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Dal Che Fare  n.° 70 gennaio febbraio 2009

L’attacco alla contrattazione nazionale

Nel precedente numero di questo giornale tornavamo a sottolineare come per i padroni fosse vitale distruggere, o quantomeno svilire fortemente, l’istituto della contrattazione nazionale di categoria e i suoi "aumenti certi e uguali per tutti". Nello specifico scrivevamo: "Per decenni e decenni il contratto nazionale è stato uno dei fattori di unità materiale e quindi di forza politica del mondo del lavoro. Tramite esso l’operaio della piccola impresa o delle aree geografiche meno industrializzate è riuscito ad ottenere o a mantenere una serie di garanzie salariali e normative che per conto proprio non avrebbe mai potuto strappare. In questo modo i lavoratori delle "fasce più deboli" sono diventati più tutelati e quindi meno utilizzabili dal padronato come arma di ricatto per imporre condizioni peggiorative alla restante parte della classe operaia. Il lavoratore della grande industria settentrionale "aiutando" quello della piccola impresa meridionale ha, in fin dei conti, aiutato se stesso."

Ci permettiamo questa auto-citazione perché rende bene l’idea di quale e quanto importante sia la partita che si sta giocando intorno alla trattativa sulla cosiddetta riforma della contrattazione. Al momento, mentre andiamo in stampa, la situazione vede Cisl e Uil disponibilissime (entusiaste, verrebbe da dire) a firmare la proposta confindustriale, mentre la Cgil è (almeno per ora) attestata su una posizione di rifiuto.

La piattaforma padronale

Ecco i punti salienti della proposta confindustriale apertamente sostenuta dal governo.

1) Oggi la parte economica dei contratti nazionali viene rinnovata (ritardi, spesso pesanti, a parte) ogni due anni. La Confindustria vuole passare alla triennalizzazione. Ciò determinerebbe una perdita secca del potere di acquisto dei salari, che resterebbero un anno in più fermi al palo. Per sostenere questa posizione, il padronato si è richiamato agli ultimi rinnovi contrattuali del pubblico impiego e del credito, che hanno siglato l’allungamento di un anno della durata contrattuale. In entrambi i casi le direzioni sindacali avevano parlato di eccezioni non ripetibili e non esportabili negli altri comparti. I fatti, invece, dimostrano ancora una volta che, quando si cede in un settore, la situazione si ripercuote negativamente su tutti gli altri.

2) Viene proposto un indice di recupero salariale depurato dalla cosiddetta inflazione importata. In parole semplici, se, ad esempio, il costo della vita è cresciuto del 5% e questo incremento è per metà dovuto (direttamente o indirettamente) al petrolio, allora i salari dovranno accontentarsi di un recupero del 2,5%.

3) Si stabilisce che per i primi sette mesi successivi alla presentazione delle piattaforme contrattuali siano vietate azioni di sciopero. Sono previste sanzioni disciplinari per le RSU che non rispetteranno la "tregua".

4) Si prevede il rafforzamento degli "enti bilaterali" e un coinvolgimento più spinto dei sindacati nell’amministrazione (in cogestione con le direzioni aziendali) di tali organismi, preposti a gestire, impresa per impresa, una sorta di welfare aziendale (collocamento, sanità integrativa, formazione…) in progressiva sostituzione di quello statale. In pratica l’organizzazione sindacale dovrebbe ridursi ad un’istituzione erogatrice di servizi.

5) Viene sancita per la prima volta la possibilità di stipulare accordi aziendali e territoriali che, di fronte ad esigenze particolari, deroghino in peggio a quanto sottoscritto in sede nazionale.

6) Si prevede che nel contratto nazionale vengano stabili criteri-guida utili a definire "modelli di premi variabili" senza alcun consolidamento nel tempo da concordare in sede di contrattazione aziendale. Tali aumenti sarebbero transitori e rigidamente collegati a criteri di produttività, efficienza e redditività della singola azienda.

7) Sono previste misure punitive contro le RSU che nelle piattaforme integrative non rispettassero i limiti dettati in sede di contrattazione centralizzata.

Aziendalizzazione spinta

Il padronato non fa, dunque, troppi misteri sulle sue intenzioni e presenta una serie di misure che puntano a spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale (livello che, detto per inciso, si riesce ad esercitare solo in una minoranza di imprese) e, cosa fondamentale, a vincolare il tutto agli andamenti di mercato. Questo obiettivo viene "ovviamente" presentato come altamente conveniente per gli operai. A cui si spiega che, grazie alla detassazione delle quote salariali legate alla contrattazione di secondo livello (detassazione stabilita dal governo Prodi nel luglio 2007 e approvata nell’agosto del 2008 da quello Berlusconi), è più conveniente ottenere aumenti in sede aziendale che non in quella nazionale. Inoltre, prosegue velenosamente la Confindustria, per questa via i lavoratori delle aziende che più "tirano" potrebbero essere davvero premiati e non vedere mortificate le loro aspettative a causa dei lacci e dei vincoli imposti dalla contrattazione nazionale che impone criteri uguali per tutti.

Basta, quindi, con quel che resta della cosiddetta solidarietà di classe. Ogni lavoratore deve vedere nell’affermazione della "propria" impresa la sua unica speranza di salvezza. Deve, in nome della competitività aziendale, accettare di tuffarsi in una lotta al coltello contro gli "altri" operai. Qualche euro in più? Forse. Ma a tempo, solo per pochi e in cambio di orari ancora più lunghi, di ritmi ancora più ossessivi, di carichi sempre più pesanti e, soprattutto, in cambio di un ulteriore e deciso passo verso la divisione e la frantumazione del proprio fronte di classe.

Quanto sia aggressiva l’impostazione confindustriale lo dimostra persino la presa di posizione della stessa Fim (la federazione metalmeccanica della disponibilissima Cisl). Non solo la Fim è costretta a notare come la piattaforma degli industriali "espone il salario ad una sistematica riduzione nel tempo del potere d’acquisto", ma è pure obbligata a prendere atto del fatto che si tende a sminuire fortemente il ruolo del sindacato anche a livello di contrattazione aziendale (vecchio e classico cavallo di battaglia cislino): le sanzioni contro le RSU che "eccedono" nelle rivendicazioni e la "variabilità" del salario di "secondo livello" la dicono, infatti, lunga a proposito.

Altro che crescita del ruolo sindacale in azienda! I padroni puntano a cancellare ogni elemento di difesa collettiva dei lavoratori non solo sul piano nazionale ma anche su quello aziendale. Al più - nelle intenzioni di Marcegaglia e Marchionne- il sindacato deve essere ridotto ad una pura e semplice appendice completamente subalterna all’impresa senza alcuna capacità reale di contrattazione neanche sulle questioni "locali e specifiche".

                                               

Dal Che Fare  n.° 70 gennaio febbraio 2009

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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