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Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

I Balcani dell’Asia: le riserve di idrocarburi e i corridoi di trasporto

Una delle cause dello scontro militare in Georgia è: 1) il controllo dell’estrazione del gas e del petrolio dell’Asia centrale, 2) il controllo delle vie che portano le due materie prime verso i paesi consumatori. Si i calcola che la zona possieda il [60: controllare, v. Limes e annuario Bp] % delle riserve mondiali di gas e di petrolio. [Cartina] Da anni gli Usa e l’Ue sono preoccupati di sottrarre alla Russia il ruolo di imbuto degli idrocarburi dall’Asia centrale verso l’Europa e di impedire che la Cina stabilisca un collegamento diretto con i produttori dell’Asia centrale.

Dopo la tessitura di ampi legami economici e militari da parte dell’Occidente capitalistico con le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e l’occupazione neo-coloniale da parte della Nato dello snodo strategico dell’Afghanistan, l’apertura nel 2006 dell’oleodotto BTC è stato un punto di svolta nella realizzazione del progetto imperialista. Patrocinato dagli Usa e controllato finanziariamente dalla British Petroleum (con partecipazione Eni), l’impianto collega Baku a Ceyhan (porto di imbarco verso l’Europa e l’Oriente) attraverso il territorio georgiano senza passare per la Russia.

Gli Usa intendevano mettere al sicuro la partita con altre due opere: da un lato, l’apertura di un secondo oleodotto in grado di portare il greggio del Caspio direttamente in Europa continentale attraverso la Georgia, il mar Nero, le filo-occidentali Romania e Ungheria; dall’altro lato, la costruzione di un gasdotto da Baku alla costa adriatica attraverso la Georgia, la Turchia, la Grecia e gli stati "amici" dei Balcani. In alternativa, era presa in considerazione anche la costruzione di un collegamento (per il gas e per il petrolio) da Baku attraverso la Georgia e il mar Nero alla rete ucraina e, attraverso di essa, a quella polacca, se si fosse riusciti ad incorporare l’Ucraina nel blocco occidentale. Dalla sua la Russia di Putin poteva vantare in quegli anni solo l’accordo con la Germania per la costruzione di un gasdotto (il North Stream) dalla Russia settentrionale all’Europa del Nord attraverso il Baltico, bipassante i paesi dell’Europa dell’Est.

A scompigliare questi progetti, che i burattinai occidentali e i loro burattini locali credevano già quasi realizzati, è intervenuta la Russia di Putin. Nella primavera 2007, Putin ha siglato con l’austriaca Omv l’ingresso della Gazprom nel controllo dell’hub gasifero alle porte di Vienna. Qualche giorno dopo ha stretto un accordo con il Kazakhastan e il Turkmenistan per modernizzare e ampliare i gasdotti esistenti dall’Asia centrale verso l’Europa occidentale attraverso la Russia e per instradare le rispettive quote di idrocarburi diretti in Estremo Oriente in un comune condotto passante per la Siberia. Non è finita qui. Putin ha stretto un accordo con la Bulgaria e la Grecia per la costruzione del cosiddetto "oleodotto ortodosso", capace di trasportare sulle coste del Mediterraneo il petrolio russo e dell’Asia centrale senza il passaggio attraverso gli stretti di Dardanelli, ultra-intasati e sotto il controllo di un membro della Nato, la Turchia. Contemporaneamente la Russia di Putin ha esteso la rete di controllo della Lukhoil nei Balcani e ha dato avvio alla realizzazione di un nuovo gasdotto verso l’Europa mediterranea passante per il mar Nero e i Balcani (il South Stream) in modo da ridurre l’influenza dell’Ucraina e della Polonia nelle proprie esportazione. Il South Stream fa il paio con il North Stream e le due infrastrutture insieme permetterebbero alla Russia di ridurre drasticamente l’influenza dei paesi dell’Est nelle proprie esportazioni di gas verso l’Europa. Negli accordi stretti con le ex-repubbliche sovietiche e gli ex-alleati nei Balcani, a differenza della nebulosità delle promesse occidentali, la Russia ha fatto valere aiuti sonanti finalizzati allo sviluppo di industrie ed infrastrutture (anche nucleari) importanti per l’economia del Kazakhstan, della Bulgaria, della Serbia. Non bastasse tutto ciò, la Russia ha intavolato trattative con l’Iran e il Qatar per la costituzione di un’Opec del gas e la costruzione di un gasdotto capace di convogliare verso la sponda mediterranea il gas del golfo di Guinea. Ciliegina sulla torta è arrivata, infine, la presa di possesso da parte dei sommergibili di Putin del fondo dell’oceano Artico, scrigno di idrocarburi e prossima frontiera dell’esplorazione.

Di fronte a questa ampia manovra difensiva russa, gli Usa hanno cercato di reagire per spezzarle le gambe. La secessione del Kosovo, il rilancio della "rivoluzione arancione" in Ucraina e la guerra georgiana sono nati anche per le ragioni legati allo scontro sugli idrocarburi. Ma i risultati per gli Usa sono stati magri o controproducenti. La prima mossa ha permesso alla Russia di consolidare i legami con la Serbia. La seconda di tessere con la Timoshenko, leader ucraino ex-filo occidentale. La terza di costringere tutti a prendere atto che l’era Eltsin è alle spalle.

Per l’Occidente diventa ancor più urgente recuperare, con un’aggressione o un accordo, il corridoio iraniano-afghano dall’Asia centrale al mar Indiano oppure blindare dalle instabilità pakistane e iraniane la via di collegamento tra India e Afghanistan. Anche per arrivare ad un accordo con la Russia, ridotta però a più miti consigli e inglobata entro l’alleanza euro-atlantica.

Dal Dossier del Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

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