Dal Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
Per una politica sindacale di reale difesa proletaria
Nelle pagine precedenti ci siamo sforzati di fornire un quadro dell’offensiva del governo Berlusconi e del padronato e della sua portata. Il loro obiettivo centrale è quello di spazzare via ogni forma di difesa collettiva dei lavoratori al fine di poter operare un netto salto nello sfruttamento della manodopera.
Il raggiungimento di un simile risultato deve all’oggi passare attraverso un deciso ridimensionamento della Cgil. Nonostante la linea politica del più grande sindacato italiano sia sempre più attenta e subordinata alle necessità ed alle compatibilità del capitalismo nazionale, la Cgil continua a costituire un intralcio per il padronato soprattutto per come essa viene percepita e vissuta da un ampio strato di lavoratori e delegati. La si vuole colpire in profondità per colpire l’idea stessa che il mondo del lavoro possa organizzarsi sindacalmente e collettivamente.
Negli scioperi e nelle lotte autunnali della scuola, dei trasporti, della sanità privata, del pubblico impiego, del commercio e in quelli del decisivo comparto metalmeccanico, la Cgil è stata ed è stata percepita come il perno di queste mobilitazioni, venendosi a trovare, occasione dopo occasione, in crescente contrapposizione con le sempre più filo-governative e filo-padronali Cisl e Uil. La confederazione guidata da Epifani è stata costretta ad assumere l’attuale posizione dal prodotto combinato di due opposte spinte: da un lato, gli attacchi sempre più espliciti e aperti di governo e Confindustria; dall’altro lato, una relativa, ma reale, pressione proveniente dal mondo del lavoro salariato, la cui parte più combattiva guarda con rinnovata attenzione alla Cgil come all’unica organizzazione di massa attraverso cui approntare una propria difesa.
Ma la Cgil di Epifani o la stessa Fiom di Rinaldini sono in grado di organizzare lo sforzo per mettere in piedi realmente un efficace argine difensivo? Noi crediamo di no. Per l’indirizzo politico generale che le guida e per le sue conseguenze sulla conduzione della mobilitazione.
Un nodo decisivo
Lo sciopero del 12 dicembre è stato indetto da Cgil e Fiom (oltre che a difesa della contrattazione nazionale) intorno ad una serie di rivendicazioni immediate, tra cui la restituzione del drenaggio fiscale, il potenziamento degli ammortizzatori sociali ed il loro allargamento anche alle piccole imprese ed ai precari, il ripristino dell’orario massimo giornaliero e settimanale rispettivamente di otto e quaranta ore. Misure che potrebbero significare, per i lavoratori, un primissimo (se pur minimo) momento di difesa dagli effetti della crisi che avanza.
Il problema non da poco è, però, che i vertici Cgil fanno strutturalmente ruotare questa linea di "prima difesa" e la loro complessiva posizione ed iniziativa intorno ad una prospettiva politica che fa della competitività aziendale e nazionale (sia pur con accentuazioni diverse rispetto alla Cisl e alla Uil) il presupposto ineliminabile su cui impostare ogni possibile difesa delle condizioni operaie. Questo presupposto, vista l’acutissima crisi e concorrenza internazionale, lascia sempre meno margini d’azione. Su simili basi non c’è partita. Inevitabilmente la chiamata alle mobilitazioni diventa "contraddittoria", si stenta a dare indicazioni che possano andare nella direzione di unificare il mondo del lavoro, la lotta ha il fiato corto e, al più, può portare solo a un tamponamento limitato e ultra-passeggero dell’offensiva. Alcuni esempi.
Contrattazione. Al contrario di Cisl e Uil, la Cgil respinge la piattaforma confindustriale e non appone la propria firma a rinnovi contrattuali capestro come quello del commercio. Bene. La "non firma" non è, però, vista come un momento di propaganda, preparazione ed organizzazione di una più generale battaglia, bensì come uno strumento di mera pressione finalizzato a recuperare il rapporto con gli altri sindacati e con la controparte al fine di giungere, nel rispetto delle esigenze aziendali, ad una revisione appena migliorativa di accordi che, proprio per la loro impostazione di fondo, sono da combattere complessivamente.
Alitalia. la Cgil respinge la prima proposta della C.A.I. sul trattamento riservato ai lavoratori dell’Alitalia, ma, allo stesso tempo, si dichiara favorevole al piano industriale (imperniato sul "recupero di competitività") presentato dall’amministratore delegato della cordata da cui, inevitabilmente, discende la sostanza di quel trattamento. La pressione della Cgil porta a qualche lieve miglioria dell’impianto contrattuale originario. Passa un mese. Colannino torna alla carica rimangiandosi di fatto parte le "concessioni" precedenti ed Epifani si dichiara "realisticamente costretto" a firmare il nuovo accordo. Qualche giorno e il risultato politico portato a casa dalla Confindustria e dal governo contro i lavoratori Alitalia, viene esteso a tutti i lavoratori (v. riquadro).
Immigrati. La Cgil afferma di volerne difendere i diritti, ma poi in concreto cosa fa di fronte a fatti come quelli della strage di Castel Volturno? Niente. Intanto, sul versante legislativo, invece di richiedere l’abrogazione secca della Bossi-Fini (vero perno della politica ricattatoria e razzista padronale e governativa), la Cgil ripiega sulla rivendicazione (peraltro affacciata timidamente, in modo estremamente contraddittorio ed anche, per alcuni aspetti, pericoloso) di una sospensione di alcuni effetti della legge per due anni e solo per chi già è in possesso del permesso di soggiorno.
12 dicembre. La Cgil chiama allo sciopero generale, ma con modalità che di fatto ne depotenziano la stessa portata. Otto ore i metalmeccanici, ma (salvo "modifiche regionali") quattro le altre categorie Il tutto accompagnato dalla disponibilità di Epifani a ritirare immediatamente lo sciopero a fronte di "aperture" governative. E, soprattutto, dalla presentazione del governo come di una controparte con cui trattare invece che come un nemico da combattere. E questo proprio mentre (anche per "solo" riuscire a strappare delle singole e minime tutele reali) è, al contrario, necessario cominciare a gettare le fondamenta politiche ed organizzative per unificare le forze dell’intero mondo del lavoro e sconfiggere su tutta la linea il governo Berlusconi, mandando a casa il cavaliere e la sua banda.
Non bisogna certo nascondere le difficoltà interne al mondo del lavoro che ne ostacolano una piena e forte scesa in campo. Ma bisogna anche rendersi conto che la politica e la prospettiva indicate dalla direzione della Cgil non solo non aiutano a venirne fuori, ma al contrario, e al di là di ogni apparenza, finiscono per immettere tra le fila proletarie nuovi elementi di disorganizzazione e smobilitazione. Questo perché, comunque la si metta, una coerente tutela degli interessi di classe dei lavoratori ed un’altrettanto coerente costruzione delle mobilitazione non possono sposarsi in alcun modo con alcun tipo di difesa e di rilancio della competitività delle aziende e del paese.
Contro la competitività
La Fiom coglie nel segno dicendo (documento del 4 novembre 2008) che ormai è "esplicito e chiaro che la Confindustria, con il sostegno del governo, quando parla di competitività e di produttività in realtà pensa ad un’ulteriore intensificazione della prestazione lavorativa, a un aumento dell’orario di lavoro e della discrezionalità unilaterale dell’impresa". Ma a fronte di ciò, pensare di potersi difendere puntando ad un "rilancio competitivo" imperniato su (sempre lo stesso documento Fiom) "nuove politiche pubbliche che indirizzino l’innovazione dei processi e dei prodotti" è illusorio e disarmante. A tal proposito, tra le altre cose, dovrebbe pur dire qualcosa il fatto che anche in Usa e in Germania, i paesi all’avanguardia mondiale in fatto di "processi e prodotti", la classe operaia è sottoposta ad un attacco sostanzialmente identico a quello che viene portato qui da noi. Capra e cavoli assieme non possono salvarsi in nessun modo.
Nell’incontro di alcuni mesi fa tra i delegati Fiat di tutti i continenti è cominciato ad emergere come e quanto la messa in concorrenza reciproca degli operai dei vari stabilimenti abbia permesso alla casa automobilistica di aumentare ovunque il tasso di sfruttamento della manodopera. Questo il vero "segreto" di Marchionne. E questo -cominciamo a prendere atto!- è l’unico risultato possibile della competitività. È in suo nome che il capitalismo italiano ed internazionale ha scatenato il proprio attacco a tutto campo, che delocalizza, che mette l’uno contro l’altro i lavoratori delle diverse nazioni e delle diverse aziende, che costruisce la contrapposizione tra proletari italiani ed immigrati.
Sganciare e contrapporre la difesa degli interessi operai da quelli delle aziende, della nazione e del loro rilancio competitivo e concorrenziale, comunque presentato: questo è il nodo (politico prima che organizzativo) da affrontare. Ed è su questa strada che la politica dei vertici sindacali (Cgil inclusa) va combattuta e ribaltata da cima a fondo. Ad una simile sfida sono chiamati non solo i lavoratori e i delegati della Cgil, ma anche quelli che fanno riferimento ai sindacati alternativi, all’interno di alcuni dei quali in autunno è maturata una spinta positiva intenta a favorire, con la partecipazione allo sciopero generale del 12 dicembre indetto dalla Cgil, la convergenza delle iniziative di mobilitazione. Ma la piena realizzazione di questa istanza richiede che si faccia i conti con il fatto che, spesso dietro una maggiore radicalità tradeunionista, anche i sindacati alternativi riproducono, nella sostanza, l’impianto della Cgil di ancoraggio della difesa degli interessi proletari alla difesa e al rilancio del capitalismo nazionale.
Prendere la lotta nelle proprie mani
Una vera lotta contro governo e padroni necessita di un forte protagonismo diretto dei lavoratori senza il quale, inutile girarci intorno, non si potrà "cantare alcuna messa" e non si potranno gettare le basi per unificare nella lotta l’intero universo lavorativo. In tal senso - se visto con la dovuta cautela, senso della misura e stando con i piedi per terra – può essere indicativo e da esempio quanto successo in autunno (ne parliamo più compiutamente in un altro articolo) nella scuola primaria. Dove la mobilitazione è stata innescata e sostenuta proprio da organismi di base, che hanno visto la partecipazione e il protagonismo di tanti "semplici lavoratori" (iscritti e non iscritti ai più disparati sindacati).
È vero, nella scuola l’inizio (perché "solo" di un inizio si è trattato) di un simile percorso è stato favorito dal fatto che questo settore non deve fare i conti con la concorrenza internazionale. In fabbrica e nel settore privato la situazione è molto più difficile e complessa. Ciò non di meno, anche e soprattutto qui i lavoratori più attivi e consapevoli sono chiamati ad andare in questa direzione. Così come sono chiamati ad assumere, difendere e portare avanti delle posizioni che al momento sono in contrasto con il sentire immediato di non piccoli settori proletari. Ad esempio, la difesa intransigente di tutti ("regolari" e "irregolari") i lavoratori immigrati, il "no" alla richiesta di settori proletari italiani e di strutture sindacali del Nord di far pagare le conseguenze delle difficoltà aziendali ai lavoratori immigrati, la rivendicazione dell’abolizione totale della Bossi-Fini sono punti su cui va data battaglia in ogni caso, mostrando come ciò sia nell’interesse degli stessi lavoratori italiani.
Così come bisogna alzare lo sguardo oltre i confini nazionali, cominciando a comprendere come sia interesse dei lavoratori lottare per un livellamento verso l’alto dei salari e dei diritti dei lavoratori del resto del mondo in modo che l’operaio polacco o quello della Serbia non possa essere più usato contro quello italiano. Su questo terreno, il 16 dicembre la Ces ha organizzato una iniziativa dei sindacati europei a Strasburgo, alla vigilia del voto con cui il parlamento europeo probabilmente approverà la nuova direttiva che allunga l’orario di lavoro massimo. Può essere un’occasione, come la manifestazione dell’aprile 2008 a Ljubliana, per fare un passo in avanti verso la costituzione di una trama di difesa comune a livello continentale. Ma anche su questo terreno, occorre passare dalle parole ai fatti. E ciò richiede non solo l’impegno diretto dei delegati di base, ma anche un indirizzo generale alternativo a quello della Cgil e della Ces.
Sappiamo bene che, per le ragioni strutturali discusse nelle pagine precedenti e nei precedenti numeri del giornale, una linea sindacale di classe è destinata al momento a rimanere in minoranza tra i lavoratori e nelle lotte (salvo auspicabili e sempre possibili improvvise accelerazioni dello scontro di classe). Una ragione in più per rimboccarsi le maniche già da adesso.
Dal Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA