Dal Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
La grande crisi del capitalismo / La grande sfida per il proleriato
Governo Berlusconi: competitività e disciplina
Da quando si è installato, il governo Berlusconi ha lavorato alacremente. Per mettere in atto il programma della Terza Repubblica: competitività, gerarchia, ordine e disciplina.1 Non solo con la contro-riforma Gelmini della scuola elementare. Ma anche in altri campi. L’istituto del contratto nazionale di lavoro, la legislazione sulla sicurezza nei posti di lavoro, il federalismo, l’impiego dell’esercito in funzioni di (cosiddetto) ordine pubblico, la grandinata di norme e interventi razzisti e anti-immigrati, la sanità: poco non è stato investito dall’intervento del governo. E poco se ne sa. Per questo ci sembra utile inserire nel giornale alcune schede di documentazione sui colpi che il governo sta cercando di mettere al segno al coperto delle fumose filippiche tremontiane contro gli speculatori finanziari.
Da queste schede emerge che l’obiettivo globale verso cui convergono le misure governative è quello di ristrutturare globalmente il quadro istituzionale delle relazioni tra capitale e lavoro salariato, di accelerare la riorganizzazione autoritaria della società, di imporre ai lavoratori resi inermi la volontà dittatoriale delle direzioni aziendali. Dopo trenta anni di lavoro ai fianchi, a cui ha contribuito il centro-sinistra, dal governo e dall’"opposizione", ha ben cooperato, è arrivato il momento di sferrare il colpo decisivo. Per il quale mettere a frutto le difficoltà e il senso di paralisi che la cassintegrazione e i licenziamenti stanno spargendo tra i lavoratori.
Basta con i diritti esigibili collettivamente. Basta con le tutele sociali e "generali" strappate con decenni di lotte. Il lavoratore va ridotto a isolato individuo e come tale deve "darsi da fare" per galleggiare nel mercato. Se vorrà "farsi strada nel mondo" o anche solo "sopravvivere" e "tirare avanti", dovrà lottare e sgomitare, ancora e di più che nel passato, da solo e contro tutti! Quelli che vanno a fondo sono da considerare (e devono considerarsi) incapaci, inetti. Nei loro confronti lo stato può, al più, offrire un paracadute (la social-card di Tremonti ne rappresenta un’anticipazione) "personalizzato" di natura "caritatevole". Dai diritti all’elemosina.
Vanno, invece, fatti valere in modo ferreo gli interessi dei padroni, dei banchieri, degli affaristi, dello stuolo di amministratori e politici che tengono loro bordone. Anche per mezzo della crescente blindatura repressiva della società e di un’offensiva ideologica capillare capace di mobilitare contro chi osa resistere il resto del mondo del lavoro. Sono emblematiche le misure prese in Campania sull’"emergenza rifiuti" e le vicende della vertenza Alitalia.
Sui rifiuti il governo ha stabilito che le norme sulla salvaguardia della salute pubblica possono essere sospese se ciò è richiesto da un’allocazione delle discariche funzionale agli interessi dei grandi industriali che controllano il ciclo di smaltimento dei rifiuti. La gente che paga sulla sua pelle simili decisioni, si vuole opporre? Il governo ha stabilito che le discariche sono zone militari e come tali "protette" dalle forze armate. Non solo: le manifestazioni contro gli inceneritori e le discariche selvagge legalizzate sono state equiparate all’interruzione di pubblico servizio con tutti gli annessi penali ed amministrativi previsti a carico dei manifestanti. La militarizzazione "dell’emergenza rifiuti" nel napoletano, avvenuta con un discreto consenso delle popolazioni delle altre regioni, è un "piccolo" esperimento in vista dell’estensione della "cura" a ben più vasti ambiti della vita sociale, di fronte ad altre iniziative di difesa degli interessi dei lavoratori e dell’ambiente.
Nella vicenda Alitalia, il governo, la cordata di capitalisti italiani e le banche creditrici hanno imposto un principio che, una volta realizzato sul campo nell’indifferenza o addirittura con il consenso di una parte dei lavoratori d’Italia e con la complicità della stessa Cgil, sta per essere esteso legislativamente al resto del mondo del lavoro: per salvare un’azienda in crisi, si possono, si debbono stracciare i contratti vigenti e adottarne altri, drasticamente peggiorativi e soprattutto sottratti alla capacità di contrattazione collettiva dei lavoratori.
In questo suo cammino il governo pensava e sperava di non incontrare intoppi. Le cose non sono andate esattamente in questo modo. Dal mondo del lavoro e da quello giovanile sono arrivate prime, pur se parziali e balbettanti, iniziative difensive fino allo sciopero generale del 12 dicembre. Per rispondere adeguatamente all’offensiva pesantissima del governo e del capitale, quella in corso e quella che sarà scatenata nei prossimi mesi mescolata ai ricatti della cassintegrazione e della disoccupazione, occorre che tali iniziative vadano avanti e facciano i conti con le debolezze che le hanno caratterizzate. Con gli articoli che seguono si vuole entrare nel merito di tutto ciò e fornire una traccia di riflessione sui passi da fare per superare tali debolezze e per costruire, a partire dalle mobilitazioni in campo, una difesa di classe all’altezza della situazione.
(1) Per l'analisi del passaggio dalla seconda alla terza repubblica rimandiamo agli articoli pubblicati nei numeri precedenti del Che fare.
Il contesto
Certamente Berlusconi (e, con lui, i suoi soci confindustriali) ha fatto tesoro delle esperienze del 1994 e del 2002. Ciò lo ha spinto, almeno fino ad ora, a non attaccare frontalmente tutta la classe lavoratrice, ma a privilegiare la strada dei tanti e "diversificati" assalti di volta in volta presentati come confinati a un solo e "specifico" comparto, a un solo e "specifico" settore. Come finalizzati a rimuovere sacche di "privilegi", di "inefficienza" e di "degrado" a vantaggio di tutta la società e, in primis, dello stesso mondo lavorativo. Questa attenta articolazione dell’attacco, così come la propaganda che lo ha accompagnato sul preteso governo Robin Hood, hanno contribuito a rendere più difficoltosa la risposta del mondo del lavoro. Ma le cause di fondo che stanno alla base di tale difficoltà sono ben altre e di natura molto più oggettiva.
Gli ultimi decenni della globalizzazione hanno portato ad uno spostamento del baricentro della produzione industriale mondiale, cardine insostituibile dell’accumulazione capitalistica. Dalla "vecchia" Europa e dagli Usa questo si è in notevole parte spostato verso la Cina, l’Asia e i cosiddetti "paesi emergenti". Oggi il proletariato occidentale non ha più (ci sia concessa l’espressione) il "monopolio della produzione manifatturiera", ma è esposto ad una pesante concorrenza al ribasso su un mercato del lavoro planetario dove gli operai di Milano e Berlino sono messi in quotidiana competizione con quelli di Bucarest, Varsavia, Shanghai, Seul, Brasilia, Mosca… A tale azione (si fa per dire) "spontanea" del mercato, si affianca quella organizzata e mirata degli stati, dei governi e delle multinazionali che con la loro politica, le loro misure e la loro propaganda puntano a rafforzare un clima di divisione e ricatto permanente intorno alla classe operaia.
Questo combinato di fattori, che rischia fortemente di accentuarsi a causa della crisi economica in corso, è alla base dell’attuale difficoltà politica del movimento operaio occidentale e della presa che il (suicida) veleno nazionalista, federalista, razzista e aziendalista sta avendo tra le fila, soprattutto giovanili, della nostra classe.
Reagire contro tutto ciò, cominciare a invertire la china, è necessario e possibile. Per poterlo fare bisogna che i lavoratori più accorti e combattivi prendano direttamente in mano la situazione e che, a partire dalla difesa alla morte degli attuali (e anche minimi) livelli di unità e organizzazione, si miri a unificare le lotte in campo e a costruire le condizioni per cacciare con la lotta di piazza il governo Berlusconi. Certo, si tratta di un obiettivo per nulla facile. Ma solo puntando ad esso si potranno sconfiggere tanto i "singoli" provvedimenti, quanto l’insieme della politica governativa. Così come solo andando in questa direzione si potranno unificare e quindi rafforzare le spinte alla lotta e alla mobilitazione che hanno incominciato a manifestarsi sul campo.
Il liberalismo compassionevole di Veltroni
Questa battaglia va portata avanti senza attendere e sperare passivamente che in questo senso possa giungere una vera chiamata alla lotta "dell’alto". È vero che il Pd ha organizzato la riuscita manifestazione popolare del 25 ottobre e la Cgil indetto lo sciopero generale del 12 dicembre, ma il dichiarato imperativo di fondo che muove la politica di Veltroni ed Epifani è quello di "salvare l’Italia", di rilanciarne la competitività e la credibilità internazionale. E ciò, al di là delle chiacchiere, necessita in ogni caso una maggiore subordinazione del mondo del lavoro alle imprese ed ai mercati: esattamente quello a cui in maniera più spiccia e dirompente mira l’azione berlusconiana.
È vero che Veltroni, a differenza di Berlusconi, rivendica la detassazione del salario e altre misure immediate a tutela del potere di acquisto dei salari, ma un giorno sì e l’altro pure lo vediamo pietire al governo un dialogo nel quale contrattare le misure necessarie per dare fiducia e stabilità al sistema dinnanzi alla galoppante crisi dei mercati e delle borse. Ma come, c’è un governo che giorno per giorno va avanti nella sua macelleria sociale, non ha la benché minima esitazione a venderla come fosse oro per i lavoratori, e cosa fa il partito democratico?, invoca il dialogo! È così difficile prevedere la sorte delle istanze proletarie in tale dialogo per ridare fiducia ai mercati? Né ci si può sorprendere di questa inconsistenza della politica del Pd: questo partito è nato sulla base del ripudio della stessa lotta di classe riformista che il vecchio Pci non disdegnava di portare avanti per sostenere il suo progetto di gestione operaia del capitalismo. Il liberismo compassionevole su cui fonda il suo programma il partito democratico, è nella sostanza differente dalla social card di Tremonti?
Veltroni accusa, poi, Berlusconi di essere lontano dai problemi della gente, offensivo con l’invito ai lavoratori ad essere un po’ meno avari nelle loro spese così da attutire i contraccolpi della recessione. In questo il segretario del Pd ha ragione. Ma Veltroni, a sua volta, è forse meno distante dalle preoccupazioni e dalla rabbia di tanti proletari? Se ne stanno rendendo conto alcuni dirigenti del partito democratico, tra cui D’Alema, i quali percepiscono il pericolo di lasciare a se stesse le masse lavoratrici di fronte all’attacco del governo e dei padroni. Queste ultime potrebbero, ad un certo punto, rispondere con una lotta radicale che rischia di mandare a carte quarantotto il rilancio capitalistico e il suo ingrediente-chiave: la torchiatura del lavoro salariato, il suo imbrigliamento entro una rigida gerarchia sociale e un’occhiuta sorveglianza statale.
Già qualche avvisaglia è emersa con i lavoratori immigrati a Castelvolturno e a Milano.
Nasce da qui il tentativo di D’Alema di gettare un ponte ad un settore della maggioranza di governo, quello che fa riferimento a Fini, in contrasto su più di un aspetto con la linea di Berlusconi-Tremonti-Bossi-Sacconi-Brunetta. Mentre quest’ultima area governativa vuole passare sopra l’organizzazione sindacale con la ruspa, Fini si rende conto che, soprattutto nella fase di scontro internazionale a cui si va incontro, occorre attaccare e, nello stesso tempo, provare a mobilitare i lavoratori a sostegno della politica che li assume a bersaglio. A tal fine, piuttosto che spingerli all’atomizzazione, sarebbe meglio salvaguardare o creare, innestandole su quelle esistenti opportunamente normalizzate, delle strutture di inquadramento dei lavoratori, un po’ come aveva fatto il fascismo con il corporativismo. Il trattamento dovrebbe riguardare anche i proletari immigrati, verso i quali Fini continua a portare avanti una insidiosa politica di divisione e stratificazione.
In questa azione di smarcatura (provvisoria?) e di apertura verso il Pd , Fini interpreta alcune preoccupazioni del grande capitale italiano. Che teme anche l’effetto dirompente sulla forza del capitalismo italiano della riforma federalista Calderoli (v. p.5). Tale riforma risponde ottimamente all’interesse capitalistico di tagliare la spesa sociale e di frantumare i lavoratori per regioni, ma nell’attuale situazione di crisi economica internazionale il decentramento del prelievo fiscale da esso previsto rischia di trasformarsi anche in un meccanismo centrifugo della trama del mercato nazionale a vantaggio dei concorrenti capitalisti più forti d’oltralpe e d’oltre-atlantico.
In conseguenza di ciò, i riflessi interni dell’aggravamento della situazione economica internazionale e della stessa vittoria di Obama potrebbero portare alla formazione di un governo di unità nazionale in Italia. Ciò non sarebbe un’alternativa per i lavoratori. I governi e i patti di unità nazionale sono stati sempre una sventura per i lavoratori: a partire, nella storia recente, dal 1977, quando, sotto i nuvoloni della crisi economica internazionale, il governo Andreotti (con l’appoggio "esterno" del Pci) allungò di 7 giorni l’orario lavorativo annuo, varò prime misure anti-sciopero e quant’altro. Oggi lo sarebbe ancora di più. Perché il rilancio della competitività delle imprese, la salvezza del capitalismo italiano ed europeo, il ripristino della fiducia dei mercati, possono avere due soli carburanti: la terribile intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori e la blindatura dell’apparato statale contro ogni forma di resistenza al piano di schiavizzazione che il capitale ha in programma. Il governo di unità nazionale, se dovesse formarsi, sarebbe chiamato a gestire proprio questa politica in stretta collaborazione con i centri finanziari rimasti in piedi, e diventati ancor più potenti di prima.
C’è un solo modo per fermare il governo Berlusconi-Bossi-Fini e per salvarci dall’uragano in arrivo.
Buttiamo giù il governo Berlusconi con la lotta di piazza!
Respingiamo il tentativo di accollare ancora una volta ai lavoratori le conseguenze disastrose di questo sistema sociale sempre più decrepito. Demistifichiamo la propaganda di Tremonti e Berlusconi sugli effetti sociali del piano anti-crisi varato in dicembre, tutto a vantaggio con la norma anti-opa e con l’alleggerimento degli studi di settore dei finanzieri italiani e degli evasori che Tremonti a parole dice di mettere sotto torchio. Denunciamo che le misure caritatevoli contenute nel piano anti-crisi non migliorano affatto la condizione dei lavoratori e dei pensionati, che esse sono buone solo per insinuare un po’ di morfina sociale nella rabbia che va sedimentandosi nelle famiglie proletarie e che tali elemosine (reali o addirittura inventate come è il caso del blocco delle tariffe o dei tassi sui mutui) sono messe in avanscena per coprire i provvedimenti-bomba con cui il governo sta deregolamentando il mercato del lavoro e frantumando la capacità di risposta collettiva dei lavoratori. Ritiriamo la delega anche ai vertici sindacali, pronti a nuove svendite dei nostri diritti e delle nostre condizioni di vita. E preparariamoci da subito alla lotta. Alla lotta auto-organizzata, di piazza, contro la misure che intende
imporre il governo Berlusconi. Alla lotta unitaria tra operai e salariati, tra lavoratori immigrati e italiani, tra dipendenti pubblici e privati, tra lavoratori e giovani in agitazione nelle scuole e nelle università. Alla lotta contro il governo Berlusconi-Bossi-Fini nel suo insieme per fermarne gli affondi nell’unico modo possibile: buttandolo giù dalla piazza.
Certo, oggi come oggi non siamo in grado di dare una spallata al governo per farlo cadere. Ma il rilancio dell’iniziativa di lotta dei lavoratori è, invece, più che possibile. Lo mostrano il riuscito sciopero generale dei lavoratori della scuola del 30 ottobre, le mobilitazioni, piccole ma significative, dei lavoratori immigrati contro le aggressioni razziste e la Bossi-Fini, gli scioperi dei lavoratori del commercio, della sanità privata e dei trasporti di settembre-ottobre e novembre, lo stesso sciopero del 12 dicembre. Se questa ripresa di mobilitazione e di lotte animerà e sarà animata da una piattaforma di lotta sindacale e politica che corrisponda agli interessi generali della classe lavoratrice e che perciò respinga gli imperativi schiavisti della competitività e del mercato, se così sarà, buttare giù nelle piazze il governo Berlusconi non sarà un’impresa impossibile.
Ma rifiutandoci di pagare le tragiche conseguenze di questo "folle" sistema sociale, non "rischiamo" forse di metterlo in discussione?
Certamente sì. Ma è lo stesso sistema capitalistico che si sta mettendo in discussione da solo, perché mostra di non essere in grado di permettere a chi lavora una vita dignitosa, sicura, serena, neppure nei paesi più ricchi, figurarsi negli altri! Gli straordinari mezzi di produzione creati dal lavoro universale debbono essere rimessi collettivamente nelle mani dei lavoratori, e debbono essere usati, secondo un piano razionale collettivamente deciso, nell’interesse dell’umanità, della specie, della natura. Possiamo, dobbiamo cominciare a "dirlo" già nel corso delle lotte difensive che siamo chiamati a intraprendere da subito per impedire che ci accollino il costo dei tracolli finanziari avvenuti e da avvenire. A tal fine c’è bisogno che ristretti nuclei di lavoratori si incamminino verso la conquista di una politica di classe a tutto tondo, per dotarsi di un proprio partito di classe che nella lotta dica con chiarezza che la difesa delle condizioni operaie può darsi non accettando, ma battendosi contro le compatibilità nazionali e aziendali, contro le esigenze del mercato, del profitto e della competitività e che su queste basi chiami alla battaglia internazionale e internazionalista nella prospettiva del socialismo.
Tra i compiti di questa battaglia per dare efficacia alla difesa degli interessi proletaria e rimettere in pista il partito dei lavoratori vi è quello di denunciare quanto l’offensiva del governo e del padronato non si limiti all’aggressione ai diritti e alla condizione materiale dei proletari ma stia mirando alla drastica riduzione dei mezzi di auto-difesa dei lavoratori (che possono essere solo collettivi) attraverso la distruzione del contratto nazionale, il federalismo, il razzismo, la militarizzazione della vita sociale (per ora con lo schieramento dell’esercito nelle strade di qualche città... poi si vedrà...). La lotta dei lavoratori è chiamata a battersi anche contro queste politiche. Come anche a mettere il naso fuori dalla porta di casa.
Alla paralizzante concorrenza al ribasso tra operai dei vari continenti scatenata dal capitalismo internazionale si deve iniziare a rispondere con una politica che getti il seme per l’unità internazionale e internazionalista dei lavoratori contro il capitalismo globalizzato. Questo significa battersi affinché nell’immigrato e nel lavoratore dell’altra nazione non si veda un nemico o un concorrente da cui difendersi, ma un prezioso fratello di classe con cui lottare fianco a fianco per difendere i comuni interessi di classe. Significa rifiutare di farsi legare al carro del nazionalismo italiano e occidentale per, al contrario, "ricordare" che l’Italia è impegnata all’estero in missioni di guerra e rapina (dai Balcani all’Afghanistan passando per il Libano). E legare la battaglia contro la politica "interna" del governo a quella contro la sua politica estera che della prima costituisce l’altra e complementare faccia e che ha tra i suoi principali fini proprio quello di mantenere e rafforzare (tramite un combinato di azioni militari, politiche ed economiche) le condizioni che consentono al padronato italiano e occidentale di poter disporre di quel vasto esercito industriale di riserva planetario che rappresenta anche una delle più potenti (e incolpevoli) armi di ricatto puntate contro gli operai europei e nordamericani.
Dal Che Fare n.° 70 gennaio febbraio 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA