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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

Violenza sulle donne: alcune considerazioni per la ripresa del dibattito

E’ innegabile che in Europa, la “democratica” e “civile” Europa, la prima causa di morte delle donne tra i 15 e i 60 anni sia la violenza per mano maschile.
Le cronache traboccano di articoli dove l’enfasi viene posta ora sulla “povera vittima, bianca, nostrana” e sui malfattori immigrati violenti e selvaggi; ora sull’aspetto un po’ troppo provocante della donna ?se gli aguzzini sono occidentali? quasi a sottintendere (nemmeno troppo velatamente) che alla fin fine se l’è cercata e ?perché no? anche meritata.
La realtà, dati nudi e crudi alla mano, è leggermente differente. Violenze, crimini, stupri commessi da immigrati o da sconosciuti nei confronti delle donne ne esistono; ma la stragrande maggioranza delle vessazioni avviene ancora all’interno della famiglia, tra le mura domestiche (in famiglie italiane, europee e di tutto il mondo), e a compierle sono soprattutto gli stessi parenti, i partner, gli amici, i conoscenti, i “datori di lavoro” o i colleghi, coloro di cui ci si è sempre fidate. Proprio quei luoghi deputati ad essere tra i più sicuri si trasformano in incubi in cui la donna paga a caro prezzo la tanto desiderata tranquillità.

Una violenza insieme nuova e antica

Le recenti cifre sulla violenza contro le donne sono allarmanti, drammatiche ed al di là dell’enfasi posta strumentalmente di volta in volta sulla crescita del fenomeno o sulla efferatezza degli atti, un dato è certo: la violenza sulle donne è evidentemente minacciosa, ampia; è una somma di violenze fisiche, psicologiche, morali, sessuali, più o meno cruente, più o meno raffinate, ma non è sicuramente un’orrida novità dei nostri tempi. Tanto meno è un fenomeno peculiare ed esclusivo delle culture più “arretrate”, dalle caratteristiche tanto “esotiche” quanto “selvagge”, come vorrebbe un’iconografia occidentale e occidentalocentrica, che premierebbe, di contro, una donna sempre più ammiccante e svestita, spacciandola come liberata dalle catene della schiavitù domestica e librata verso la piena uguaglianza sessuale.
No. La violenza contro le donne non è una novità dei nostri tempi e non è neppure un mero retaggio del passato, segno di arretratezza, destinato ad essere superato e sconfitto dall’emancipazione della donna, naturale portato della modernità e del progresso. Subire violenza è oggi, come nel passato, un connotato della condizione femminile, che precede e attraversa la divisione in classi della società (Engels la definisce la prima forma di divisione in “classi” della società e di oppressione di classe) e la divisione Nord/Sud del mondo. Che attraversa trasversalmente anche le classi sociali, travalicando le pareti delle abitazioni borghesi e delle classi privilegiate, dove sono in voga metodi più che brutali contro le donne della famiglia, tanto che né manager né professionisti sfuggono alle statistiche recenti e passate. La violenza è, in sostanza, in generale, un mezzo fondamentale con cui si afferma l’inferiorità della donna, la sua subordinazione su base sessuale, la divisione dei ruoli in famiglia e nella società. Questa inferiorità, come la conseguente subordinazione, hanno sempre avuto bisogno della violenza, agìta o minacciata, aperta o velata, per essere affermate. Costituiscono ancora oggi, nonostante gli innegabili cambiamenti intervenuti (certamente non grazie a benevole leggi dello stato verso le donne, quanto a dure lotte del movimento femminile e del movimento operaio più in generale), il cemento strutturale della famiglia, di una data forma di famiglia, a sua volta cemento di una data forma di società.
L’esercizio della violenza in famiglia non è quindi un “incidente” nel rapporto di coppia, non è “qualcosa di sbagliato che capita” (chi sa perché piuttosto spesso), e non rappresenta solamente la manifestazione di rapporti sociali, relazionali, lavorativi frustranti esterni alla famiglia. E’ in parte tutto questo, certo; ma è anche e soprattutto la manifestazione di qualche cosa di più profondo, di più strutturale, di più complesso ed articolato, funzionale al mantenimento di legami sociali di oppressione, il cui superamento richiede il rivolgimento radicale degli attuali rapporti sociali e di produzione. L’esercizio della violenza sulle donne, delegato da secoli ai maschi della società e a quelli della famiglia in particolare, compromette profondamente non solo il rapporto di coppia, ma l’esistenza stessa di un rapporto veramente umano tra l’uomo e la donna; è funzionale alla più generale svalorizzazione sociale delle donne; contribuisce a rafforzare il controllo “sociale” sulle loro capacità produttive, riproduttive ed intellettuali; prepara e facilita il loro sfruttamento differenziale nel mondo del lavoro. Ogni donna deve aver chiaro, in sostanza, che pure se oggi può vantare, rispetto al passato, una maggiore “indipendenza”, pur se lavoratrice salariata al pari (non a pari condizioni, però) dei propri compagni maschi, e perfino (vogliamo rovinarci) se manager, deve stare sempre e comunque al “suo” posto: sottomessa, subordinata, inferiore ed anche schiava domestica, se le proprie condizioni economiche non le consentono di scaricare su altre donne il peso del lavoro di cura che le “spetta”.

Qualche cifra

Quindi, niente di nuovo sotto il sole? No. Dichiariamo solo che i dati a nostra disposizione non ci consentono di affermare con certezza che ci sia stato nel tempo un aumento in termini assoluti o relativi della violenza sulle donne. Ma non c’è bisogno di fare confronti per constatare che il quadro attuale di tale violenza è impressionante.
L’ultima indagine comparsa, che è anche la prima indagine dell’Istat di una certa ampiezza sulla violenza e i maltrattamenti contro le donne in Italia, afferma che oltre quattordici milioni di donne hanno subito violenza fisica, sessuale o psicologica nella loro vita, mentre negli ultimi dodici mesi 1.150.000 donne sono state vittime di violenze di vario tipo. La situazione italiana è comune ai paesi sviluppati in Occidente ed in Europa dell’Est, compresi i paesi più progrediti e ricchi come la Svezia. Negli Stati Uniti 10 donne al giorno vengono uccise dal partner perché hanno deciso di lasciarlo o lo hanno già lasciato. In Russia la metà degli omicidi riguarda donne uccise dal proprio compagno. Fra il 40 ed il 70% degli omicidi di donne canadesi, statunitensi, israeliane, australiane e sudafricane sono compiuti dal marito o dal fidanzato. In sintesi, sebbene le statistiche e i dati siano, come sempre accade, imprecisi e grossolani (e nello specifico caso possiamo ritenere a ragione che lo siano più del solito, considerato che, nella gran parte dei casi ?per paura delle ritorsioni, per vergogna o per il senso di profonda umiliazione che la violenza intrafamiliare suscita?, le donne spesso non denunciano le violenze subite dai propri parenti o conoscenti), possiamo convenire con le conclusioni del rapporto presentato dal Consiglio d’Europa: “uccide più donne la violenza subita dal partner che il cancro, gli incidenti stradali o le guerre”.

I fattori scatenanti

Come spiegare questi dati? quali le ragioni di tanta violenza, proprio nel cuore delle metropoli ricche e proprio qui, in Occidente, dove la famiglia patriarcale sembra ormai un lontano ricordo?
Di certo, possiamo ritenere che entri in gioco il più complessivo arretramento delle conquiste del movimento delle donne e di quello operaio più in generale. E’ quasi pleonastico ricordare i continui tagli ai servizi sociali, le difficoltà economiche enormi in cui si imbattono le donne che si separano dal proprio compagno o marito (una donna separata sprofonda vertiginosamente al di sotto della soglia di povertà, anche se ha un lavoro, non ne parliamo, poi, se ha dei bambini). O richiamare le crescenti difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro quando decidono di avere un figlio, mentre sono contestualmente sottoposte al continuo bombardamento mediatico e psicologico, intriso anch’esso di violenza, contro la legge sul diritto all’aborto (pur essendo evidente e noto a tutti che da quando questa legge è stata varata il numero di aborti è decisamente calato), senza dire della crescente colpevolizzazione a cui vanno incontro quelle donne che “scelgono” di non avere dei figli o di rimandare ad anni “migliori” il progetto di averne uno…
Questi fattori politici, culturali, sociali di ordine per dir così generale hanno un peso importante nel produrre questo fenomeno. Ma crediamo si debba ragionare anche sull’oggettivo dissesto che attraversa l’istituzione-famiglia a seguito del parziale cambiamento della condizione della donna, della sua maggiore indipendenza materiale e “spirituale” dal “proprio” uomo; e sul fatto che questo dissesto, che non ha affatto portato finora ad un nuovo tipo di relazione “paritaria” tra uomo e donna, sia lasciato in gestione “privata” ai singoli e alle singole coppie. E’ vero, si fionderà a dire il conservatore, l’origine del problema sta esattamente qui: le donne hanno osato troppo, e la violenza su di esse non è che il segno tangibile che il “troppo” progresso gli si sta ritorcendosi contro come un boomerang. Stanno realmente così le cose? In parte sì. Non però nel senso che le donne hanno osato troppo (saremmo dei folli ad affermarlo), bensì nel senso che la società borghese non può consentire l’effettivo e pieno superamento della subordinazione della donna all’uomo. Giacché la società borghese non può rinunciare a quella formidabile fonte di lavoro gratuito, di valorizzazione indiretta, che è il lavoro per l’allevamento della prole e per la ricostituzione della forza lavoro oggi svolto dalle donne. Perciò tutte le spinte oggettive ed insopprimibili, in parte sollecitate anche dallo stesso richiamo massiccio delle donne sul mercato del lavoro, alla messa in discussione di questa subordinazione personale e sociale su base sessuale, non potendo trovare all’interno della società capitalistica risoluzione alcuna, finiscono con il generare un corto circuito nella relazione tra uomo e donna, in seno non solo ai rapporti sociali e produttivi, ma alla stessa vita di coppia, sulla quale i primi si abbattono inevitabilmente.
Nel corso degli ultimi decenni la famiglia nucleare, da non molto affermatasi su quella patriarcale, ha subìto traumatici cambiamenti, non solo né principalmente a causa delle leggi sul divorzio. Tant’è che appare più adeguato parlare oggi di famiglie (al plurale) e di relazioni familiari, anziche di famiglia. Possiamo addirittura riconoscere che la stessa predominanza dell’uomo sulla donna, lungi dall’essere superata, viene però continuamente rimessa in discussione dai fatti: l’uomo, da capo indiscusso della “vecchia” famiglia scolpita dal codice napoleonico e in vigore in Italia fino a metà anni ’70, da custode del suo onore, è stato retrocesso oggi, al massimo, a difensore del suo tenore di vita. E d’altra parte ci sono stati importanti cambiamento oggettivi nella posizione della donna per la sua crescente partecipazione alla vita lavorativa sociale (non possiamo più definirla puramente “angelo del focolare”), per la molteplicità dei ruoli che è chiamata a sostenere fuori e dentro casa, e per una sua maggiore (non certo assoluta) indipendenza economica e culturale dal maschio della famiglia.

Un malessere comune, aggravato dai mass media.

Ma dopo questi traumatici mutamenti, non è intervenuto alcun nuovo assestamento in positivo. Il dissesto della famiglia “tradizionale” non è stato ricomposto in una unità di relazioni più alta, non ha generato e non può generare, entro il capitalismo, una nuova relazione tra i sessi veramente libera e paritaria. Ha generato piuttosto ?permanendo la disuguaglianza sessuale? un malessere comune tanto alla donna quanto all’uomo. E, soprattutto quest’ultimo, per ragioni che non sono genetiche, bensì sociali, profondamente consolidate e perpetuate, vive con profondo disagio un potenziale, anche solo potenziale, rapporto paritario. Non solo per la terribile forza d’inerzia che ha sempre il passato, specie un passato così interminabile, ma anche perché, pur in presenza di notevoli novità nelle abitudini di vita e nei comportamenti sessuali, permane ancora oggi un’educazione molto differenziata su base sessuale, sia in famiglia che nella società. L’elemento educativo predominante dell’educazione maschile rimane la forza, come mezzo di sopraffazione; quello dell’educazione femminile, la debolezza, simbolo di sottomissione, se non di servilismo.
Ecco perché anche la sola rimessa in discussione potenziale della predominanza maschile viene avvertita per la coppia, e non necessariamente solo dai maschi, come minacciosa, inaccettabile, fonte di inquietudine. E come se non bastasse, alla tensione generata da questo “nuovo” stato di cose, si sommano le tensioni della vita sociale e lavorativa cui sono sottoposti tanto le donne quanto gli uomini; le continue sopraffazioni ed umiliazioni subite dalle une e dagli altri, se salariati, sui posti di lavoro; lo stress causato da ritmi di lavoro e di vita sempre più intensi ed estenuanti, che, in mancanza di solidarietà e nell’isolamento sociale, finiscono col riversarsi ancora una volta all’interno della relazione di coppia.
E’ esattamente l’insieme combinato di queste molteplici ragioni che concorre, nell’arretramento complessivo della lotta di classe, ad ulteriormente acutizzare ed acuire i fattori di conflitto tra donne e uomini, e l’aggressività e la violenza contro le donne. Lungi dal trattarsi di tanti isolati casi di “impazzimento” individuale, le numerose violenze intrafamiliari contro le donne hanno pertanto profonde e ben radicate cause sociali. E la rinnovata attenzione dei media e dei politici su questo tema non ha alcuna finalità risolutiva. Non potrebbe averla. Anzi, semmai alla violenza fisica, sessuale, psicologica contro le donne, si assomma anche la violenza mediatica, un indigeribile fritto misto di pietismo, sensazionalismo, sessismo e razzismo.
La spettacolarizzazione dei numerosi episodi di violenza in famiglia presenta una molteplicità di finalità. Essa è volta anzitutto a fungere da deterrente contro le donne stesse ed il loro desiderio di indipendenza. Il messaggio che ne risulta, per quanto sub-liminale, è però chiaro: non esagerate, accontentatevi di aver annusato il profumo dell’indipendenza, tanto vi basti! E’ pericoloso sporgervi dal predellino. Secondo: essa è utilizzata come pretesto per dare alimento alla campagna securitaria e per la militarizzazione del territorio. Vedi, in proposito, la proposta della Moratti di attivare taxi rosa alla sera, per sole donne, benché tutti i dati dimostrino che il vero pericolo per le donne non è la strada, è la casa. Terzo: costituisce un prezioso pretesto per l’inesausta quotidiana campagna anti?immigrati. Ricordate Erika e Omar? o la strage di Erba? o chi aveva ucciso la studentessa inglese di Perugia? Immigrati, naturalmente. Untori, venuti da fuori a portare barbarie e morte. Tanto che gli stessi termini utilizzati inizialmente per descrivere tali assassinii sono divenuti poi meno macabri, meno cruenti quando si è “scoperto” che a compierli erano stati dei familiari, dei conoscenti, i vicini di casa delle vittime, guarda caso, tutte donne, eccetto due bambini. Ed infine, ma non per ultimo, la spettacolarizzazione della violenza sulle donne serve ad occultare le sue cause sociali e di sistema, scaricandone la responsabilità sui singoli individui “mostri”. Anche in questo caso il messaggio è chiaro: nessuna mobilitazione di massa, figuriamoci di classe, contro la violenza verso le donne; lasciate che a punire i singoli responsabili ci pensi lo stato con le sue leggi, le sue polizie, le sue carceri.

Donne e uomini: c’è una grande battaglia da fare insieme!

La nostra risposta è, ovviamente, tutt’altra.
La violenza contro le donne non è un effetto collaterale, un errore, il frutto di singole azioni incontrollate da parte di partner, di parenti o amici trasformatisi improvvisamente e misteriosamente in mostri. E’ prodotto ed insieme fattore del rapporto diseguale tra maschio e femmina e come tale chiama in causa entrambi i sessi in una battaglia comune contro l’intero sistema che è a fondamento di tale disuguaglianza. Non la facciamo e non è facile. Anzi. Sappiamo bene come, tanto la rigida gerarchia dei ruoli di ieri quanto la moltiplicazione dei problemi interpersonali e delle contraddizioni che derivano dall’oggettiva, parziale rimessa in discussione di tale gerarchia oggi, siano di impedimento ad una lotta comune. Sappiamo anche come, nonostante la famiglia sia per un certo numero di donne fonte di paura, di insicurezza, di sofferenza, essa venga comunque percepita come un rifugio, come un porto in cui difendersi dalla solitudine che si sperimenta nel quotidiano in una società percepita spesso come ostile e pericolosa. E tutto questo non favorisce la partecipazione alla lotta ed il sentirsi parte di una collettività lavoratrice che ha tutto da guadagnare dalla rottura delle catene dell’oppressione di classe e di sesso.
Eppure, mai come oggi ?quanto meno in potenza? i fattori unificanti sono stati tanti e così forti. La massiccia immissione di manodopera femminile nel mercato del lavoro, nel mentre aumenta l’esercito di riserva a disposizione dei padroni per ricattare al ribasso l’intera forza lavoro, introduce contemporaneamente in seno alla società capitalistica un enorme potenziale di fattori oggettivi destinati (a determinate condizioni) a fungere da detonatori dell’intero sistema. Ne è segno quanto emerso nelle mobilitazioni delle donne degli ultimi anni. Dalla marcia mondiale delle donne del 2000 contro la povertà e la violenza passando per la riuscita mobilitazione di due anni fa a Milano contro l’attacco al diritto d’aborto, sempre più accanto alle donne sono scesi in piazza anche gli uomini. Sintomo di un crescente malessere comune a cui o si reagisce insieme, o insieme si torna indietro.
 

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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