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Dal  Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

Scuola. Il decreto Gelmini è stato approvato:

come continuare la lotta?

Nel mondo dell’istruzione primaria l’autunno ha portato una "novità" ed una "sorpresa". La "novità": con il decreto 137 il governo ha avviato una profonda contro-riforma della scuola elementare (v. scheda). La "sorpresa": le lavoratrici delle elementari (in stragrande maggioranza si tratta, infatti, di donne) non sono disposte a subire passivamente. Nelle scuole ci si inizia ad organizzare, si discute collettivamente, si riesce in una certa qual misura a coinvolgere le famiglie dei bambini, si promuovono assemblee e manifestazioni che puntano a "uscire" dalle mura scolastiche e a comunicare con i quartieri. In alcune scuole, il 17 ottobre riesce lo sciopero indetto dai sindacati di base ed il 30 dello stesso mese, in occasione dello sciopero di categoria promosso da Cgil, Cisl e Uil, mentre in molte città si svolgono cortei, Roma è invasa da una marea di manifestanti. Ci sono gli studenti medi e gli universitari, gli insegnati delle superiori e i precari dell’università, il personale non docente e i genitori, ma il nucleo centrale della manifestazione è composto dalle maestre, scese in piazza dietro una miriade di striscioni e cartelli. Lavoratrici dignitose, mediamente abbastanza giovani, spesso alla prima esperienza di lotta, guardate con simpatia da buona parte del restante mondo del lavoro.

Berlusconi e i suoi scagnozzi masticano amaro, ma non si fermano. È vero che i decreti attuativi sono tutti da "scrivere" e che anche su questo piano la partita è da giocare, ma è altrettanto vero che, nonostante le riuscite mobilitazioni, il decreto è ormai trasformato in legge con procedura d’urgenza. Come mai tanta decisione? come mai tanta "fretta"? e, soprattutto, come continuare, riprendere e rafforzare la lotta contro la "riforma" Gelmini?

Per poter rispondere a queste domande, è necessario andare a vedere quale è la reale posta in gioco.

Il ruolo della scuola

L’obiettivo del governo è duplice. Primo: operare tagli all’istruzione per miliardi di euro a vantaggio delle banche, della finanza, del grande capitale e delle spese belliche. Si attacca questo anello della spesa sociale per sostenere il profitto e la competitività (anche militare) del cosiddetto "sistema Italia". Secondo (ma non in ordine di importanza): riorganizzare complessivamente la scuola, cominciando innanzitutto da quella elementare, per renderla capace di svolgere la funzione sociale che le è assegnata in modo più coerente con le esigenze imperative dei mercati.

La scuola è una delle istituzioni incaricata dal capitale dell’educazione della nuova generazione e della formazione della forza lavoro richiesta dalle imprese. Essa è uno strumento nelle mani della classi proprietarie e sfruttatrici. È qui che vengono trasmessi la cultura, l’ideologia ed i "valori" della classe dominante. Anche nella sua versione più aperta ed "avanzata", in essa operano la selezione di classe e le discriminazioni ai danni dei figli delle famiglie proletarie. Ed essa resta una delle istituzioni fondamentali per mantenere e riprodurre la divisione tra sfruttati e sfruttatori, tra chi comanda e chi fatica. Questa è, nel capitalismo, l’essenza della scuola.

Solo strappando di mano il potere politico alla borghesia, si potrà realmente dar vita ad un sistema educativo radicalmente alternativo, finalizzato ad aiutare sin dalla più tenera età ogni individuo a sviluppare al meglio ed armonicamente le proprie capacità e sensibilità in un’ottica e in una tensione sociale e collettiva. Un sistema che, non contrapponendo e non separando più l’istruzione all’attività lavorativa, contribuirà a superare in avanti la divisione, tipica della società borghese, tra lavoro intellettuale e manuale e a formare un uomo con conoscenze e interessi davvero sociali e onnilaterali.

Questo significa che fino a quel giorno la scuola non potrà essere altro che un ambiente in cui pulsa solo e soltanto la legge del capitale? Non siamo così semplicisti. Riflettiamo sulla recente storia italiana.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 dell’appena trascorso secolo, l’Italia stava effettuando il balzo che ne avrebbe fatto un paese pienamente industrializzato. L’immigrazione interna vi ebbe un ruolo fondamentale. Milioni di contadini poveri e di braccianti abbandonarono le campagne meridionali per andare a saziare la fame di manodopera a buon mercato delle industrie e dei cantieri del Nord. Si trattava di gente per lo più semi-analfabeta, che si esprimeva quasi unicamente in dialetto e con una scarsissima conoscenza della lingua italiana, ma soprattutto si trattava di gente non avvezza alla dura disciplina di fabbrica.

A tal proposito, l’industriale Renato Lombardi, nel primo convegno della Confindustria su "istruzione e industria" (aprile ’59), diceva: "Quello che l’industria chiede ai ragazzi sul piano strettamente professionale è molto poco. Le nozioni professionali si possono e spesso si devono acquisire dopo." Ciò che deve fare la scuola, continua Lombardi, è insegnare "l’ordine e la disciplina, elementi insostituibili nella formazione del carattere e della personalità"; "difficilmente ad esse si sopperisce nell’ambiente di fabbrica se non si può contare su basi precostituite". Insomma, le mansioni terribilmente monotone e ripetitive alla catena di montaggio si imparano presto e sul campo, quello che la scuola deve fare è formare uomini ubbidienti, sottomessi e rispettosi delle gerarchie sociali.

Di qui, il maestro con la bacchetta, le punizioni umilianti riservate ai figli dei contadini e degli operai, le pagelle con i voti (10 al figlio del dottore, 6 -se va bene- a quello del manovale), la bocciatura per il 7 in condotta e una didattica arida, nozionistica e ridotta ai minimi termini. I rampolli delle "persone per bene" imparavano in ogni caso ben altro a casa, negli istituti privati o anche in classi della scuola pubblica ben selezionate.

Scuola e lotta di classe

Ma questo (ci sia consentito il termine) schifosissimo "modello didattico" a un certo punto si è incrinato. A mandarlo a gambe in aria è la lotta della "incolta e rozza" classe operaia che, nella seconda metà degli anni sessanta, dai centri industriali del settentrione si diffonde per tutta la penisola. È il lungo "autunno caldo", che non si fa sentire "solo" in fabbrica ma investe ed influenza tutti gli ambiti della vita sociale. Scuola compresa.

È in questo clima e solo grazie ad esso che i migliori pedagogisti ed insegnanti riescono a gettare le basi per una didattica meno individualistica, meno nozionistica, meno passivizzante, più attenta al sociale e che si riesce a scalfire la rigida struttura classista della scuola italiana (soprattutto nelle elementari). Ci si batte affinché la scuola non sia semplicemente il luogo di formazione della forza-lavoro richiesta dalle fabbriche e dagli uffici ma uno degli ambienti in cui si fa le ossa un lavoratore capace di difendere i suoi diritti insieme ai suoi compagni e di pensare criticamente. Non si vuole rescindere il legame tra la scuola e la società, cosa in sé impossibile, ma collegare quello che si fa a scuola non con le esigenze dei capitalisti ma con le esigenze di difesa e di liberazione globale che i lavoratori cercano di far valere al di fuori della scuola. Espressione di questa spinta è anche l’esperienza delle "150 ore".

Questo è il ’68 di cui Tremonti e l’intero padronato vogliono liberarsi. Per tornare indietro? Agli anni cinquanta? No, lo vogliono fare per realizzare una scuola pienamente con i tempi,,, inizio XXI secolo. Rappresentano questo tentativo

Una "riforma" al passo coi tempi

Il "maestro unico", il voto in condotta, la demolizione del "tempo pieno", le classi "separate" per i figli degli immigrati e l’impoverimento della didattica previsti o prodotti dalla 137. Il decreto Gelmini prospetta una scuola al passo coi tempi e con le necessità del capitalismo italiano ed internazionale.

Oggi, infatti, il ragionamento portato dall’imprenditore Renato Lombardi cinquanta anni fa è ancora più attuale. Grazie all’utilizzo capitalistico della scienza, non solo il lavoro industriale è diventato ancora più monotono e ripetitivo, ma anche le cosiddette occupazioni "tecniche" richiedono (balle a parte) un sempre minor grado di conoscenza e gli stessi livelli bassi del lavoro "intellettuale" vengono sempre più parcellizzati, "semplificati" e standardizzati sul modello di fabbrica. Certo, lo sviluppo tecnologico e la perdita di specializzazione delle mansioni potrebbero essere la base materiale per il superamento della divisione del lavoro e lo sviluppo di un essere umano universale. Ma solo se le forze produttive fossero liberate dalla morsa del capitale e del profitto. Di più: se negli anni cinquanta per le imprese era sufficiente avere a disposizione una manodopera disposta a mansioni ripetitive pur rimanendo con la testa altrove, adesso si vuole un lavoratore che metta non solo i suoi muscoli ma anche tutta la sua capacità di concentrazione e di attenzione al servizio di processi produttivi sempre più incalzanti e stressanti.

Le future generazioni devono essere "educate" sin dall’infanzia a questi comportamenti. Da questo punto di vista, il rilancio più o meno esplicito dell’insegnamento dei "valori" della nazione, della razza, della donna vista come "angelo del focolare" non rappresenta neanche esso un "insulso e incomprensibile" ritorno al passato: esso serve a plasmare un lavoratore disposto a tutto pur di sostenere la competitività della propria azienda e del proprio paese, anche all’occorrenza di diventare ubbidiente soldato, automa pronto ad essere usato per schiacciare altri popoli e a scannarsi con altri lavoratori ciascuno in nome ciascuno della "propria" patria e tutti al servizio del dio profitto.

La scuola elementare targata Gelmini tendenzialmente è una caserma dequalificata e dequalificante perché questo oggi serve al capitalismo.

Come andare avanti

Per quanto, dunque, possa apparire (ed anche essere) "confusa, contraddittoria e approssimativa", la "riforma" Gelmini si colloca pienamente nel solco delle necessità capitalistiche. Bloccarla sarà, quindi, più ostico di quanto abbiano immaginato molti lavoratori della scuola. Bisogna attrezzarsi a dovere. Per questo è necessario che i lavoratori della scuola, i genitori ed i giovani che in questi mesi si sono mobilitati non disperdano le loro forze, si diano e rafforzino, al contrario, momenti di discussione ed organizzazione collettiva. E che sviluppino la loro azione lungo due direzioni, intrecciate tra loro.

Da un lato, bisogna collocare la battaglia contro la "riforma" scolastica nell’ottica di una più generale battaglia contro l’intera politica del governo e della Confindustria e, su questa base, lavorare ad estendere il fronte di lotta, adoperandosi con tenacia e in prima persona per costruire momenti di contatto, di dialogo, di assemblee e di comune organizzazione con il resto del mondo del lavoro, a cominciare da quello operaio. Bisogna a tal fine utilizzare tutti i momenti di mobilitazione possibili.

Dall’altro lato, va messo in luce che le esigenze della classe lavoratrice richiedono che la scuola elementare sia cambiata nella direzione opposta a quella del governo Berlusconi. Va contrastata l’evasione scolastica, tornata a crescere negli ultimi anni, e non solo tra i bambini immigrati. La difesa del tempo pieno è possibile se essa è combinata con la lotta per l’estensione di esso nell’Italia meridionale, dove questo passo in avanti della lotta proletaria è raramente attuato. Il rigetto dell’indirizzo razzista sottostante la norma sulle classi differenziate chiama in ballo, infine, i programmi attualmente in vigore: la scuola italiana, in modo particolare la scuola elementare, è crescentemente multinazionale, eppure nei programmi (di storia, geografia, lingua e letteratura, ecc.) è ancora assente la storia dei popoli del Sud e dell’Est del mondo, la loro lotta di emancipazione dal dominio coloniale e semi-coloniale europeo, per non parlare dell’insegnamento delle loro lingue e letterature.

Certo, andare in questa direzione non è per nulla facile. Da un lato perché continua ad essere ancora troppo presente l’idea (illusoria) che quello della scuola sia un "mondo a parte" che può e deve essere tutelato grazie a sue presunte "particolarità". Dall’altro lato perché nelle fabbriche e nelle aziende private il ricatto occupazionale e la minaccia di chiusura o di spostamento all’estero della produzione stanno ancora agendo da ostacolo allo capacità di mobilitazione e lotta di questo centrale e decisivo settore.

Non è dunque una strada semplice, ma è l’unica (altro che referendum!) che ci può portare a contrastare realmente l’azione del governo anche sullo "specifico" terreno scolastico. Lo dimostrano, tra l’altro, l’esperienza storica degli anni ’60 e ’70 e il fatto che questo "affondo nell’istruzione" può avvenire adesso, dopo che il terreno è stato preparato da anni ed anni di costante attacco alle condizioni e alla capacità di resistenza politica dei lavoratori dell’industria.

Dal  Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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