Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
La grande sfida che è davanti ai lavoratori di tutto il mondo
Come arriva il proletariato internazionale a questa svolta storica della situazione internazionale?
A qualche lettore la domanda potrà apparire frutto di megalomania. Come diavolo può una piccola organizzazione, un giornale dalla redazione quanto mai esigua, proporsi un interrogativo di tale portata? e come può pensare di rispondervi in un modo che non sia a tal punto approssimativo da risultare inutile, o peggio? Caro lettore, tranquillizzati. Non dimentichiamo affatto di avere delle forze, un raggio di azione e di analisi molto limitati. Anzi, li accettiamo come un dato oggettivo. Ma se questa crisi è, come è, mondiale. Se ha colpito il capitalismo più compiutamente mondializzato di sempre. Se nessuno ne resterà al riparo. Se chiama in causa, come fa, l’intero proletariato mondiale, da Detroit a San Paolo, da Torino a San Pietroburgo, da Abu Dhabi a Shanghai. Se vede, come vede, le potenze del G7 e i paesi del G20 cercare insieme, pur nella reciproca concorrenza a coltello, pur se entro rapporti tra loro diseguali, una soluzione capitalistica al crack che scarichi sui lavoratori i devastanti costi da pagare. Se tutto ciò è vero, la risposta della classe lavoratrice potrà essere efficace, anche semplicemente come difensiva, solo se saprà darsi una dimensione internazionale (la cosa è chiara anche ad un certo numero di bonzi sindacali, salvo poi non muovere foglia per passare dalle parole ai fatti). E perciò chiunque voglia sforzarsi di integrarsi ad essa, e di integrarla con gli insegnamenti che ci vengono dalla magnifica tradizione di lotta della nostra classe, deve, nei limiti in cui lo può fare, confrontarsi con questo interrogativo.
Tanto più perché la posta dello scontro tra capitale globalizzato e lavoro globalizzato che si sta per aprire, è assai più alta della mera ripartizione dei sacrifici in un periodo di "ordinario" capitalismo. L’alternativa davanti a cui siamo posti è: o il rilancio con tratti ancor più brutalmente anti-proletari del sistema capitalistico in mezzo ad un cumulo sterminato di macerie, una Baghdad universale, o il suo affossamento per mano della rivoluzione sociale. Con i proletari di tutto il mondo uniti nella epica battaglia per mettere fine, con la forza, a un sistema sociale che ha già dato quanto poteva dare. Non si può prescindere, quindi, dall’interrogarsi sullo stato della classe a livello mondiale. Un buon numero di compagni purtroppo lo dimentica, o lo sottovaluta. Catalizzandosi troppo sull’Italia e sui fatti italiani come fossero un mondo a parte. Ogni singola sezione "nazionale" del proletariato, invece, dipende dallo scontro di classe a scala mondiale non meno di quanto possa contribuire ad esso. Del resto il proletariato "italiano" non è forse oggi esso stesso un proletariato multinazionale, multirazziale, globalizzato, con una infinità di addentellati con gli sfruttati dei paesi "di colore" e dell’Est europeo?
Una grande storia
Lo stato della classe lavoratrice a livello internazionale non è esaltante. È priva del suo partito e di un suo sindacato, di una sua autonomia dalle forze capitalistiche. Sia al Nord che al Sud del mondo è, al momento, in vario grado, accodata al "proprio" capitalismo "nazionale". All’una o all’altra delle sue espressioni politiche. E talvolta, specie in Occidente, perfino a quelle più aggressivamente reazionarie e scioviniste. Non è ben consapevole della profondità della attuale crisi del capitalismo. E, meno ancora, della estrema radicalità delle misure di "risanamento" economico e di blindatura della vita sociale in cantiere nelle alte sfere dei poteri forti transnazionali. Appare dominata, specie in Occidente, da un sentimento di preoccupazione, di paura, che la paralizza. E porta tanti operai a stringersi alla "propria" azienda nella speranza che la nottata passi senza troppi danni. È un fatto: i lavoratori non hanno dato finora risposte significative ai piani di socializzazione delle perdite del capitale varate nei mesi scorsi a livello planetario.
Questa fotografia della situazione ha, però, il difetto delle fotografie. Fissa l’attimo, e non sempre in modo fedele, senza dirci nulla dei processi, delle dinamiche, delle tendenze, delle trasformazioni, del prima e del dopo di quel solo istante. Questo difetto è amplificato al massimo grado dal clima ideologico in cui siamo avvolti da decenni. Un aspetto di primaria importanza dell’offensiva neo-liberista e neo-conservatrice è stato lo stravolgimento e l’azzeramento (il tentativo di azzeramento) della storia del movimento proletario. Che è stata identificata con quella dello stalinismo, dei paesi e degli stati del "socialismo reale", ed è stata archiviata, con il loro crollo, come una sequenza di insuccessi e di orrori, riconosciuti dagli stessi capi del post-"comunismo" ufficiale alla Veltroni o alla Bertinotti. Un qualcosa di cui i lavoratori dovrebbero vergognarsi e pentirsi. E dopo la sequenza di abiure e cambi di casacche e di insegne degli anni ’80 e ’90, è arrivata quella che pretendeva essere la sentenza finale: la classe lavoratrice è una classe senza storia (una sentenza analoga fu emessa nei confronti dei popoli di colore, che poi, a suon di fucilate, l’hanno revisionata sul campo). Se mai il proletariato ha avuto una storia, essa appartiene interamente al passato, ad un’altra fase della società moderna, quella del capitalismo in formazione. Il presente e il futuro, invece, hanno un solo soggetto agente: il mercato. E dunque il capitale. A cui il lavoro è incorporato e subordinato ora e sempre.
La pretesa "fine della storia" di cui si è cianciato per anni altro non è stata che il voler mettere fine alla lotta di classe del proletariato, all’antagonismo di classe, al socialismo come alternativa storica al capitalismo. Un’omerica risata ha seppellito l’ukase ideologico di Fukuyama e dei burattinai che muovono il cervello di simili fantocci. E il bello è che non viene da noi comunisti, al momento davvero dei lillipuziani, impossibilitati perciò ad alcunché di omerico. Viene nientepopodimenoche da Wall Street, dai mercati globali. Lo stesso clintoniano R. Reich, un attimo prima che iniziasse il diluvio, notava: "il supercapitalismo sta fomentando sempre più il malcontento sociale". E l’Oil, ditta superspecializzata fin dal 1919 nello spaccio di vaselina, nei suoi ultimi rapporti sui salari globali e sulle disuguaglianze globali, ha ammonito: la polarizzazione sociale sta arrivando a livelli di guardia. Se non si è fuori dal mondo, è chiaro: il fuoco cova sotto la cenere. Questo è scontato.
Nient’affatto scontato, invece, è che l’immancabile ripresa dello scontro di classe abbia bisogno, un bisogno vitale, di "riscoprire", "recuperare", assimilare, far rivivere la grandissima storia del proletariato mondiale. Una storia di lotte e di organizzazioni di ogni tipo. Intessuta e illuminata, dalla metà dell’800 in poi, dalla dottrina marxista. Una storia lunghissima (potremmo datarla dal tumulto dei Ciompi a Firenze del 1378) di innumerevoli rivolte. E di rivoluzioni tentate e vittoriose, la Comune di Parigi del 1871 e l’Ottobre russo del 1917, che hanno fatto epoca. E continuano a farla molto tempo dopo la loro sconfitta, perché hanno mostrato di quali straordinarie innovazioni nei rapporti sociali siano capaci la classe lavoratrice e il suo partito, una volta al potere. Storia delle tre Internazionali operaie e proletarie, che tra il 1864 e il 1919 hanno tracciato il cammino per tutte le future generazioni di lavoratori e di comunisti, portando sulla scena della storia mondiale da protagonista la massa dei lavoratori comuni, gli "schiavi nati per esser schiavi". Una storia in cui è scritta a caratteri indelebili la critica materialista, onnilaterale del capitalismo. Della sua economia, della sua politica, della sua cultura, delle sue forze armate, della sua scienza, della sua arte. La critica corrosiva, rivoluzionaria di ogni forma di oppressione. Inclusa quella esercitata sulla natura non umana.
Una grandissima forza potenziale
Questa grande storia arriva fino ai nostri giorni. Sia attraverso la dottrina marxista che ricompare in scena con le sue fiammeggianti critiche e prospettive. Sia attraverso due propaggini "materiali" che in sé non sono né rivoluzionarie né comuniste, ma possono essere premesse di una rigenerazione del movimento di classe su nuove basi: l’enorme ingrossamento delle fila del proletariato mondiale prodotto dalle rivoluzioni anti-coloniali, di cui gli sfruttati sono stati una componente decisiva, e dalla espansione alla scala mondiale dei rapporti sociali capitalistici che ne è derivata; la resistenza, attiva e inerziale, che ha opposto il proletariato metropolitano all’offensiva neo-liberista.
Il capitalismo ha già conosciuto grandi, o importanti, crisi eccedenti le dimensioni nazionali: 1847, 1873, 1893, 1914-1918 (prima guerra mondiale), 1929, 1939-1945 (seconda guerra mondiale), 1974-1975. Uno dei principali elementi che distingue l’attuale crisi dalle precedenti è che essa si svolge in una società fortemente segnata, nel Nord e nel Sud del mondo, dal rapporto salariale. Oggi per la prima volta nella storia del modo di produzione capitalistico siamo in presenza di una classe operaia mondiale, di un proletariato realmente mondializzato, entrambi in espansione. Dal 1965 al 2007 la forza-lavoro mondiale è più che raddoppiata. Essa supera oggi i 3 miliardi di addetti (il 40% donne, il 60% uomini), di cui poco più di un miliardo sono occupati in agricoltura, un miliardo e 260 milioni nei cosiddetti servizi, 670 milioni nell’industria, e circa 190 milioni sono disoccupati (ufficiali). Nel 2008 è presumibile che altri 40 milioni di unità siano andati ad aggiungersi a questa massa. I salariati costituiscono l’85% della forza-lavoro totale nei paesi occidentali (e dell’Ocse); il 77% nei paesi dell’Est-Europa e dell’ex-Urss; il 62-63% in America Latina e Medio Oriente; il 59% nell’Africa del Nord; il 43% nell’Asia dell’Est; il 39% nell’Asia del Sud-Est; il 25% nell’Africa sub-sahariana.
Pur in un quadro di rapida espansione mondiale dei rapporti salariali, rimane uno scarto notevole tra le nazioni a più antico sviluppo capitalistico, quelle imperialiste in testa, e vastissime aree del Sud del mondo. In queste ultime, però, la grandissima parte dei non-salariati è costituita da contadini che sono sempre più oggetto di sottomissione reale alle transnazionali dell’agribusiness, delle quali stanno diventando dei salariati di fatto anche senza avere un rapporto di dipendenza formale da esse. Del resto i dati dell’Oil e dell’Onu parlano chiaro: nel mondo almeno 4 lavoratori su 10 sono poveri. I massimi livelli di povertà si trovano proprio nelle campagne o nei grandi slum urbani popolati da masse di contadini da poco espropriati. A scala planetaria, soprattutto nei continenti di colore, infatti, è in corso un arrembante processo di espropriazione e colonizzazione delle terre così intenso, che sta riuscendo ad assottigliare ulteriormente perfino la smilza popolazione contadina dei paesi ricchi.
E poi, benché sia una esagerazione e un errore parlare di scomparsa dei ceti medi (che sono anzi in forte espansione nei paesi emergenti), non c’è dubbio che da diversi decenni nei paesi occidentali, a cominciare dagli Usa, gli strati salariati delle classi medie conoscano un processo di (incompiuta) proletarizzazione, con la secca perdita di privilegi e di prestigio – per effetto tanto della rivoluzione elettronica che della "rivoluzione" neo-liberista. La polarizzazione dei redditi in atto su scala planetaria registra appunto i processi intrecciati di salarizzazione e proletarizzazione del mondo del lavoro, entro i quali c’è anche la riduzione progressiva dei piccoli produttori indipendenti e la loro crescente sottomissione alle mega-concentrazioni di capitale.
Lo stesso proletariato dell’Occidente, che specie nel secondo dopoguerra aveva messo un piede nei "paradisi" dei consumi di massa e delle istituzioni borghesi, in qualche misura de-proletarizzandosi, sta conoscendo uno strisciante processo di ri-proletarizzazione. Nell’accesso al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla sanità, alle libertà sindacali, alla vita politica i lavoratori occidentali sono oggi –se ci si passa la espressione- più proletari, più privi di riserve, più strutturalmente precari, più ai margini delle istituzioni, di quanto fossero ieri. E la grande estensione del lavoro di cura salariato segna, per le donne salariate, perfino un mezzo ritorno all’indietro a forme di lavoro "servile".
Una stridente contraddizione
A differenza, quindi, di tutte le grandi crisi del passato, inclusa la crisi rivoluzionaria degli anni 1917-1927, abbiamo oggi un forte e mondialmente espanso nucleo di 500 milioni e passa di operai dell’industria intorno a cui si addensa (sempre più concentrato nelle aree urbane) un esercito sterminato di proletari, salariati, semi-proletari, e di strati sociali in via di proletarizzazione, che attraversa longitudinalmente tutti i rami dell’attività sociale. La forza fisica del proletariato non è mai stata così grande. Il nostro numero non è mai stato altrettanto imponente. La diffusione del proletariato non è mai stata tanto ampia. E questa nuova situazione mette i proletari più coscienti nelle condizioni "pratiche" migliori per conquistare una "conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea", e per reagire, come Lenin esigeva, "contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza, della soperchieria, qualunque sia la classe che ne è colpita" da un punto di vista di classe, comunista, "e non da un punto di vista qualsiasi".
Il paradosso è che, a fronte di questo enorme rafforzamento strutturale del proletariato, a fronte di una sua riaffermata centralità nel processo produttivo sociale ben oltre i confini dell’industria, c’è oggi una sua "sconcertante" debolezza politica. Anche questa, però, può essere spiegata.
Per un secolo e mezzo il cuore e il centro direttivo dell’organizzazione del movimento proletario internazionale sono stati prima in Europa, poi in Europa e Russia. Qui è nato il comunismo, come dottrina e come organizzazione. Qui sono nati gli assalti al cielo della Comune e dell’Ottobre russo. E sempre qui il proletariato, sconfitto in campo aperto, ha conquistato, come sottoprodotto della sua lotta rivoluzionaria, un considerevole miglioramento della propria condizione materiale e un certo allargamento della sfera dei suoi diritti sociali e politici. E ha potuto conservarli anche grazie al fatto che per lungo tempo l’industria è stata dislocata pressoché esclusivamente in Occidente. Ciò ne ha accresciuto il potere di contrattazione nei confronti del "proprio" capitale. Lo sviluppo –e che sviluppo!- dell’industria fuori dall’Occidente tipico degli ultimi cinquanta anni, ha sempre più eroso questo potere perché ha esposto i lavoratori delle industrie occidentali alla concorrenza diretta dei lavoratori dei paesi del Sud del mondo, specie di quelli asiatici. Una concorrenza che è divenuta oggi esperienza (e "minaccia") quotidiana.
In assenza di un’organizzazione internazionale e internazionalista intenta a tessere le fila tra il "vecchio" e il nuovo proletariato, tra gli sfruttati e i supersfruttati. In presenza, al contrario, di organizzazioni politiche e sindacali fortemente segnate dalla adesione e dalla fedeltà ai rispettivi capitalismi nazionali (imperialisti). Era inevitabile che nell’era del turbocapitalismo si diffondessero tra i lavoratori occidentali sentimenti, pregiudizi, posizioni ostili verso i proletari dei continenti di colore, visti come concorrenti sleali, che "ci" rubano il lavoro, "ci" rovinano in quanto accettano condizioni che "noi" non avremmo mai accettato, e perciò da trattare senza troppi riguardi. Era inevitabile nascessero nuove forze borghesi di destra "sociale" pronte a raccogliere e capitalizzare i frutti del nazionalismo "operaio" e "progressista" seminato lungo tutto il ventesimo secolo dalle socialdemocrazie e dallo stalinismo. Ed è puntualmente accaduto con i vari Le Pen, Bossi, Haider e così via, e la consistente "affiliazione" operaia ai loro movimenti.
Da dove si riparte
Arriviamo dunque all’esplosione della crisi e ai colpi che si abbatteranno sull’intero proletariato alla scala mondiale, con un salariato diviso. Diviso anzitutto tra Nord e Sud del mondo. Diviso anche sul piano della psicologia collettiva.
I lavoratori dei paesi emergenti del Sud arrivano a questa svolta alquanto su di corda. Sia perché non sono ancora tanto lontane le loro rivoluzioni anti-coloniali, cui molto hanno contribuito e nelle quali i loro popoli si sono drizzati in piedi; sia perché hanno dentro la speranza, non ancora divenuta secca, di poter raggiungere le condizioni di esistenza dei lavoratori del Nord, una speranza che può concretizzarsi solo attraverso la erosione di spazi di mercato prima occupati dall’Occidente.
I lavoratori occidentali, invece, arrivano a questa svolta storica alquanto pessimisti, impauriti, ed anche incattiviti verso i propri fratelli di classe del Sud del mondo. Tuttavia, hanno saputo opporre una resistenza, ora attiva, ora passiva, all’offensiva neo-liberista, e preservare nel corso di essa un certo qual grado di organizzazione. Sicché si presentano oggi, nonostante tutto, più (non meglio) organizzati dei lavoratori del Sud del mondo. La lunga, lunghissima esperienza di organizzazione e di lotta, sia pure come classe in sé, classe della società capitalistica che non si propone di abbattere il sistema sociale capitalistico bensì di viverci dentro in modo dignitoso, non è evaporata. Si è trattato di una scuola di riformismo, di delega, di legalitarismo, di razzismo, è vero; in quanto tale ha prodotto incalcolabili danni alla causa della liberazione del proletariato. Ma al tempo stesso è stata – è una contraddizione reale - una scuola di organizzazione, di auto-difesa collettiva, di disciplina. A cui si rivolgono ancora oggi in massa, e non è un caso, anche i lavoratori immigrati. Nonostante che, ad esempio, la Afl-Cio statunitense o le Cgil-Cisl-Uil di casa nostra non brillino certo per spirito internazionalista. È solo per questo che fin dalla lotta dei minatori inglesi a metà anni ’80, il Che fare è stato dalla parte dei lavoratori che si battono per difendere le "proprie istituzioni" dall’aggressione distruttiva delle forze del capitale, e lo è tuttora. Senza mai nutrire la minima illusione sulla "ricuperabilità" e trasformabilità dei partiti e sindacati riformisti.
Si riparte, dicevamo, da una situazione di debolezza e di divisione. Da un sostanziale accodamento dei lavoratori alle rispettive nazioni borghesi. Da una inclinazione largamente diffusa, sia al Nord che al Sud del mondo, ad accettare una certa quota di sacrifici pur di cercare di "uscire al più presto dalla crisi". Ma quale che sia il grado di debolezza politica della classe lavoratrice, i lavoratori sono chiamati da subito a rispondere al salto di qualità dell’attacco capitalistico. Ai licenziamenti di massa, all’intensificazione del lavoro, alla brutale demolizione delle residue garanzie di welfare, all’istituzione di uno "stato di eccezione permanente" con un’agibilità politica ridotta al minimo, ai nuovi conflitti bellici in gestazione. Il capitalismo non potrà venire fuori da questa crisi se non con un balzo in avanti dello sfruttamento del lavoro, con una nuova svalorizzazione storica della forza-lavoro, con una nuova distruzione di massa dei mezzi di produzione eccedenti, con una nuova spartizione del mercato mondiale, con una nuova divisione internazionale del lavoro ancora più oppressiva per la gran parte dell’umanità lavoratrice. La terapia che hanno in agenda i poteri forti del capitale è una terapia shock. Che brucerà, crediamo, le attese diffuse tra i lavoratori di poter in qualche modo limitare i danni e uscire presto dal tunnel.
Le brucerà immediatamente? Non è detto. Potrebbe anche esserci un ulteriore allontanamento tra le due sezioni del proletariato mondiale, di cui vediamo –ahinoi- molteplici segnali proprio qui in Italia nella crescente distanza, diffidenza e anche conflittualità tra i lavoratori autoctoni e quelli immigrati. E tuttavia i lavoratori del Nord e del Sud del mondo potranno salvarsi dai flagelli delle politiche anti-crisi solo opponendosi uniti strenuamente a esse. Solo formando un fronte unito di classe a scala mondiale contro il capitale globale, contro i licenziamenti, contro la povertà, per ridurre gli orari (e in subordine per il salario garantito a tutti i disoccupati e i precari). Potranno salvarsi dalla rovina solo rifiutandosi insieme di accettare la generalizzazione planetaria del "modello Wal-Mart", solo rifiutandosi di farsi stritolare nella competizione fratricida a chi si vende più al ribasso, e allacciando rapporti con i lavoratori delle altre nazionalità.
Questo rifiuto a cui da subito sono chiamati i proletari di avanguardia avrà due motivazioni iniziali diverse, ma che possono in prospettiva convergere.
I proletari del Nord possono dire: abbiamo già pagato. Sono trenta anni (per non rivangare il passato più lontano) che stiamo pagando. Magari poco alla volta, ma siamo andati indietro, questo è certo. E non c’è stata nessuna uscita dalla crisi, anzi. Il prezzo che ora ci volete far pagare, per la vostra anarchia, per la vostra brama di profitto, per le vostre speculazioni, è davvero esorbitante. Basta!
A loro volta i proletari del Sud, specie nei paesi emergenti, possono dire: abbiamo contribuito con le nostre armi, il nostro sudore e il nostro sangue allo sviluppo del paese. Neppure abbiamo iniziato a veder migliorare la nostra esistenza, e già volete tagliarci i salari, l’occupazione e tutto il resto, mentre i nostri ricchi diventano sempre più ricchi? Dobbiamo forse accettare, come risultato della espansione delle "nostre" economie, che torni a infestarci la povertà e la fame? No, non ci stiamo.
Ha scritto Trotzkij che i popoli vanno alla rivoluzione come vanno alla guerra: controvoglia. Si può dire la stessa cosa anche per le grandi battaglie che si annunciano. I lavoratori del Nord e del Sud vi sono tirati per i capelli. Desidererebbero evitarle. Ma non potranno evitarle. A meno di accettare di essere travolti dalla valanga. Gli piaccia o meno, gli uni e gli altri sono chiamati alla lotta, quale unica arma di difesa. Sono chiamati, nella lotta e attraverso di essa, per erigere un reale argine difensivo, ad affrontare una serie di nodi politici e di politica mondiale che li spingerà a sganciarsi dalle rispettive borghesie, a ritrovare la propria completa autonomia.
I nodi da sciogliere
Uno dei nodi da sciogliere per i lavoratori occidentali è quello del rapporto con i lavoratori immigrati e gli sfruttati delle "periferie". Una delle carte che i capitalisti e i governi euro-atlantici hanno in mano è quella di deviare contro questi ultimi la rabbia dei lavoratori occidentali. È quella di rinfocolare l’illusione tragica che i proletari occidentali possano parare i colpi della crisi collaborando con i propri stati per scaricarli sui fratelli di classe dell’Est e del Sud del mondo. Tragica perché, tra l’altro, questi ultimi non accetteranno passivamente di diventare gli agnelli sacrificali. Non lo fecero neanche quando, secoli fa, i rapporti di forza con le forze del proto-capitalismo europeo erano sbilanciati nettamente a loro sfavore. Non lo faranno oggi. E questa volta più che nel passato sarà vero che, collaborando a schiacciare i popoli e i proletari dell’Est e del Sud del mondo, i lavoratori occidentali collaboreranno a schiacciare se stessi, a riservare a sé un destino di barbarie. Guardiamo agli ultimi venticinque anni: quali ritorni ci sono stati per i lavoratori occidentali delle guerre contro l’Iraq e contro la "ex"-Jugoslavia?
Un altro nodo, legato a quello precedente, è quello dell’intreccio delle lotte, inevitabilmente all’inizio locali e nazionali, in un fronte di lotta internazionale. Gli stessi organismi burocratici e collaborazionisti che più burocratici e collaborazionisti non si può –vedi la Cisl internazionale riunita a latere del G-20 a Washington- sono costretti a riconoscerne l’internazionalità dei problemi con cui i lavoratori e le loro organizzazioni debbono confrontarsi. Il tema, ammettono, è quello dei "mercati globali", degli "squilibri dell’economia globale", della "esplosione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito". Parziale, ma giusto. Peccato però che la "soluzione" che la Cisl prospetta, ovvero "un sistema [capitalistico] maggiormente inclusivo, equo e democratico per il governo dei mercati globali", sia solo una foglietta di fico rispetto alle manovre e ai progetti di "riforma" dei governi occidentali e delle loro intenzioni di stringere in una morsa ancora più soffocante i proletari delle "periferie".
La necessità di una risposta di classe organizzata a livello internazionale emerge anche da molti altri "episodi": la fusione tra la Unite britannica e la United Steelworkers statunitense, la più grande fusione sindacale internazionale degli ultimi decenni; il congresso mondiale dei lavoratori dell’auto, i coordinamenti internazionali dei lavoratori Fiat o Ford, dei ferrovieri europei, dei sindacati dell’Est. Emerge da più lati, dall’alto e dal basso, l’esigenza di coordinare sul serio la difensiva di classe sul piano internazionale e di interrompere la concorrenza reciproca che porta acqua solo al mulino del capitale. E di questo effettivamente si tratta. Ma queste prime forme di coordinamento delle lotte a livello transnazionale non vanno oltre, in genere, un internazionalismo declamato (se va bene). E sembrano finora andare spontaneamente più nel senso Nord-Nord (vedi il comunicato dei sindacati parallelo al G-20, e la sua "indifferenza" verso lo scaricamento sul Sud del mondo dei maggiori costi della crisi), o Sud-Sud (anche a rimorchio della progettata "cooperazione Sud-Sud" tra gli stati), che in un senso trasversale al Nord e al Sud. Salvo, forse, l’esperienza di grande interesse di Via campesina, il raggruppamento che riunisce le organizzazioni dei contadini e dei braccianti dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia e degli stessi paesi capitalistici avanzati.
Un altro nodo è quello delle prospettive che è chiamata ad assumere la resistenza dei lavoratori di fronte all’offensiva, articolata e gerarchizzante, del capitale. Gli stessi dirigenti dei grandi poteri capitalistici e degli stati imperialisti affermano ora che l’economia mondiale richiede una supervisione, un sistema di regole per evitare che essa sprofondi nel caos, come sta avvenendo. Ma di quali regole si tratta? di nuove regole fatte a pennello sulle necessità dei capitalisti, che dopo una nuova folle corsa produttivistica facciano piombare i lavoratori e l’umanità nella sovrapproduzione, nell’anarchia, nella crescente insicurezza, nella spoliazione della vita umana? Se non si vuol trasformare le moderne tecnologie produttive in mezzi di imbarbarimento e distruzione della vita umana, questa nuova regolamentazione può consistere solo in un piano mondiale di uso delle risorse naturali, dei mezzi di produzione, della scienza in funzione dei bisogni dell’umanità lavoratrice. La crisi in corso sta mettendo a nudo la natura del sistema sociale capitalistico. Il suo carattere decrepito. La impossibilità di riformarlo, di "umanizzarlo". E sta rimettendo in gioco il socialismo. La rivoluzione socialista. La grande sfida che è davanti al proletariato è questa: regolare i conti una volta per tutte con il capitalismo, demolirne il potere e avviare la trasformazione rivoluzionaria del mondo da esso creato in direzione del socialismo. Riprendere il grande lavoro "interrotto" quel dì.
Naturalmente, non pensiamo ad un salto unico dalla situazione difficile, molto scoordinata di oggi ad una situazione di crisi pre-rivoluzionaria. Ci vorrà un cammino, un percorso, in cui si dovranno bruciare le illusioni circa una soluzione abbastanza indolore, o preferibile, che i poteri capitalistici possono "offrirci". E si dovrà sperimentare la necessità, la inevitabilità di accettare, e condurre fino in fondo, uno scontro "per la vita e per la morte" la cui posta in gioco è la guerra tra proletari, o la guerra rivoluzionaria alla classe sfruttatrice. In questo cammino i lavoratori dovranno dotarsi, e veniamo ad un altro decisivo nodo, di un’organizzazione politica e sindacale adatta allo scontro.
Nei violenti scontri che ci attendono per un lungo periodo, è giocoforza che i proletari partano con le organizzazioni che ci sono oggi. Esse lasciano tutte a desiderare dal punto di vista della coerente difesa degli interessi di classe. Siamo certi, però, che proprio la violenza di questi scontri provocherà un cambiamento radicale del panorama sia delle forze borghesi che di quelle proletarie. La fuoriuscita del proletariato dalla sua attuale depressione politica avverrà per salti, poiché poggia su basi materiali enormemente esplosive e perché i grandi poteri capitalistici faranno ricorso a tutti i mezzi per soffocarne sul nascere la ripresa. Questa ripresa avrà bisogno di una forte componente di spontaneità. Il risultato finale sarà la nascita di un nuovo movimento operaio, composto realmente di proletari di tutte le razze e di tutti i colori, effettivamente mondiale, nel quale si intrecceranno più strettamente che mai la lotta di classe delle metropoli e la spinta anti-imperialista delle "periferie"; composto finalmente di sfruttate non meno che di sfruttati, nel quale si fonderanno la lotta contro l’oppressione nei luoghi di lavoro con la lotta contro ogni altra forma di oppressione; un movimento in cui sarà più raccorciata che mai la distanza tra l’auto-attività delle masse lavoratrici e l’attività di partito, la pratica anti-capitalista e la dottrina comunista; un movimento teso a riconquistare l’integralità del programma comunista e la sua natura internazionalista.
Non avrebbe senso tentare di prefigurare qui i successivi passaggi di questo cammino. Ci limitiamo solo a porre una questione fondamentale. Affinché le divisioni tra proletari prodotte da secoli di sfruttamento capitalistico differenziato possano davvero essere superate in avanti bisogna che sin da ora nel movimento operaio sia fatta vivere una simile necessità e venga posta la questione della riconquista di un proprio nuovo partito comunista. Questa infatti è l’altra forte componente di cui la ripresa di classe avrà bisogno per poter ergersi all’altezza della sfida. Il capitalismo internazionale, nel mentre vede acuire la concorrenza tra i suoi componenti, è al tempo stesso sempre meglio organizzato contro i lavoratori e deciso ad imporre il proprio programma di conservazione sociale. Per questo è indispensabile che il proletariato si doti di un proprio organo politico attraverso il quale riconquistare la prospettiva storica della distruzione del capitalismo e della "costruzione", sulle sue ceneri, di una società radicalmente alternativa e diversa. Quella comunista.
Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA