Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
Strage Thyssen-Krupp: fermiamo con la lotta la mano assassina dei padroni
Dopo la strage alla Thyssen-Krupp la nostra organizzazione ha diffuso un
volantino nelle fabbriche in cui svolge da anni un intervento politico (Marghera,
Lucca, Roma) e alla manifestazione svoltasi a Torino il 10 dicembre 2007.
Il volantino, che riproduciamo di seguito, è riportato anche sul nostro sito
insieme con altri nostri interventi sulla lotta contro gli omicidi sul lavoro.
Il massacro alla ThyssenKrupp non è semplicemente (come da più parti è stato
detto) il frutto di una “confusa e affrettata gestione della chiusura di un
impianto”. Il non rispetto delle più elementari norme di sicurezza e
l’allungamento della giornata lavorativa a 12-16 ore, le due cause immediate
della strage, sono leve per aumentare la competitività e gli utili aziendali
(ingrossati alla Thyssen nell’ultimo anno del 27%) applicate in tutte le
aziende. Che l’incremento della competitività e della redditività nel
capitalismo globalizzato impone siano reimportati dall’Asia in Occidente, tanto
nelle piccole quanto nelle grandi imprese.
La strage che ogni giorno viene consumata sulle carni della classe operaia è il
diretto frutto della moderna globalizzazione capitalistica. Sono le regole del
mercato e della concorrenza mondializzata, ad imporre che in fabbrica e nel
cantiere i ritmi si facciano sempre più forsennati, che venga eliminato ogni
tempo “morto”, che si debba lavorare sempre più in fretta e sempre più a lungo
per produrre ogni giorno di più e a costi sempre minori. Che generano lavoro
“nero”, sfruttamento minorile e costringono i lavoratori a turni massacranti.
Che, in una parola, stanno facendo ripiombare anche in Occidente il proletariato
in una situazione di schiacciamento simile a quella vissuta nel diciannovesimo
secolo all’inizio del processo di industrializzazione capitalistica.
Per tutelare la propria salute e la propria vita la classe operaia è chiamata a
fare i conti con questa realtà. Come? Innanzitutto iniziando ad abbandonare
l’idea di potersi realmente difendere affidandosi alle leggi ed alle istituzioni
che sarebbero chiamate a farle rispettare. La storia del movimento operaio
insegna che le leggi possono, a volte, tradursi in una (transitoria!) tutela per
i lavoratori solo ed esclusivamente quando se ne impone una loro applicazione ed
interpretazione con la forza e la mobilitazione di piazza. Se volgiamo lo
sguardo all’indietro, possiamo ben vedere come la tutela della salute in
fabbrica e nei luoghi di lavoro sia stata sempre proporzionale alla quantità ed
alla qualità della lotta che la classe operaia ha saputo esprimere. A cavallo
degli anni ’60 e ’70, ad esempio, fu soltanto grazie alla capacità di
mobilitazione espressa che si riuscì a costringere il padronato ad accollarsi
tutta una serie di costi “aggiuntivi” finalizzati non solo a proteggere la
salute dei lavoratori, ma anche a tutelare l’ambiente (e le persone) circostante
agli stabilimenti industriali.
Bisogna, quindi, attrezzarsi affinché i padroni e i loro governi paghino un
salato prezzo politico ed economico ogni qualvolta un lavoratore rimane vittima
di un “incidente”. Bisogna fermare la produzione per davvero (e non solo per
qualche simbolica ora), scioperare, “recar danno” alle aziende e all’intero
sistema economico. Bisogna iniziare a coordinarsi dentro e fuori le strutture
sindacali per cominciare a costruire le condizioni affinché la lotta per la
tutela della salute non resti confinata e separata all'interno di ogni singola
impresa e “solo là dove si può”, ma assuma caratteristiche generali. Tale lotta
impone che si contrappongano gli interessi operai a quelli della competitività
aziendale e nazionale. La salvaguardia della salute dei lavoratori non è
compatibile con la salvaguardia dei profitti e dei dividendi di azionisti e
investitori. E proprio per questo, essa richiede ci si contrapponga apertamente
al governo Prodi che sul rilancio della competitività delle aziende e del
“sistema Italia” ha basato e sta basando tutta la sua azione.
Una simile battaglia chiama a combattere e ribaltare da cima a fondo la politica
dei vertici sindacali, che subordina e lega sempre più in modo illusorio e
suicida la tutela degli interessi operai a quelli delle aziende.
Solo andando in questa direzione si potranno gettare le basi affinché nei luoghi
di lavoro (anche quelli piccoli e “a nero”) si inizi a superare il fatalismo, la
paura di “muoversi” e la rassegnazione ad essere carne da macello per il
capitale.
Ed è per questa strada che potrà essere affrontato il fondamentale compito a cui
la lotta contro lo schiacciasassi del capitalismo mondializzato chiama i
lavoratori: iniziare a “guardare” oltre i confini nazionali. È infatti a scala
mondiale che il capitalismo globalizzato genera, attizza ed utilizza una
crescente concorrenza tra i lavoratori dei vari paesi e continenti per imporre
una micidiale e paralizzante competizione al ribasso tra operai di diverse
aziende e nazioni. È questa la più tremenda arma di ricatto con cui si impongono
condizioni lavorative sempre più massacranti e pericolose.
Questa arma deve essere strappata dalle mani del padrone. Per poterlo fare è
necessario che, quantomeno tra i lavoratori più attivi, ci si cominci a porre
l’obiettivo di prendere contatti e stringere legami di lotta con gli operai
degli altri paesi e ci si incammini verso la riconquista di un programma e di
un'organizzazione di classe che, a partire da ogni lotta immediata, faccia
vivere la necessità di una battaglia a fondo contro il capitalismo
internazionale nella prospettiva di una società in cui il lavoro non sia
finalizzato al profitto, ma al benessere e alla soddisfazione dei bisogni
dell’intera umanità lavoratrice.
Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA