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Il terremoto economico, sociale e politico annunciato dalla crisi dei mutui può e deve essere il punto di partenza per un nuovo movimento proletario!
I lavoratori guardano con crescente apprensione alle nuvole nere che la crisi dei mutui negli Stati Uniti ha addensato sull’economia mondiale. Cosa sta accadendo? Cosa è in arrivo?
Le radici della crisi dei mutui
È caratteristico del capitalismo che i suoi tracolli economici siano il frutto dello sviluppo che li ha preceduti. È così anche questa volta. Non ci riferiamo solo al periodo 2003-2007, durante il quale il prodotto lordo mondiale è cresciuto quasi di un terzo. Ci riferiamo agli ultimi venticinque anni. Durante i quali, il mercato del lavoro mondiale è pressoché raddoppiato, è più che raddoppiata la produzione industriale ed agricola mondiale, sono stati integrati e si sono integrati a pieno nel mercato mondiale “unificato”, con successo o con rovina, i paesi di nuova indipendenza e i paesi dell’ex-campo del “socialismo reale”. Tale ampliamento del mercato mondiale è stato insieme causa ed effetto di un rilancio dell’accumulazione capitalistica su scala allargata, a ritmo sostenuto in Asia, in Russia e negli altri paesi grandi esportatori di petrolio, con qualche affanno nel cuore euro-statunitense dell’Occidente.
Questo rilancio dell’accumulazione ha avuto tre propellenti.
Il primo è stato l’introduzione di un grappolo di innovazioni tecnologiche che hanno permesso di innalzare la produttività del lavoro, abbattere i costi del trasporto intercontinentale e velocizzare ed integrare a tal punto lo scambio di informazioni da rendere possibile, per la prima volta nella storia, una fabbrica avente i suoi reparti sparsi per il pianeta.
Il secondo propellente è stato il convogliamento di una massa crescente di investimenti diretti all’estero (IDE) verso alcuni paesi del Sud del mondo, soprattutto asiatici. In queste aree essi hanno messo le mani su un esercito di centinaia di milioni di lavoratori a salari stracciati, una vera gallina dalle uova d’oro. La Cina è stata in primissima fila. In questo paese gli IDE sono balzati dai 6-7 miliardi di dollari dei primi anni ‘90 ai 60 miliardi di dollari del 2006. Questo processo, che ha provocato una formidabile ridislocazione della produzione industriale occidentale verso Est e verso alcune aree del Sud, ha abbattuto i costi di produzione sia nell’industria che in agricoltura (e negli ultimi anni anche nei “servizi”). Un risultato a cui hanno contribuito anche le decine di milioni di lavoratori “di colore” immigrati negli Stati Uniti e in Europa.
Il terzo propellente è stato il processo esponenziale di indebitamento che ha caratterizzato l’insieme degli stati, e in primissima istanza gli Stati Uniti. In questo paese all’indebitamento colossale dello stato verso l’estero e verso l’interno si è sommato l’indebitamento delle famiglie (con il record storico del 2005: un debito medio per famiglia pari al 128% del suo reddito) e quello delle imprese, industriali e finanziarie.
I primi due elementi hanno incorporato nell’accresciuta produzione planetaria una massa di profitti cresciuta ancor più rapidamente della produzione. Il terzo ne ha garantito, in ultima istanza, la realizzazione, offrendo un mercato di smercio per la quantità di beni strumentali e di consumo eruttata dal vulcano della produzione mondializzata. La continuità del rilancio dell’accumulazione capitalistica iniziato nella seconda metà degli anni ottanta è dipeso, perciò, da un lato dalla possibilità di mantenere indefinitamente bassi i costi di produzione a mezzo di un bassissimo costo della forza-lavoro, dall’altro dalla possibilità di tenere sotto controllo il processo di indebitamento generale.
La “rivoluzione” finanziaria intervenuta in questo periodo ha cercato appunto di svolgere questo ruolo di guida, di regìa mondiale del processo di accumulazione di capitale, spostando di continuo in avanti il limite oltre il quale può esserci solo l’improvvisa sanzione di una nuova, gigantesca crisi di sovrapproduzione. Come? Accrescendo l’efficienza del capitale nello sfruttamento del lavoro alla scala mondiale. Intensificando la concorrenza tra i lavoratori del Nord e del Sud del mondo, e all’interno dei due rispettivi mondi. Imponendo a tutti gli “attori economici”, privati e statali, la tirannia dei mercati. Velocizzando il riallineamento dei riottosi. Premendo sui salariati perché accrescessero i loro debiti, lanciando loro l’esca di un (inizialmente) facile accesso al credito e costringendoli, in “cambio”, a lavorare di più e più intensamente.
A grado a grado che questa funzione è sembrata ottenere risultati, anche politici, esaltanti, quali il completo crollo del “socialismo reale”, la stabilizzazione del “socialismo di mercato” denghista in Cina, la generalizzazione delle politiche liberiste anche ai partiti e ai governi di “sinistra”, le vecchie e le nuove istituzioni della finanza internazionale hanno preso a scommettere con euforia sul proprio futuro e sul futuro del capitalismo, a produrre e scambiarsi una smisurata pletora di titoli giuridici di proprietà sul lavoro, sul plus-lavoro, delle future generazioni del proletariato mondiale. Ma così facendo hanno generato crescenti movimenti speculativi, molteplici bolle finanziarie, poiché ad essere scambiate furiosamente sul mercato mondiale sono state sempre più non masse di profitti reali, ma montagne di aspettative di profitti futuri e, via via, di debiti presenti (socializzati).
Questo meccanismo ha iniziato a incepparsi con l’esaurimento di uno dei suoi principali carburanti: la progressiva svalorizzazione della forza lavoro mondializzata. Negli Usa, da qualche anno, i lavoratori hanno cominciato ad aver difficoltà a sostenere l'allungamento e l'appesantimento degli orari di lavoro accettati nei venticinque anni precedenti. Nello stesso tempo, in Cina, in America Latina, nell’Est Europa i salari si sono stabilizzati o hanno iniziato a lievitare, con la conseguenza di interrompere la diminuzione del prezzo dei beni di largo consumo importati negli Stati Uniti. La combinazione dei due mutamenti ha fatto saltare la possibilità per un numero sempre maggiore di famiglie statunitensi di pagare le rate dei debiti contratti per l’acquisto della casa e dei beni di largo consumo. Con gli effetti destabilizzanti a catena che stiamo osservando.
E ora?
Gli sviluppi a catena della crisi dei mutui
Assistiamo al tentativo di governare questa crisi. Gli Usa e gli altri stati occidentali sono impegnati in una serie di esercizi funambolici. Far uscire di scena le imprese finanziarie decotte. Far emergere un pool di giganti bancari e finanziari risanati in grado di trainare la continuazione dell’accumulazione e di pilotare una ulteriore centralizzazione del capitale industriale. Associare in questa operazione di ripulitura-salvataggio i fondi dei paesi esportatori di petrolio e della Cina così da responsabilizzarli nella gestione dell’economia mondiale. Difendere le quote di mercato delle “proprie” multinazionali con le barriere protezionistiche. Il tutto per ammortizzare i danni, scaricarli sui pesci minori, prendere fiato e prepararsi ad applicare la vera cura “risolutiva” che i grandi poteri capitalistici hanno in mente.
Essa si basa su tre medicine: una nuova, secca svalorizzazione della forza-lavoro mondiale; una nuova, amplissima espropriazione dei contadini dalle campagne dell’America Latina, dell’Africa e dell'Asia; la sottomissione al dominio totale dell’Occidente dello sviluppo capitalistico della Cina e dei paesi, Iran, Venezuela e Russia, che vi si sono associati. Non le si potrà applicare senza dare il via ad un acuto scontro tra le classi e tra gli stati a livello planetario. Le potenze imperialiste non vi sono ancora preparate. Sono tirate da spinte contrapposte. Da un lato, devono colpire con violenza le loro classi lavoratrici. Dall’altro, hanno bisogno del “consenso” e della mobilitazione di queste ultime per portare avanti, anche militarmente, la difesa e l’allargamento della propria quota della forza-lavoro sfruttata in Asia, in America Latina e in Africa.
Come è possibile quadrare un simile cerchio?
La carta su cui si accinge a puntare l’imperialismo è rivelata dai programmi dei candidati rimasti in lizza per le presidenziali negli Usa (Mc Cain, Hillary Clinton ed Obama): canalizzare in chiave anti-cinese e anti-islamica lo scontento dei lavoratori occidentali e promettere che lo schiacciamento dell’asse “islamico-confuciano” permetterà quantomeno di ridurre il balzo all’indietro nelle condizioni di vita e di lavoro riservato al proletariato da un capitalismo nuovamente in crisi (e che crisi!). La preparazione di questa gigantesca operazione di irregimentazione e di blindatura delle società occidentali è la contro-misura fondamentale in corso di approntamento da parte dei vertici degli stati imperialisti, della Fed, della Bce e del gotha del capitalismo mondiale. Ed essa sboccherà in nuove guerre di oppressione e di rispartizione del mercato mondiale.
Il capitale imperialista è dovuto ricorrere ad esse nel venticinquennio alle nostre spalle, quando i meccanismi spontanei del mercato gonfiavano alla grande le sue vele: senza il pugno di ferro del Pentagono e della Nato nei Balcani e in Iraq, la mano invisibile del mercato non sarebbe riuscita ad avere ragione delle resistenze dei popoli oppressi e degli sfruttati al suo pieno dominio. Figuriamoci quanto questo pugno di ferro sarà vitale nel prossimo futuro per l’aristocrazia di manager, rentiers, generali, dirigenti statali, magnati dell’informazione che domina il mondo!
Qualunque sarà l’evoluzione della crisi finanziaria, esploda essa “subito” in tutta la sua potenza devastante o meno, gli operai e i lavoratori saranno, quindi, sottoposti ad un attacco pesantissimo, a tutti i livelli, e con ciò costretti a difendersi, a lottare perché ancora una volta i capitalisti (sempre più smisuratamente ricchi) si rivelano incapaci perfino di garantire l’esistenza ai propri schiavi salariati del cui sudore sono ingrassati.
Questa scesa in campo degli sfruttati è già cominciata. Chi ha occhi per vedere la riconosce in Cina, in Russia, in Polonia, ad Abu Dhabi, in Iran, in Sud Africa e nelle grandi campagne proletarizzate del Messico, del Brasile, dell’India, dello Zimbabwe. Il nostro sterminato esercito, è vero, è tuttora disorganizzato e servirà un intensissimo sforzo per unificarlo, ma non è fatto certo di fantasmi.
La crisi globale incombente lo chiama a globalizzare, a centralizzare la sua lotta, la sua resistenza, l’organizzazione di classe. Non solo per difendersi dai licenziamenti, dall’impoverimento, dalle misure draconiane in arrivo, e dalla contrapposizione esiziale tra lavoratori del Nord e del Sud del mondo, tra autoctoni e immigrati, ma anche per rilanciare con forza la prospettiva del socialismo. Perché il funzionamento sempre più anti-sociale e anti-naturale del capitalismo rimette più che mai al centro della politica e della storia mondiale, della lotta di classe internazionale, l’alternativa tra socialismo autentico e barbarie capitalista.
Sì: il terremoto economico, sociale, politico che la crisi dei mutui preannuncia può, deve costituire il punto di partenza di un nuovo movimento proletario rivoluzionario, rinato come la fenice dalle proprie stesse ceneri. Per preparargli il terreno un’avanguardia degna di questo nome deve osare, osare, ed ancora osare, sfidare lo spirito dei tempi, rimettendo in pista e portando fino in fondo la critica marxista del capitalismo, depurata dagli orrendi stravolgimenti staliniani, riconfermata alla luce dei caratteri assunti dal capitalismo mondializzato e rilanciata come asse di un’autentica politica rivoluzionaria.
Traduzione dal testo in inglese pubblicato sul Che Fare n.69 aprile - maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA
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