Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
Una magnifica previsione marxista
Le ragioni storiche si misurano a decenni (almeno) e secoli, non a giorni e settimane.
La nostra critica, la critica marxista alla nascente e poi risplendente star del capitalismo mondiale e, per converso, la nostra attenzione all’altra America, all’America operaia e proletaria, data da oltre un secolo. E si formalizzò nel 1872, quando i capi della Associazione Internazionale degli operai (la I Internazionale) decisero di trasferirne la sede da Londra a New York. Di trasferirla lì perché "l’America diviene il mondo dei lavoratori per eccellenza; […] tutti gli anni un mezzo milione di uomini, di lavoratori, emigrano verso quest’altro continente, e […] bisogna che l’Internazionale metta radici vigorose in questa terra dove domina l’operaio" (Marx). E perché lì "il nostro partito è veramente internazionale, più di quanto non accada in nessun altro posto del mondo" (Engels).
Questo sguardo, questa partecipazione irriducibilmente critici, anti-capitalisti da un lato, e solidali, internazionalisti dall’altro, non sono mai venuti meno. Neppure nel momento di massimo fulgore della bandiera stellestrisce, l’immediato secondo dopoguerra. Con la sua strepitosa prosperità questa nazione "sembrava" avviata a mandare in soffitta la divisione in classi della società, e con essa tutta la critica del capitalismo. Al virulento filo-americanismo di una ben foraggiata miriade di strutture e circoli reazionari si "opponeva" allora un anti-americanismo stalinista monco e manchevole: perché imbevuto degli stessi criteri produttivistici mercantili e concorrenziali; e perché incapace di tirare una netta linea di demarcazione tra l’Amerika imperialista e gli sfruttati statunitensi. Ben altrimenti acuminata fu la critica marxista che, con Amadeo Bordiga, "azzardò" una magnifica previsione sui tempi a venire, sui nostri tempi. La sua forza, la sua profondità scientifica e rivoluzionaria si può oggi apprezzare in pieno. Anche, crediamo, dai non marxisti.
"Non solo il piano mondiale modernissimo [il piano Marshall] non ammette di voler affamare, ma dobbiamo avere il coraggio di dire di più. Per la dimostrazione che il sistema capitalistico deve cadere, per la rivendicazione del suo abbattimento, per il diritto, se così vogliamo esprimerci, di denunziarlo infame, non è condizione necessaria la prova che sopravvivendo abbasserà il tenore medio di vita mondiale. Il capitalismo deve cedere a forme di più alta resa economica oltre che per le sue infinite conseguenze di oppressione, distruzione e di strage, per la sua impossibilità ad ‘avvicinare gli estremi delle medie’ non solo tra metropoli e paesi coloniali e vassalli, tra zone progredite industriali e zone arretrate agrarie o di agricoltura primordiale, ma soprattutto fra strato e strato sociale dello stesso paese, compreso quello dove leva la sua bandiera negriera il capitalismo più possente e imperiale" (Battaglia comunista, n. 3/1950).
Di quanti punti è cresciuta da allora, sia pure a credito, la ricchezza della "ricchissima e prosperosa" America? Di non minori proporzioni è stata la crescita delle sue disuguaglianze, di ricchezza e di potere. La lunga parentesi di un provvisorio, assai più apparente che reale, avvicinamento degli "estremi" è finita. Torna a brillare la lucida previsione marxista. In un paese in cui la nostra classe "è veramente internazionale, più di quanto non accada in nessun altro posto al mondo". Non è una formula di rito. È quanto ha mostrato al mondo intero il 1° maggio del 2006 il formidabile sciopero generale dei lavoratori immigrati.
Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA