Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
Come si è arrivati al crack finanziario
Stringiamo.
Nel rilancio capitalistico legato alla globalizzazione finanziaria c’è stato, rispetto al ciclo precedente, un grandissimo aumento della massa dei profitti, soprattutto a causa dell’aumento della forza-lavoro impiegata produttivamente a scala mondiale e dell’abbassamento del suo valore medio di mercato. Vi è stata anche una crescita importante del saggio di sfruttamento della forza-lavoro (misurabile attraverso la parte dei salari nel reddito nazionale) a misura che il lavoro è diventato più denso, più intenso, più veloce, più prolungato. Ma non si è verificato un incremento corrispondente del saggio di profitto, proprio per la ragione esposta in generale da Marx. Ossia perché questo ciclo, questo insieme tormentato di più cicli accumulativi brevi, è partito da una base tecnica e organizzativa molto evoluta, capace di ridurre in partenza al minimo l’impiego di forza-lavoro. Non vi è più spazio, oramai, per gli altissimi saggi di profitto della fase iniziale dello sviluppo capitalistico, quando la produzione di merci si svolgeva con tanto lavoro vivo e poche macchine. Né vi è stato spazio, in questi ultimi trenta anni, per i miracoli che il saggio di profitto ha fatto nelle due guerre mondiali e negli immediati dopoguerra (benché non siano mancate certo le guerre "locali", anzi!). Così, negli ultimi 25 anni il saggio di profitto è risalito rispetto al suo punto minimo del 1982, ma in tutte le ricostruzioni che sono a disposizione, non si è mai impennato, e secondo quasi tutte le stime si è mantenuto sempre lontano dai livelli raggiunti negli anni ’40, ’50 e ’6011. E perciò né il grandissimo allargamento del mercato realizzatosi con l’integrazione dei paesi usciti dal colonialismo storico, né lo sfondamento ad Est successivo al 1989, né l’ingresso diretto del capitale privato in settori prima preclusi, in qualche misura, alla legge del profitto, sono riusciti ad assicurare una adeguata profittabilità e adeguati sbocchi di mercato ai capitali investiti nella produzione di macchine, di materie prime, di merci di uso corrente.
A ridurre le distanze tra il vulcano della produzione e la palude del mercato, tra i profitti realizzati e quelli attesi/sperati, a ritardare l’emergere della sovrapproduzione di capitali e di merci, è stato in questi trenta anni anzitutto un costo del denaro che dai primi anni ’80 in poi ha conosciuto, specie per quello che riguarda la Federal Reserve statunitense, una curva discendente a precipizio (ciclico), dal tasso del 18% al 1982 fino a quello dell’1% di oggi. La politica espansiva di Greenspan ha fatto perno spregiudicatamente sul ruolo-chiave riservato al dollaro anche dopo la dichiarazione di inconvertibilità, spingendo tanto le imprese, che "lavorano" di solito con capitali presi a prestito, quanto le "famiglie", a indebitarsi. Altrettanto importante la funzione del pubblico indebitamento, che è stato messo sì "sotto controllo", specie in Europa, ma senza cessare di salire a picchi sempre più stratosferici: si pensi all’impennata della spesa bellica statunitense dopo il 2001 (12). Questo doppio pompaggio di moneta è stato, però, sempre meno in grado di tamponare il contrasto tra produzione crescente e consumi in affanno, e di assicurare ai capitali investiti i profitti attesi. Per effetto di queste crescenti contraddizioni, masse sempre più smisurate di capitali hanno preso la scorciatoia della speculazione, hanno tentato di accrescersi fuori dalla produzione in operazioni di borsa e di banca sempre più spericolate. Non solo i giovani gangster di borsa degli Hedge Funds e simili, anche gli squali delle vecchissime banche e i manager di attempate imprese manifatturiere (13), quelle che –a stare ai Feltri, ai Rossi, ai Tremonti- saprebbero solo "produrre cose ben fatte", si sono buttati a corpo morto su ogni specie di marchingegno finanziario "ingegnoso" capace di far guadagnare a breve o brevissimo termine. E’ stato un crescendo di scommesse sui profitti futuri, sui lavoratori di domani e di dopodomani, mentre si continuavano a spellare quelli di oggi (nella produzione e fuori). Ne è nata così la più grande bolla finanziaria della storia, composta da una molteplicità di bolle tra loro concatenate: "una bolla del valore degli immobili, una bolla dei mutui, una bolla nei mercati azionari, una bolla dei titoli obbligazionari, una bolla del credito, una bolla nel settore dei fondi di investimento e una bolla in quello degli Hedge Funds" (così Nouriel Roubini su la repubblica del 15 ottobre).
Alla formazione di questa catena di bolle ha contribuito negli ultimissimi anni un certo risveglio di lotte rivendicative, sul salario anzitutto, in Cina, nei paesi dell’Est Europa, in America Latina. In Cina la crescita media dei salari è stata, nell’ultimo biennio, di circa il 20%, inferiore alla crescita sia della produzione che della produttività, ma decisamente "eccessiva" rispetto alle attese degli investitori occidentali. Nei paesi dell’Est Europa e nella Russia le piattaforme di azione di singole fabbriche a capitale multinazionale hanno posto obiettivi salariali perfino superiori, mettendo in discussione la certezza degli imprenditori europei (quelli italiani e padani in prima fila) di avere trovato un Eldorado alle porte di casa in lavoratori ben qualificati pronti ad accettare rapporti di semi-schiavitù. Pure in America Latina le cose si sono mosse in questa direzione; anche – in questo caso – per la ricaduta di politiche nazionali un po’ meno prone ai diktat di Washington e della stessa Unione Europea. Intendiamoci: in nessuna di queste aree il capitale transnazionale si è trovato di fronte ad un crollo verticale dei propri profitti, a una grande insubordinazione operaia, ma la sola prospettiva di una limatura, o di una decurtazione, dei favolosi extraprofitti degli anni precedenti ha spinto gli "investitori internazionali" a dirottare altrove, sui mercati finanziari, le loro masse di liquidi. Alla ricerca famelica di ritorni immediati sempre più alti.
Quando questa frenesia incontenibile di facili guadagni illimitati si è catalizzata anche sulle materie prime facendo schizzare il prezzo del petrolio fino a 148 dollari a barile (luglio 2008) e crescere di più del 100% in pochi mesi quelli di riso, grano, mais; quando il dollaro ha preso a deprezzarsi molto più delle aspettative; quando, per effetto di tutti questi fattori, i costi medi di produzione hanno avuto un improvviso rialzo; e quando infine alcuni milioni di famiglie statunitensi non hanno più potuto (e voluto) sobbarcarsi nuovi sacrifici per pagare i propri mutui-casa e si sono arrese ai propri usurai; ci sono stati abbastanza detonatori in funzione perché il castello di carte della finanza creativa saltasse per aria, e venisse alla luce la sottostante crisi produttiva, i cui segni erano peraltro evidenti anche prima del crash delle borse.
Può darsi che il colpo di grazia sia stato assestato intenzionalmente, per ragioni interne e internazionali (non dare troppo tempo alla Cina, alla Russia, ai paesi produttori di petrolio e di gas per rafforzarsi) proprio dalla Federal Reserve, con l’improvviso rialzo del costo del denaro tra il 2006 e il 2007. Può darsi, invece, che quello sia stato il tentativo tardivo di frenare un meccanismo ormai "impazzito" senza volerlo far andare in pezzi. Fatto si è che nell’ottobre 2008 con il crollo di Wall Street siamo stati scaraventati tutti, i lavoratori per primi, in un uragano che già ha spazzato via al momento in cui scriviamo (inizio dicembre 2008) quasi due milioni di lavoro nei soli Stati Uniti, portato al default o sull’orlo di esso interi stati, creato le condizioni perché altri 100 milioni di persone, se non di più, vengano sprofondate nella povertà… ed è appena l’inizio.
12) Il debito pubblico statunitense era pari a circa il 90% del Pil nel 1950, fu abbattuto fino a circa il 35% all’inizio degli anni ’80, salì in verticale con Reagan e il primo Bush fin quasi a sfiorare il 70%, per scendere di nuovo sotto il 60% con la seconda presidenza Clinton e sfondare il tetto del 70% del Pil a novembre 2008. Tra il 2001 e il 2008 il debito nazionale statunitense si è quasi duplicato, passando da 5,7 trilioni di dollari a oltre 9 trilioni di dollari (un trilione è pari a 1.000 miliardi di dollari).
13) Negli ultimissimi anni General Motors, Ford e Chrysler hanno fatto più profitti con le proprie attività di credito, finanziando l’acquisto dei propri veicoli, che con la propria attività industriale (cfr. Limes, n. 5-2008, p. 40).
Skoda , Cechia: i lavoratori in sciopero rivendicano consistenti aumenti salariali e li ottengono
Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
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