Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
…sulla pelle del proletariato mondializzato
Al 1974-‘75 la maggioranza del proletariato industriale mondiale (3) era collocato in Occidente, o nei paesi del "socialismo reale". Lavorava intorno alle 8 ore al giorno. Percepiva salari medi tali da potere incrementare i propri consumi e mettere da parte qualche, modesta, "riserva". Non di rado poteva accedere alla proprietà della casa, o si vedeva riconosciuto comunque, anche per le proprie lotte, un diritto alla casa, se non altro alla casa popolare, all’istruzione dei propri figli, etc. Negli stessi paesi appena entrati, in armi, nel processo di decolonizzazione, pensiamo all’Algeria, all’Iraq, alla Cina (che aveva al tempo 48 milioni e mezzo di addetti all’industria e all’edilizia), la giornata di lavoro di 8 ore non era una rarità; e i lavoratori delle industrie avevano anche alcune garanzie di welfare, pur se quasi sempre aziendali.
Al 2008, invece, la grande maggioranza degli operai dell’industria è al di fuori di Europa, Stati Uniti e Giappone (4). Nella sola Cina vi sono 100 milioni di lavoratori nell’industria manifatturiera, 50 milioni di addetti all’edilizia, 6 milioni di minatori, 20-25 milioni di lavoratori dei trasporti, con una massa di mingong (lavoratori migranti) pari a 210 milioni. Dal 1996 al 2006 la totalità della crescita della occupazione industriale mondiale si è realizzata al di fuori dei paesi dell’Ocse, con un picco di aumento di ben 6 punti percentuali nell’Asia del Sud. Nei primi cinque anni del millennio Brasile, Cina, India e Russia hanno creato 22 milioni di nuovi posti di lavoro l’anno, complessivamente 110 milioni (molti nell’industria). Questi addetti all’industria lavorano in media le 9-10 ore al giorno, o più. La grande maggioranza di loro riceve paghe nettamente inferiori alla media mondiale dei salari industriali degli anni ’70. Ciò vale anche per i lavoratori dei paesi ricchi, statunitensi in testa, che stanno vedendo le garanzie e il salario indiretto ridotti sempre più all’osso. Sicché l’accesso alla casa, alla salute, all’istruzione, alla pensione, perfino ai consumi di base, è per loro sempre più legato all’indebitamento. Si riduce così, talvolta pesantemente, lo stesso salario diretto, anche in Occidente, mentre cresce per converso il potere di banche e borse sulla vita dei lavoratori. Il tasso di sindacalizzazione è precipitato quasi ovunque. Grazie alla deregulation finanziaria e alle politiche anti-operaie. All’enorme allargamento dell’esercito industriale di riserva alla scala mondiale e alle migrazioni internazionali. Ai metodi toyotisti e walmartisti di lotta preventiva al sindacato operaio. E al fatto che molti lavoratori si sono piegati all’ideologia della competitività, o se ne sono lasciati penetrare sperando così di salvare il posto di lavoro e la pelle. Nei paesi "emergenti", sebbene i salari siano stati negli ultimi anni in ascesa e vi sia una spinta operaia a ridurre gli orari, si è tuttora ben lontani dal livello occidentale medio di salari e orari proprio degli anni ’70. Non si è neppure ai livelli della Russia brezneviana. O della Cina di Mao, in cui il proletariato industriale, pur se privo di potere politico, era trattato materialmente alla stregua di una "aristocrazia operaia".
Insomma, è stato un trentennio all’insegna della riduzione del costo medio della forza-lavoro alla scala mondiale, realizzata in misura non secondaria con l’immissione massiccia di forza-lavoro femminile, e, insieme, per effetto di una forte crescita della produttività del lavoro, specie nei paesi di nuova industrializzazione (5). Con una formula sintetica possiamo dire: la massa degli operai (e dei tecnici) dell’industria di oggi lavora ad orari da fine-ottocento (o che, comunque, si stanno allungando di continuo), salari da inizio novecento e produttività da era informatica, o quasi. Questo rilancio capitalistico si è avvalso, infatti, sia dell’estensione della meccanizzazione e della robotizzazione dei processi produttivi alle imprese produttive dei nuovi continenti, che di una nuova rivoluzione tecnica informatica e digitale capace, come nota R. Reich in Supercapitalismo, di abbattere i costi di una serie di operazioni amministrative delle aziende, dalla contabilità agli acquisti, dagli inventari alla gestione dei sub-appalti, dalle comunicazioni esterne a quelle interne. Per non parlare, poi, di quanto si sono ridotti, grazie alle nuove tecnologie, i costi di circolazione delle merci, di una circolazione delle merci fattasi quanto mai veloce, e quelli direttamente inerenti al processo di produzione.
3) Negli Stati Uniti, ad esempio, gli addetti all’industria manifatturiera si sono ridotti dai 20 milioni del 1975 (su un totale della forza-lavoro di poco più di 78 milioni di unità) ai 15.5 milioni del 2007 (su una forza di lavoro totale di poco più di 140 milioni); però nello stesso periodo gli addetti alle costruzioni sono più che raddoppiati, da poco meno di 4 milioni ad oltre 9.600.000. Non c’è stata, dunque, una riduzione degli addetti all’industria (incluse le costruzioni) in numeri assoluti, bensì in termini relativi.
4) In Cina nel 1992 102 milioni di addetti all’industria producevano un valore complessivo pari a 1.028 miliardi di yuan; nel 2005, con un numero di addetti di poco ridotto (99,4 milioni), il valore prodotto era (a prezzi costanti) pari a 4.562 miliardi di yuan, e cioè quattro volte e mezzo superiore (+450% in meno di quindici anni). Una discreta crescita della produttività c’è stata anche in Occidente a partire da livelli già elevatissimi: negli Stati Uniti, ad esempio, nell’ultimo decennio la produttività del lavoro è cresciuta del 30%.
5) Cfr. i dati riportati da P. Giussani in Saggio del profitto ed accumulazione (2005) e da Chong-En Bai, The return to capital in China (2006). Bai aggiunge che, però, in Cina i profitti del capitale sono rimasti egualmente alti, anzi dopo il 1998 sono perfino aumentati per la corrispondente rapidità dello sviluppo della produzione e della produttività e per una allocazione degli investimenti piuttosto efficiente. Tuttavia anch’egli è "sorpreso" del mancato calo dei profitti.
Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
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