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Dal Che Fare  n.° 70 gennaio febbraio 2009

Leghista o democratico, il federalismo è un’arma dei padroni contro i lavoratori

Tra i tanti elisir distillati dal governo Berlusconi vi è il progetto di legge di federalismo fiscale varato a settembre 2008. Il governo e, in special modo, la Lega Nord promettono che il federalismo fiscale permetterà di migliorare la qualità dei servizi pubblici (sanità, trasporti, ecc.) e di rendere effettivo il controllo dei cittadini nei confronti degli amministratori pubblici e del denaro pubblico.

Il federalismo non porterà né l’uno né l’altro miglioramento. Al contrario, farà piombare autentici macigni sul collo dei lavoratori. Vediamo perché.

Il provvedimento ruota attorno al concetto di "livello minimo essenziale della prestazione". Di cosa si tratta? Il disegno di legge rimane un po’ nel vago in proposito, ma la sua portata è illuminata dal testo che ispira la filosofia del governo in materia di servizi sociali: La vita buona nella società attiva. Secondo il ministro Sacconi la "vita buona" si fonda sulla centralità della persona singolarmente presa: "Ogni singolo individuo dovrà auto-organizzarsi il futuro, costruire anche direttamente il proprio percorso di ben-essere lungo tutto l’arco della vita, rispondere in prima istanza da sé al proprio bisogno." Per cui se, ad esempio, l’"individuo-lavoratore" si ammala, dovrà provvedere per conto suo. Con un’assicurazione privata. E chi può permetterselo, visti gli attuali livelli salariali? Senza contare, poi, che la copertura fornita dalle assicurazioni dipende dall’andamento dei titoli di borsa che, visti i tempi, non coprono un bel niente. Impariamo dall’esperienza degli Usa: là, dove lo Spirito Santo di Sacconi è già diventato carne e sangue, ben 50 milioni di lavoratori sono privi di copertura sanitaria. Ecco cosa significa "livello essenziale minimo" delle prestazioni: servizio minimo per avere schiavi salariali e non esseri umani da curare, da educare, da trasportare, ecc.

Nel corso delle iniziative dell’autunno, alcuni lavoratori hanno obiettato a questo nostro ragionamento la seguente osservazione: "La pubblica amministrazione è un carrozzone inefficiente, i servizi che fornisce sono di scarsa qualità. Meglio affidarne la gestione e il finanziamento alle regioni e ai comuni, che conoscono molto più da vicino le esigenze dei cittadini. Potremmo stare con il fiato sul collo dei nostri amministratori e dei loro dipendenti nei trasporti, nella sanità, nell’istruzione, ecc. così che usino bene le nostre tasse."

Ora, che i servizi pubblici siano di qualità scadente e abbiamo tutt’altro che l’utilità sociale al loro centro, è verissimo. Verissimo che, ad esempio, la tutela che il servizio sanitario nazionale riconosce a tutti i proletari, a tutti i cittadini a prescindere dall’azienda, dal settore, dalla regione in cui lavorano, rimane spesso un’enunciazione. Ma quello che la riforma federalista del governo produrrà, in cooperazione con gli altri provvedimenti attuati da esso, non è il miglioramento di questa situazione, ma lo smantellamento del servizio sanitario universale, e la sostituzione di essa con l’assicurazione e con l’ottocentesca carità per chi non ce la fa. La sanità modello Formigoni e la social card sono solo un anticipo di questo radioso futuro. Il federalismo fiscale serve per scaricare lo stato centrale dalla spesa per i servizi sociali e poi per tagliarla drasticamente a livello locale, così da ridurre il rischio dello sviluppo di una resistenza collettiva da parte dei lavoratori o, addirittura, catturarne il consenso.

Non meno falsa è l’altra promessa del governo. A sentire Bossi, Berlusconi e Fini, con il federalismo i lavoratori diventerebbero "padroni in casa loro", almeno su quel gruzzoletto a disposizione degli amministratori locali. Anche questa è una gigantesca bufala. Nella parte finale del progetto di legge si specifica che i bilanci degli enti locali dovranno rispettare i vincoli della Banca Europea e quelli, dipendenti da Bruxelles, del Tesoro italiano. Sono tali vincoli a stabilire quanto va destinato dalle regioni e dai comuni alla sanità, ai trasporti locali, all’assistenza agli anziani, alle mense scolastiche, ecc. E quale margine di decisione rimarrà per gli enti locali? Ben poco, dice il progetto di legge di Calderoli. Ancora meno, se consideriamo l’allarme lanciato dal rapporto Isae 2008 incentrato su "Finanza pubblica e istituzioni": esso rileva che l’attuale debito delle regioni, delle province e dei comuni italiani (pari al 7% del debito statale) rimette le decisioni di questi ultimi nelle mani delle banche che detengono la gran parte dei loro titoli obbligazionari. L’effetto è ingigantito dalla crescita della quota del debito contratto attraverso i cosiddetti derivati. Cosa discenda da ciò sulla "sfera dell’autonomia politica" degli enti locali, lo esplicita una voce insospettabile, quella del fogliaccio Libero: "Il sistema bancario si troverebbe in futuro a svolgere funzioni di "azionista di riferimento" degli Enti Locali, de facto con potere di influenzarne le scelte (di fronte ai gruppi bancari, soprattutto i piccoli comuni hanno peso contrattuale minore). (...) Fra qualche anno, ad esempio, gli amministratori potrebbero essere costretti a rinviare scelte strategiche (metropolitane, opere di risanamento o semplici interventi ordinari come il rifacimento stradale) per assecondare le indicazioni del sistema finanziario creditore" (15 maggio 2008).

Facendo tesoro del trattamento riservato ai paesi del Sud e dell’Est del mondo risucchiati nel vortice dell’indebitamento, non è difficile prevedere che i grandi poteri finanziari, di fronte alla difficoltà a rimborsare le rette usuraie, accetteranno volentieri di azzerare completamente o in parte il debito contratto dagli enti locali a condizione che questi ultimi trasferiscano nelle mani dei banchieri la proprietà dei servizi sanitari, dei trasporti, delle reti di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica, del patrimonio artistico locale... Allora sì che i grandi benefattori dell’umanità ci faranno vedere quanto in regime borghese il decentramento federalistico serva solo per rafforzare la dittatura del capitale sul lavoro salariato!

Contro i vincoli di bilancio e i ricatti, già oggi rigidamente operanti, stabiliti dallo stato centrale, da Bruxelles e dalle borse sui servizi pubblici erogati localmente, i lavoratori non possono far nulla? Certo che sì, ma a condizione di mettere in campo un movimento di lotta operante ad una scala corrispondente a quella dei centri finanziari e istituzionali decisivi. Non limitato, quindi, a Roma, a Milano, alla Sicilia. Ma unitario a scala nazionale e proiettato verso i lavoratori degli altri paesi europei. Se passeranno le norme previste dal progetto di legge federalista, sarà più difficile di quanto non accada già oggi arrivare a costituire un simile movimento di resistenza. Per le divisioni materiali e psicologiche che la differenziazione territoriale dei servizi pubblici amplificherà tra i fila lavoratori delle varie regioni.

Oltre ad avere questo micidiale effetto politico, tale differenziazione porterà un arretramento della condizione materiale per tutti i lavoratori. Anche per quelli del Nord. Che non tarderanno a sentire il ritorno del boomerang di aver accettato che peggiorasse la situazione dei proletari del Sud. Questo peggioramento renderà questi ultimi più ricattabili. Sia quando si spostano a lavorare al Nord, come accade di nuovo da qualche anno in misura crescente. Sia quando si trovano davanti offerte tipo quella lanciata dal governatore della Sicilia Lombardo: zone economiche speciali in cui attirare investitori italiani e internazionali con l’offerta di manodopera a costi stracciati, orari pesanti e senza sindacato. Ci sia di monito quello che è accaduto con la Fiat di Melfi: le condizioni di salario e di lavoro accettate in Basilicata sono poi arrivate anche a Torino.

La riforma federalismo va, quindi, respinta in blocco. E con essa l’illusione che i lavoratori possano difendersi nel "piccolo". In questa opposizione i lavoratori non possono contare né sul Pd né sulla Cgil.

Il Pd condivide l’impianto della riforma federalista del governo Berlusconi, pur se la condisce con una spruzzatina di solidarietà. Gli amministratori locali del Pd sono ancora più avanti: come ha fatto il sindaco di Torino, Chiamparino, chiedono un partito democratico del Nord indipendente da quello nazionale per meglio trafficare con la Lega e il programma leghista.

La Cgil, da parte sua, denuncia i pericoli per i lavoratori connessi con il progetto di legge, ma non propone nessuna iniziativa di lotta contro il federalismo fiscale e continua a ribadire che esso, se ben organizzato, potrebbe anche risultare favorevole ai lavoratori. Ciò è falso. I lavoratori hanno bisogno di difendere e rafforzare i loro livelli di unità materiale, organizzativa e psicologica. Il federalismo, comunque condito, va nella direzione opposta.

                                                                  

Licenziamenti, cassaintegrazione, tagli al diritto allo studio e alla sanità, mutui asfissianti... Padroni a casa nostra?

Dal Che Fare  n.° 70 gennaio febbraio 2009

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