Dal Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
La sorte riservata dal capitalismo al popolo rom
È un dato di fatto che nell’ultimo anno in Italia si è assistito ad una escalation di violenza mai registrata prima contro i lavoratori immigrati. Con l’azione del governo Berlusconi il razzismo italiano ha infatti compiuto un autentico balzo in avanti.
Ciò che è cambiato rispetto alle precedenti politiche anti-immigrati non sono ragioni di fondo, bensì ad essere mutata è la gravità dei nuovi attacchi, la loro organicità ad un unico, seppur articolato, disegno politico e la sbandierata sicurezza nel far ciò da parte dell’attuale governo. Una sicurezza che non è semplicemente legata all’ampia maggioranza numerica dei seggi parlamentari ma è da ricondurre, ed è bene non nascondercelo, ad un vasto consenso sul punto tra le classi medie e quelle lavoratrici e alla crescente affermazione degli ideali (in)securitari tra gli stessi partiti della "opposizione", all’interno dei quali una certa attitudine à la Gentilini non è più un’eccezione. Una sicurezza che deriva anche, indirettamente, dalla stessa campagna mediatica sulle aggressioni razziste che si sono susseguite in un crescendo in questi ultimi mesi. La puntuale e quotidiana pubblicità ha finito infatti per essere sempre meno una denuncia del razzismo imperante e sempre più una campagna di intimidazione contro gli immigrati, che, se non rigano dritto, possono essere rimessi al proprio posto, in qualsiasi momento, dai vicini italiani, dai compagni di banco italiani, dai colleghi di lavoro italiani. Soprattutto si è trasformata nel migliore spot per le politiche razziste del governo: attraverso questa quotidiana pubblicità è stato infatti possibile socializzare l’idea che gli italiani, al fondo, non sono altro che della brava gente razzista, e che quindi al governo non rimane che ascoltarne i profondi umori.
In tal senso la campagna anti-rom è stata al contempo un banco di prova ed il segnale d’inizio di questa nuova fase. Nella storia italiana ed europea le politiche discriminatorie e persecutorie contro le popolazioni rom non sono di certo una novità. Costretti in schiavitù, deportati, marchiati a fuoco o mutilati, incatenati, giustiziati o privati dei figli, i rom sono sopravvissuti alla "civiltà" europea fondendosi con il resto delle classi popolari o arroccandosi sempre più in attività economiche che, continuamente erose dallo sviluppo capitalistico, li hanno spinti in una impietosa spirale di marginalizzazione.
Questo processo non si è svolto linearmente e congiuntamente su tutto il continente ma è stato dettato, volta per volta, dalle diverse dinamiche di sviluppo del capitalismo su scala nazionale e regionale. Ecco perché la presenza dei rom è ancor oggi concentrata per più del 60% nell’area carpato-balcanica, mentre nei paesi dell’Europa occidentale superano raramente lo 0,5% della popolazione globale. Dove prima si è sviluppata l’industrializzazione e l’organizzazione statuale moderna, maggiormente si è avuta la fusione, e quindi la dispersione, della popolazione rom nel resto della società. La maggioranza dei rom, infatti, ha intrapreso, coerentemente con le condizioni economiche in cui erano inseriti, l’abbandono del nomadismo già prima della Seconda guerra mondiale. Oggi, più dell’80% delle popolazioni rom dell’Europa occidentale risulta sedentaria.
Da cosa trae origine, quindi, il dibattito sulla tolleranza zero contro i rom, chi vive nei cosiddetti campi nomadi e perché vi è una palpabile ostilità diffusa nei confronti di queste popolazioni?
La risposta a queste domande è legata soprattutto alla trasformazione che ha investito i paesi dell’Est Europa dopo il 1989. Il collasso delle economie del cosiddetto "socialismo reale" ha infatti privato i proletari dell’Europa Orientale di tutta una serie di tutele sociale e ciò, ovviamente, ha avuto le conseguenze più disastrose soprattutto sugli "ultimi" tra gli ultimi, cioè le popolazioni Rom.
In paesi come la Jugoslavia poi (pur senza poter parlare del raggiungimento di una vera e diffusa "integrazione") è innegabile che si siano raggiunti importanti obbiettivi per quanto riguarda la sedentarizzazione e l’inserimento lavorativo in ambito industriale, come anche rispetto alla scolarizzazione e alla partecipazione all’attività politica e sindacale. Tutto questo non solo ad opera delle politiche governative, ma anche grazie all’associazionismo e all’attivismo rom che fiorirono nella prima metà del novecento e alla loro "entusiastica partecipazione", come ebbe modo di dire Tito, alla lotta partigiana durante la Seconda guerra mondiale.
Questo processo ha avuto un violento punto d’arresto e di inversione con la devastazione militare ed economica del paese balcanico operata dagli arieti finanziari e militari del capitalismo occidentale. Il neocolonialismo targato Usa e UE, infatti, oltre che garantire libertà di saccheggio alle proprie aziende, ha ovunque minato coscientemente e sapientemente tutti quei legami solidaristici che si erano andati costituendo tra le diverse popolazioni dell’Europa Orientale. Le popolazioni rom si sono trovate così risospinte nel passato, private di servizi pubblici basilari, espulse dal ciclo produttivo e dalla rappresentanza politica, sfrattate dalla speculazione edilizia, scacciate dalla crisi economica così come dalle armi della disgregazione jugoslava. Tutto questo i rom lo hanno vissuto, ed è bene sottolinearlo, congiuntamente ai loro connazionali rumeni, bulgari, bosniaci o macedoni. Ed esattamente come i loro connazionali hanno tentato di risollevare le proprie condizioni di vita emigrando verso il ricco Occidente. I 16.000 rom jugoslavi giunti in Italia tra il 1992 e il 2000 non sono quindi una conferma alla propensione culturale o genetica al nomadismo. Così come non lo sono nemmeno i 50.000 rom che hanno abbandonato la disastrata Romania per l’Italia. Essi sono stati invece costretti, al pari di milioni di altri lavoratori immigrati, ad abbandonare i propri paesi di provenienza a causa delle condizioni di vita e di lavoro che il capitalismo ha imposto loro attraverso guerre e devastazioni economiche. La questione rom non è quindi una questione a sé stante ma è parte integrante del più vasto processo delle migrazioni internazionali.
Il capitale ne è lucidamente cosciente. Le dichiarazioni "anti-zingari" sono intrinsecamente dichiarazioni anti-immigrati. Il dibattito sorto in seguito all’omicidio Reggiani ne è una prova lampante e il pogrom contro il campo di Ponticelli non è stato altro che l’ouverture per la strage di Castelvolturno. L’equiparazione diffusa nei giorni seguenti al delitto Reggiani tra NOMADI – ROM – RUMENI – IMMIGRATI non è solamente un chiaro tentativo di strumentalizzare l’emotività pubblica per colpire ancora una volta l’insieme dei lavoratori immigrati, ma è anche la grezza schematizzazione di una realtà.
Al contempo attraverso l’amplificazione e, spesso, la distorsione della questione rom, lo stato ha potuto giustificare ulteriormente l’attacco in atto contro tutta la marginalità sociale. La campagna contro le popolazioni rom s’inserisce infatti in un quadro di misure disposte appositamente per attaccare ed isolare tutte quelle componenti marginalizzate del proletariato e ritenute non più o difficilmente inseribili nel sistema dello sfruttamento salariato. Le ordinanze contro i lavavetri, la richiesta di redditi "adeguati" per ottenere la residenza, le norme anti-accattonaggio, ne sono solamente un rapido assaggio. Tutto questo, naturalmente, in previsione di un inevitabile allargamento sociale della marginalità. In quest’ottica il dibattito sui campi nomadi si rivela così in tutta la sua pretestuosità. Li si descrive come inaccettabili esempi ed amplificatori del degrado urbanistico, sociale, morale. Ed è così, non serve a nulla nascondercelo. Ma allo stesso tempo si tace su come siano state proprio le istituzioni a realizzarli, a produrre l’illegalità che li contraddistingue, a generare la marginalità che li domina. Nella realtà, infatti, i campi nomadi non sono altro che degli strumenti istituzionali atti a segregare le popolazioni rom immigrate ed a negare loro ogni forma di sedentarizzazione. La mancanza di strutture igieniche, il mancato collegamento alla rete idrica e alla rete elettrica, l’ubicazione periferica e malsana del campo stesso, gli abusi delle forze dell’ordine, la distruzione periodica delle roulottes e delle baracche, la sottomissione ai regolamenti dei campi non fanno altro che negare ai rom ogni possibile processo di stabilizzazione abitativa, lavorativa, scolastica. "Che i campi nomadi si spostino di paese in paese ogni 7-15 giorni" ha tuonato lo scorso maggio l’ex ministro per la Giustizia Clemente Mastella. Altro che progetti d’inserimento scolastico! Altro che programmi di stabilizzazione abitativa! Altro che percorsi professionali!
Il risultato di tali condizioni di vita nei campi è drammatico: meno del 3% dei rom superano i 60 anni, i tassi di morbilità, l’analfabetismo e la disoccupazione sono attestati su livelli incomparabilmente più alti rispetto al resto della popolazione italiana ed immigrata, mentre l’accesso al lavoro è per forza di cose ristretto ad occupazioni irregolari e temporanee. E naturalmente in queste condizioni non possono che proliferare il furto e l’accattonaggio. Ma come potrebbe essere altrimenti? La marginalità alimenta la microcriminalità e l’auto-degradazione, per i rom come per chiunque altro.
Non si tratta di negare il degrado che attanaglia questi uomini e queste donne. Si tratta invece di svelare i meccanismi e le dinamiche che il capitale e lo stato hanno utilizzato per sottoproletarizzare una specifica componente della popolazione immigrata, e di rendersi finalmente conto che questa medesima spinta alla marginalizzazione sta incubando tra gli strati più bassi della classe lavoratrice. Il pugno di ferro che oggi lo Stato sta esercitando contro le popolazioni Rom e le fasce meno "integrate" tra le popolazioni immigrate è destinato a colpire tutti coloro che la mano invisibile del mercato lascerà senza un lavoro, senza una qualsiasi fonte di reddito, senza un qualsiasi appoggio. Questo processo, conseguenza dell’accelerazione della crisi economica mondiale, non può che portare ad ulteriori fratture in seno alla classe. Si tratta quindi di intraprendere un cammino di ricomposizione di classe, rigettando ogni tentativo di "naturalizzare" le fratture che continuano a minare l’unità del proletariato internazionale.
Non cogliere le aspirazioni emancipatrici, non essere a fianco delle popolazioni rom nelle loro ancor frammentarie, seppur chiare (si vendano ad esempio le mobilitazioni di Milano o l’attivismo di associazioni come il Comitato Rom Sinti Insieme), rivendicazioni per la casa, per il lavoro, per la scuola significherebbe non rafforzare le nostre stesse rivendicazioni. Giustificare o sopportare i "campi nomadi" così come sono organizzati, significherebbe condannare una parte del nostro stesso esercito proletario di riserva alla ghettizzazione, alla microcriminalità, al lavoro nero. Non attrezzarsi per contrastare l’aumento dell’ostilità verbale e fisica nei confronti delle popolazioni rom significherebbe concedere, ancora una volta, al capitale di poter sviare la nostra sacrosanta rabbia proletaria dal suo percorso, convogliandola in degenerazioni razziste e nazionaliste. Ovvero, in altre parole, contro noi stessi!
Non vi può essere alcuna soluzione alla questione rom all’infuori di un processo di auto-organizzazione e di lotta collettiva di queste popolazioni con il resto del proletariato. Contemporaneamente e congiuntamente la difesa e l’avanzamento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari occidentali non può che passare attraverso l’abbattimento di ogni ostacolo che li allontana dai propri colleghi immigrati. Questo significa non solo battersi per una piena equiparazione dei lavoratori immigrati con quelli autoctoni, ma portare anche il sostegno attivo ed incondizionato alle lotte che infiammano il sud e l’est del mondo.
Non vi può essere, infatti, alcuna soluzione alla questione rom, e alla questione immigrazione in generale, in un mondo dominato dal sistema capitalistico. È stato l’attuale regime di dominio dell’uomo sull’uomo a porre queste due questioni e solamente il suo superamento potrà risolverle. Ancora una volta si riconferma la giustezza del monito "socialismo o barbarie"!
Dal Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA