. Ci si dimentica troppo spesso che tutto il meccanismo si regge sul lavoro delle braccia e dei cervelli dei lavoratori!

Nelle manifestazioni di piazza, è, poi, emerso quanto è diventato esteso il mondo del lavoro salariato e quanto sono estesi i settori del “ceto medio” salariato e del finto “lavoro autonomo” che condividono la precarietà e, spesso, i salari degli operai. Quale forza emanerebbe dalle piazze se a scendere in campo fosse, organizzato, il mondo del lavoro nel suo insieme? Un inizio di convergenza si è visto in Francia e in Grecia, dove si sono ritrovati in piazza, a fianco a fianco, lavoratori e giovani studenti. Non possiamo nasconderci, tuttavia, quanta strada ci sia ancora da fare. Il fatto è che la mobilitazione unitaria dei lavoratori dei diversi settori, delle diverse aziende, delle diverse generazioni, dei diversi generi e delle diverse nazionalità non si dispiega spontaneamente. In Grecia e in Francia, ad esempio, alcuni settori proletari giovanili, autoctoni o immigrati di prima o seconda generazione, si sono mossi separatamente dal resto del mondo del lavoro. Si dispiega spontaneamente, appunto, sotto i colpi del capitale, la lotta di questo o quel settore proletario. Invece l’organizzazione di un movimento di lotta unitario, l’unico in grado di fronteggiare il fronte borghese, richiede un’attività politica specifica.

In Francia, ad esempio, la crescita della mobilitazione di piazza ha permesso che emergesse la rivendicazione unificante del ritiro e non della modifica della contro-riforma delle pensioni Sarkozy-Woerth. Non si è, però, imposto da sé l’obiettivo politico in grado di sostenere la maturazione dell’unità di lotta dei vari settori del proletariato: quello di buttare giù Sarkozy, lo strumento politico attraverso cui procede in terra di Francia l’offensiva del capitale contro l’intero mondo degli sfruttati. Questo passaggio, che sarà predisposto, innanzitutto, dall’aggravarsi dell’offensiva capitalistica, richiedeva e richiederà un lavoro specifico, finalizzato a mettere in luce la radice della contro-riforma delle pensioni, a chiarire il legame esistente tra lo scontro di classe in corso Francia con quello aperto nel resto dell’Europa e negli altri continenti, a denunciare l’illusione che ci si possa difendere lasciando che siano altri settori a pagare, i lavoratori più deboli e soprattutto gli immigrati.

Questa illusione è, purtroppo, fortemente presente. E addirittura in ascesa, come emerge dai risultati delle elezioni in Belgio, in Svezia, in Austria e in Olanda, dove c’è stata un balzo in avanti delle formazioni politiche xenofobe, anti-islamiche, “leghiste”. Pesano in tal senso la propaganda e le politiche dei governi. Ma pesa, innanzitutto, l’incrudimento della concorrenza esistente sul mercato del lavoro. Emblematico il caso del Belgio. I centri capitalistici che fanno capo al porto e al distretto industriale di Anversa vogliono disfarsi del “peso morto” delle regioni francofone e attuare una radicale politica liberista. La prospettiva è nettamente antiproletaria, eppure raccoglie il consenso di un settore consistente dei lavoratori fiamminghi, padanamente illusi di potersi difendere scaricando sui lavoratori valloni il peso della ristrutturazione capitalistica.

Ognuno per sé?

 Le mobilitazioni dei mesi scorsi hanno, inoltre, posto un altro problema. I governi e i padroni europei, pur in contrasto tra loro, si coordinano, giocano su una scacchiera continentale e, da questa base, si lanciano nella loro mondiale opera di sfruttamento. E i lavoratori? A ben guardare, le lotte che nei mesi scorsi si sono svolte nei vari paesi, sono rimaste isolate le une rispetto alle altre. Mentre ad esempio, si svolgeva lo scontro sociale in Grecia, i lavoratori degli altri paesi sono rimasti alla finestra, con l’illusione che la campana greca non stesse suonando anche per loro. Il che ha contribuito alla provvisoria resa dei lavoratori della Grecia. Cos’altro potevano fare questi ultimi contro un nemico che non era semplicemente il governo greco ma l’alleanza dei governi e delle istituzioni capitalistiche europee?

Solo alla fine di settembre i sindacati aderenti alla Ces hanno organizzato una manifestazione europea a Bruxelles in occasione degli scioperi generali che in quello stesso giorno si tenevano in Francia, Belgio e Spagna. Le direzioni sindacali della Ces hanno “organizzato” e finalizzato la giornata di lotta ad un’impotente richiesta alla commissione Ue di aprire un tavolo negoziale. Rimane, tuttavia, il fatto che attraverso le stanze colluse con i grandi poteri capitalistici dei sindacati ufficiali ha cominciato a farsi sentire un’esigenza vitale. Come le si risponde? Come si contrasta l’affossamento di questa esigenza operato dalla politica della Ces che ha dovuto evocarla?

Neanche in questo campo a pigiare il bottone per lo sviluppo di un movimento di lotta continentale può essere la forzatura di qualche partito o gruppo di lavoratori. A pigiare il bottone sarà il capitale stesso, con i suoi affondi e, soprattutto, con le conseguenze delle scosse derivanti dal terremoto della situazione diplomatica mondiale che il radar dell’analisi marxista comincia a rilevare in lontananza. Non ci sono, dunque, astuzie che valgono: bisogna fare i conti con la situazione che, al momento, prevale, e che è dominata dalle spinte alla chiusura nazionale.

C’è, ad esempio, una distanza psicologica sensibile tra i lavoratori dell’Europa mediterranea e quelli dell’Europa settentrionale, soprattutto della Germania, che si sentono meno a rischio e sentono di avere qualche chances in più dei loro fratelli di classe se si legano alla loro forte industria esportatrice tedesca. Ha fatto notizia, giustamente, l’accordo concluso alla Siemens, proprio mentre era in corso il movimento di lotta in Francia: con tale accordo la direzione della multinazionale si è impegnata a non licenziare i 128mila dipendenti tedeschi. La stessa garanzia non è stata riconosciuta per gli altri 270mila dipendenti della Siemens sparsi negli altri paesi.

Fare i conti con questa situazione, significa prendere atto di queste difficoltà. Ma non per mettersi alla finestra in attesa del corso degli eventi. Bensì per organizzare e calibrare un’iniziativa politica finalizzata a tessere una rete di contatti, nei quali avviare la discussione sul senso dell’epoca che si è aperta, socializzare le lotte parziali e locali in corso nei vari paesi, denunciare il senso politico dell’europeismo, prendere atto del filo comune che lega il destino dei lavoratori dei cinque continenti e del fatto che o ci si difende tutti insieme contro la “mano invisibile” del mercato e quella degli stati capitalistici che la organizzano o si precipita gli uni e gli altri in un baratro senza fondo. Significa favorire la consapevolezza, in un nucleo (per un po’ di tempo inevitabilmente ultra-minoritario) di lavoratori, che entro l’orizzonte capitalistico non c’è un’Europa in grado di riservare un futuro dignitoso ai lavoratori e anche solo mantenere le conquiste del XX secolo.

 Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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