Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
Un oceano di profitti. Ma non è bastato
Nei trenta anni che abbiamo dietro le spalle, quindi, la classe capitalistica transnazionale sotto la guida yankee, Wall Street +Washington +Pentagono + Hollywood, si è appropriata di un autentico oceano di profitti. È la massa di profitti, la massa di lavoro non pagato, di pluslavoro, più grande di tutta la storia del modo di produzione capitalistico. Ma questi mega-profitti non sono stati sufficienti per consentirle di continuare ad accumularne altri in quantità ancora maggiori. Di qui la crisi. Che, certo, è esplosa all’interno di un capitale finanziario gonfiatosi a dismisura, ma ha le sue radici nella economia reale. Nella produzione di mezzi di produzione e di consumo. Nella sua insufficiente profittabilità. Nella sua sovrabbondanza, nella sua sovrapproduzione, rispetto alla possibilità di far crescere il capitale ai ritmi attesi e rispetto alla domanda solvibile. La gigantesca bolla speculativa esplosa a settembre-ottobre 2008 è dovuta da un lato proprio agli enormi profitti incamerati dal capitale globale e, dall’altro, alla crescente difficoltà a reinvestirli nella produzione in modo profittevole.
Proviamo ora a vedere perché questa cuccagna non è bastata ai capitalisti.
In linea generale nel capitalismo le forze produttive crescono più di quanto consentano i rapporti di produzione entro cui debbono operare, la produzione (sia di mezzi di produzione che di beni di consumo) cresce più rapidamente del mercato. Per due ordini di ragioni (permanenti). Da un lato perché con l’accumulazione capitalistica, con l’ingrandirsi del capitale, con il "perfezionamento" dei mezzi di lavoro e la crescente sostituzione di lavoro vivo con macchine, la parte di capitale composta di lavoro morto o fornita dalla natura (gli impianti, gli strumenti e gli attrezzi della produzione, le materie prime) cresce più rapidamente della parte che è composta di lavoro vivo, la sola che produce profitti ai capitalisti – Marx ha chiamato questo processo "crescita della composizione organica del capitale" (vedi riquadro). Dall’altro lato perché il mercato dei beni di largo consumo cresce meno della loro produzione, in quanto la maggior parte della popolazione, che vive sempre più di salario, e in specie la popolazione operaia, non può accrescere i propri consumi che entro limiti abbastanza ristretti.
Ora, nel trentennio che abbiamo alle spalle vi è stata di sicuro una crescita della composizione organica del capitale. Nelle metropoli iper-sviluppate il volume complessivo del capitale è cresciuto in modo limitato, ma è comunque aumentato. I dati a disposizione sono da prendere con le pinze poiché si riferiscono in genere alla composizione tecnica del capitale, ma questa rimane pur sempre la base della composizione organica. Questa, dopo un calo nei primi anni ’80, è cresciuta negli Stati Uniti prima lentamente, poi, dai primi anni 2000, con passo abbastanza celere. Non troppo diverso l’andamento in Europa. Invece nei paesi "emergenti" l’incremento del capitale-macchine è stato molto più sostenuto. In Cina, ad esempio, gli investimenti produttivi hanno fatto un vero balzo all’in su dal 20% del pil nel 1980 a poco meno del 40% nel 1993, fino quasi a sfiorare il 50% nel 2005; e specie nell’ultimo periodo si è trattato di investimenti intensivi (6). Certo, la Cina ha uno dei tassi di investimento più alti del mondo, il più alto in assoluto tra i grandi paesi; ma la tendenza delle industrie e finanche dei servizi dei paesi extra-europei a maggiore tasso di sviluppo è a dotarsi il più possibile di macchine e tecnologie di avanguardia. Nel complesso della economia mondiale, perciò, seppure ad un tasso molto differenziato, la parte del capitale fisso sul capitale totale è cresciuta, come empiricamente si può constatare dalla generale diffusione di sistemi di macchine, robot, laser, computer, meccanismi informatici nella produzione e nella stessa commercializzazione delle merci.
Nell’ultimo trentennio è stato particolarmente imponente, poi, il risparmio di lavoro. Sia nei paesi dell’Ocse, dove, benché in proporzioni differenti, l’occupazione industriale, inclusi gli impiegati, è diminuita a seguito delle continue ristrutturazioni aziendali, a fronte di un aumento della produzione e della produttività rallentato, ma reale; sia nei paesi a maggiore dinamismo di accumulazione. Prendiamo ancora la Cina. Strepitosi gli indici di incremento della produzione industriale, quasi ogni anno superiori al 10%, oltrepassati solo dagli indici di crescita della produttività del lavoro (7). Ora la produzione industriale contribuisce per il 50% alla formazione del valore complessivo del prodotto interno lordo, ma la quota degli occupati dell’industria è cresciuta nel periodo 1990-2005 di appena 2,4 punti percentuali (dal 21,4% al 23,8%), mentre tra il 1992 e il 2005 il numero totale degli addetti all’industria in senso stretto è perfino diminuito, passando da 102,2 milioni a 99,4 milioni. Ciò perché, contrariamente alla vulgata corrente, il balzo in avanti dell’industria cinese non è dovuto solo a bassi salari e orari lunghi, è dovuto anche ad impianti, a una tecnologia, ad una organizzazione del lavoro niente affatto obsoleti, almeno come media. Anche in questa particolarità del ciclo turbo-capitalistico, che non si limita alla Cina, è contenuta una pressione strutturale verso l’acutizzazione della contraddizione tra produzione e consumo, a misura che la creazione di nuova occupazione nell’ambito dei servizi – lo vedono anche i ciechi – avviene a condizioni medie di remunerazione inferiori rispetto al secondario.
Nella fase della globalizzazione neo-liberista lo spostamento della ricchezza prodotta dai salari di una forza-lavoro in via di precarizzazione ai profitti e alle rendite è stato davvero imponente, come si può osservare dai grafici pubblicati qui accanto, ripresi dal n. 4 di La brèche, che riguardano l’Europa e gli Stati Uniti. Tale spostamento è avvenuto dopo il 1989 in proporzioni molto più pesanti in Russia e nei paesi dell’Est europeo, salvo il parziale recupero nell’ultimo decennio per le agitazioni operaie e la ripresa economica. Così pure negli stessi paesi emergenti. In Europa la quota-salari sulla ricchezza totale è scesa, tra il 1982 e il 2005, di 8,2 punti (dal 66,3% al 58,1%); nei paesi del G-7 ha perso 6 punti secchi passando dal 67,5% al 61,5%; in Cina il calo è stato anche maggiore, un -12,2, dal 53,6% al 41,4%10. In questo trasferimento di ricchezza e di potere hanno avuto una parte di rilievo le politiche fiscali che negli Usa, per esempio, hanno ridotto la pressione fiscale sui redditi alti dal 70% al 40%. Al contrario del ciclo post-bellico, quando si era verificato uno spostamento di segno opposto, negli ultimi trenta anni siamo stati di fronte ad una permanente accentuazione dello scarto tra incremento della produzione di merci e limitazioni dei consumi di massa, a cui si è cercato di porre rimedio con la super-offerta di merci low cost (di qualità infima, ovviamente, altro che "cose ben fatte"!) e, specie negli Usa, spingendo le famiglie ad infilare teste e corpi nel cappio asfissiante del debito privato.
Un vero e proprio oceano di profitti, quindi, ma non sufficiente, date le leggi di movimento della produzione capitalistica, ad alimentare una sua ulteriore crescita profittevole. Ecco, dunque, la crisi, e con essa l’imperativo (etico, per i capitalisti) di tagliare, di distruggere, di bruciare esseri umani, macchine ancora funzionanti, imprese, per riprendere lo sfruttamento del lavoro da condizioni più vantaggiose per gli sfruttatori.
6) Tra il 1992 e il 2005 la produzione industriale (industria in senso stretto) è cresciuta in Cina del 12,1% annuo, la produttività del 12,4%.
7) Un andamento pressoché simile ha avuto la Thailandia, a partire da una quota-salari più alta. Le cose sono andate in modo ancora più pesante in Messico, con un -17,4, un crollo dal 47,6% del 1982 al 30,2% del 2005. Cfr. M. Husson, Un pur capitalisme, Page Deux, 2008, p. 15. Una documentata analisi a scala mondiale di questa sempre più diseguale ripartizione della ricchezza sociale tra capitale e lavoro è contenuta nel Report 2008. Income Inequalities in the Age of Financial Globalization dell’International Labour Organization.
Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
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