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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

Contro lo “scambio” voluto da Confindustria! Per una vera lotta in difesa del salario sociale!

La vertenza contrattuale dei metalmeccanici, l’inflazione che torna (anche secondo i dati ufficiali) ad alzare la testa e i rilevamenti di vari istituti statistici sulla distribuzione sociale dei redditi hanno contribuito a far sì che la questione salariale abbia conquistato un posto di rilievo nel dibattito sindacale e politico, tanto che Cgil, Cisl e Uil hanno lanciato una campagna per la diminuzione del peso delle tasse sui redditi da lavoro e pensioni.
Sembrerebbe che anche la Confindustria, il governatore della Banca d’Italia e i due principali partiti abbiano riconosciuto l’esistenza del problema e siano intenzionati a fare lo loro parte per “superarlo”. Sembrerebbe, dunque, che i lavoratori possano guardare con fiducia alla trattativa che si aprirà tra le parti sociali sulla questione.
Tutto bene, quindi? Niente affatto.
Il problema salariale è serissimo, ma per affrontarlo bisogna innanzitutto rompere con questo unanimismo, aprire gli occhi sul senso e sulla portata delle misure in discussione tra padronato-governo-sindacati e sul reale prezzo che esse comporterebbero per le condizioni di lavoro, per il potere d’acquisto dei salari e per la forza collettiva ed organizzata del mondo del lavoro.

Chi dà il “la” a tutta la sinfonia sono la Confindustria e i grandi poteri finanziari.
Essi dicono: “Se i salari sono bassi, è perché in Italia la produttività è scarsa. O si aumenta quest’ultima o le buste paga sono destinate a restare ferme al palo. L’aumento della produttività richiede che le direzioni aziendali possano gestire gli orari senza dover sottostare ai vincoli contrattuali oggi vigenti, incompatibili con le regole del mercato mondiale. Se i lavoratori accettano di farsi carico di questo aumento della produttività, si creeranno le condizioni, a seconda dello stato di salute della singola azienda, per la distribuzione a vantaggio dei salari di una quota di tale aumento. Purché, però, essi accettino anche l’alleggerimento del contratto nazionale, visto che le imprese, per sostenere la concorrenza internazionale, non possono sopportare il carico di due livelli di contrattazione.”
Traduciamo in parole povere: qualche euro in più si può forse pure dare, ma selettivamente e a condizione che si accetti una nuova generalizzata torchiatura del lavoro operaio e l’accantonamento del contratto nazionale, con i suoi “aumenti certi e uguali per tutti”. Le conseguenze di questi cedimenti sarebbero disastrose.

Il contratto nazionale, trama unitaria tra i lavoratori

Per decenni il contratto nazionale è stato uno dei fattori di unità materiale e, quindi, di forza contrattuale del mondo del lavoro. Tramite esso l’operaio della piccola impresa o delle aree geografiche meno industrializzate è riuscito ad ottenere o a mantenere una serie di garanzie salariali e normative che per conto proprio non avrebbe mai potuto strappare. In questo modo i lavoratori delle “fasce più deboli” sono diventati più tutelati e, quindi, meno utilizzabili dal padronato come arma di ricatto per imporre condizioni peggiorative alla restante parte della classe operaia. Il lavoratore della grande industria settentrionale “aiutando” quello della piccola impresa meridionale ha, in fin dei conti, aiutato se stesso.
È questo il meccanismo che per i padroni deve saltare. Un chiaro assaggio delle intenzioni confindustriali lo si è avuto in occasione del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Se le “tute blu” sono riuscite (pur segnando qualche arretramento non da poco come l’allungamento della durata contrattuale) a portare a casa il contratto, ciò è dovuto a due fattori: le mobilitazioni operaie che hanno accompagnato la fase conclusiva della vertenza e l’inadeguatezza del quadro politico istituzionale (tanto governativo, quanto d’opposizione) a supportare pienamente e con convinzione l’azione degli industriali. Ma, nonostante questo stop, la contrattazione nazionale resta uno dei bersagli prioritari della Confin-dustria. Che essa cerca di portare a casa facendo anche leva a modo suo sulla volontà dei lavoratori di mettere fine alla discesa del potere di acquisto dei loro salari.
Il padronato, non potendo negare l’esistenza del problema “buste paga”, sta tentando di indirizzare il malcontento e la stessa rabbia operaia verso una “soluzione” che permetterebbe agli industriali di abbattere alcuni fondamentali perni della capacità di difesa e resistenza dei lavoratori. È questo il principale obiettivo che si vuole perseguire con l’aziendalizzazione del salario. Con le buone o con le cattive. O, meglio, con un mix di bastone e carota, come insegna l’amministratore delegato della Fiat Marchionne, il quale mentre si fa promotore della costruzione di spacci aziendali a basso costo e di asili nido per i dipendenti, colpisce con duri provvedimenti i lavoratori più combattivi dello stabilimento di Pomigliano e utilizza ogni arma di ricatto per imporre turnazioni “stile Melfi” anche a Mirafiori.
Insomma. I padroni “offrono” la prospettiva di una qualche tenuta salariale e, anche, di minimi, transitori e selettivi aumenti, ma vogliono in cambio la dismissione di ogni forma di difesa collettiva e generale. Vogliono mani totalmente libere sull’organizzazione e sull’orario di lavoro, sui turni, sulla flessibilità, sui carichi e sui ritmi lavorativi. Accettare un simile scambio non significherebbe “soltanto” accettare di faticare di più, più intensamente e con sempre minore sicurezza, ma vorrebbe dire anche farsi trovare impreparati e disorganizzati di fronte ai futuri affondi che l’andamento del mercato mondiale imporrà con certezza sullo stesso versante salariale.
Il dibattito sulle buste paga coinvolge anche il “mondo politico”. Il centro-sinistra e il centro-destra assecondano e traducono nei loro indirizzi politici l’impostazione della Confindustria. Innanzitutto con il loro ritornello sulla (pretesa) convenienza dei lavoratori a sostenere a braccetto con i padroni il rilancio dell’Italia. E poi con le specifiche misure proposte. Renato Brunetta, uomo di fiducia e consulente economico di Berlusconi: “Un intervento indistinto sui salari non avrebbe senso. La riduzione della pressione fiscale sarà sulla contrattazione di secondo livello” (la Repubblica, 11 febbraio). Nicola Grossi, uno degli estensori del programma del Partito democratico: “Il primo intervento deve riguardare i salari: le detassazioni legate alla produttività vanno fatte subito… Al momento l’intervento sicuramente possibile è quello sulla contrattazione di secondo livello” (la Repubblica, 11 febbraio).
Detassare soltanto gli aumenti frutto di accordi aziendali significa lavorare per rendere questa forma di contrattazione più appetibile di quella nazionale. Si promette un qualcosa ad una minoranza (tale è infatti il numero dei lavoratori che riescono ad accedere alla contrattazione integrativa) al fine di minare e indebolire un importante vincolo unitario dell’insieme della classe operaia. Non a caso Montezemolo e la Confindustria hanno ripetutamente sottolineato l’utilità e la giustezza di simili proposte. Esse hanno trovato delle primissime anticipazione in alcuni punti (parziale detassazione dei premi di produttività e degli straordinari) dell’accordo con governo e vertici sindacali del 23 luglio 2007 sul welfare.

I salari possono crescere solo con la lotta generale!

Non bisogna nascondersi che simili “soluzioni” del problema salariale sono insidiose e che, soprattutto a causa dell’attuale stato di difficoltà politica del proletariato, possono trovare consensi tra gli operai. Spetta ai lavoratori più combattivi e lungimiranti contrastare con forza e sin da subito tali illusioni e denunciare con vigore le conseguenze e le finalità della piattaforma del grande capitale e dei partiti che si contendono la maggioranza parlamentare.
A indicare la strada è la stessa (anche recente) esperienza storica. Negli ultimi cinquanta anni l’unico periodo in cui i salari “relativi” sono aumentati è stato quello tra il 1969 e il 1973. Ovvero gli anni di maggiore lotta operaia sono stati quelli in cui le buste paga hanno beneficiato maggiormente degli incrementi della produttività del lavoro sottraendone quote importanti al profitto d’impresa. Ciò è stato possibile in virtù di una mobilitazione di carattere generale e del fatto che non si è minimamente accettato alcuno scambio tra salario e condizioni lavorative, anzi, si è parallelamente imposto un deciso miglioramento di queste ultime.
A cosa invece porti la logica dello “scambio” lo dice quanto accaduto dagli anni ’80. È vero che il taglio della scala mobile, l’imposizione dell’inflazione programmata come tetto per gli aumenti contrattuali, l’erosione della quota indiretta del salario con i tagli al welfare non hanno portato ad una drastica diminuzione del potere d’acquisto delle retribuzioni globalmente incassate da un lavoratore. Ma questo è accaduto anche perché si è “accettato” l’incremento degli straordinari, dei ritmi e dei carichi di lavoro. Tutto ciò non ha comunque permesso che si evitasse l’erosione salariale degli ultimi anni. Anzi, l’ha favorita perché quello “scambio” ha indebolito la forza di contrattazione della classe lavoratrice con effetti negativi anche sulle ultime tornate contrattuali. Non solo: questo “scambio” ha contribuito a far peggiorare verticalmente le condizioni lavorative, come hanno dimostrato anche ai “ciechi” la strage della Thyssen o quella di poco successiva avvenuta a Porto Marghera. Inoltre, se non bastasse il quotidiano stillicidio di morti sul lavoro, alla fine del 2007 è stato pubblicato un rapporto della Confederazione Sindacale Europea in cui si afferma che una grande percentuale di lavoratori è affetto da disturbi muscolo-scheletrici collegati all’attività lavorativa.
Oggi da alcuni settori della sinistra sindacale viene posta l’esigenza di battersi per mettere all’ordine del giorno la rivendicazione di un meccanismo che adegui in maniera automatica ed efficace le retribuzioni all’inflazione. Giusto. Così come è giusto rifiutare ogni scambio tra condizioni di lavoro e salario e dare battaglia affinché nelle future piattaforme contrattuali trovi spazio la chiara richiesta di forti e generalizzati aumenti. Affinché, però, queste sacrosante rivendicazioni possano avere gambe su cui camminare è indispensabile dire esplicitamente tre cose. Primo: simili obiettivi si possono raggiungere solo se, anche andando controcorrente, si gettano le basi per una ripresa generalizzata della mobilitazione operaia, contrastando sin da subito ogni linea di deriva e di divisione aziendalista e territoriale. Secondo: una tale lotta non si sposa affatto, anzi confligge duramente, con il miglioramento della competitività delle aziende e dell’intero “sistema paese”. Terzo: serve una linea d’azione che rovesci gli attuali indirizzi del movimento sindacale.
I vertici sindacali si stanno muovendo in direzione opposta. Da un lato, pur se con dei distinguo soprattutto da parte della Cgil, convergono con la logica di “scambio” su cui si basa la piattaforma padronale (e chiari segnali si hanno nella discussione sulla riforma della contrattazione). Dall’altro lato, puntano a rendere appena più consistente la somma che dovrebbe essere incassata dai lavoratori, proponendo di accompagnare questo “scambio” con una riforma fiscale che non si limiti ad intervenire sulla detassazione degli incrementi aziendali, ma vada anche ad incidere sul fiscal drag, sulle aliquote Irpef, ecc. Il sindacato guidato da Bonanni (in linea con la sua storica visione strettamente aziendalista) è favorevole a privilegiare gli interventi a sostegno degli aumenti legati alla produttività, ma chiede agli industriali la certezza (sic!) della contrattazione integrativa per tutte le aziende. La Cgil, al momento, sembra (sembra) puntare soprattutto su sgravi relativi a tutta l’intera struttura della busta paga.
Che i tagli operati dalla mannaia fiscale sulle retribuzioni siano un importante aspetto della questione salariale è indubbio. Una vera mobilitazione (non annullata appena proclamata, come è successo nei mesi scorsi) su questo terreno è urgente. Bisogna passare senza tergiversazioni alla mobilitazione auto-organizzata per uno scontro con il governo che non è affatto più semplice di quello contro il padronato e che non può minimamente essere condotto (al contrario di quello che dice certa propaganda) in tandem con la Confindustria. Non si tratta infatti di “correggere” degli ingranaggi (quelli fiscali) che negli anni sono andati fuori posto, ma di dare battaglia contro uno dei pilastri dell’accumulazione capitalistica.

La vorace macchina fiscale dei padroni…

La favola ufficiale narra che tanto tempo fa l’intera società giunse ad un “accordo” per costituire tramite il fisco un fondo per le spese comuni e per venire incontro a chi più avesse bisogno. Un’altra favola (anch’essa ufficiale) dice che, col tempo, questo “servizio comune” (e coloro che lo gestiscono) avrebbe approfittato della “delega” rilasciata dalla società civile per gravare su di essa indistintamente (tanto sui padroni quanto sugli operai) senza fornire in cambio i servizi promessi. La realtà, era ed è totalmente diversa.
Sin dal suo sorgere, il moderno meccanismo tributario ha avuto il fine di rastrellare ricchezza dalla società per convogliarla a vantaggio degli interessi immediati e strategici del capitale. Grazie al fisco la borghesia è riuscita nei secoli ad edificare e a strutturare il suo enorme e parassitario apparato statale. Burocrazia, polizia, eserciti: corpi ed organismi sempre più elefantiaci, il cui fine ultimo e fondamentale è quello di esercitare funzioni di controllo sociale e repressione sul proletariato interno ed internazionale, e di “sostegno alla produzione”, cioè miliardi regalati agli imprenditori (si pensi alla imponente mole di “aiuti” dati nel corso degli anni alla sola Fiat) o finalizzati ad infrastrutture rivolte essenzialmente alle necessità capitalistiche e non certo ai bisogni della popolazione.
Ma, si può obiettare, il fisco si fa carico anche di spese sociali come, ad esempio, la sanità pubblica. Verissimo. Lasciamo per una volta da parte il discorso sulla qualità sempre più indecente di tali servizi e sui costi crescenti che si devono sostenere per analisi e ricoveri. Facciamo finta di nulla e andiamo avanti. Il fatto è che, però, servizi come quello sanitario non sono stati regalati. Lo stato e, dietro di lui, il capitale, sono stati costretti a elargirli dal peso e dalla forza accumulata dalla classe lavoratrice.
Lo stesso dicasi della tassazione progressiva, ovvero del meccanismo per cui chi più guadagna, più (almeno in teoria) paga. Ad esempio, negli Usa (paese guida del capitalismo mondiale) il massimo di progressività fiscale coincide con due periodi. Quello a ridosso del 1917, quando bisognava arginare il contagio rivoluzionario che dalla Russia sembrava potersi estendere a tutto il resto del mondo industrializzato. E quello dei decenni immediatamente seguenti la grande crisi del 1929, cioè quando si trattava di prevenire una ripresa su larga scala della lotta di classe e di intruppare le masse sotto le varie bandiere patrie per scatenare il secondo macello mondiale.
Spesa “sociale” e progressività delle imposte: è proprio questo il duplice aspetto dell’attuale sistema tributario che la Confindustria vuole spazzare via sull’onda di quello che la classe dei capitalisti è riuscita a fare negli Usa e in Gran Bretagna. Quando invoca un apparato statale più snello e leggero, invoca essenzialmente uno stato che si sia “finalmente” liberato di buona parte di quei servizi che è tuttora costretto ad elargire ai lavoratori e in cui le imprese siano quasi pienamente esentate dalla tassazione.
L’Italia ha già fatto un bel pezzo di strada in questo senso (vedi scheda). Ma è ancora poco soprattutto in confronto a quanto sta avvenendo nel resto d’Europa. Per le imprese tedesche dal primo gennaio la pressione fiscale è scesa dal 38,6 al 30% (in Italia è al 37,25), mentre nella quasi totalità dei paesi dell’Est ci sono flat tax, livelli di imposizione fiscale unificati con una sola aliquota per tutti, da sogno (per il capitale): Serbia al 14%, Russia addirittura al 13% (come l’Ucraina), Slovacchia al 19%, Romania al 16%, la primatista (nel peggio) Georgia al 12%. Livelli ben al di sotto del 26% con cui l’Estonia inaugurò, nel 1994, questa corsa al ribasso dei prelievi statali dal capitale e dalle rendite, questo dumping fiscale, che si sta spostando ora verso Occidente con Grecia e Germania già percorse da proposte che vanno in questa direzione, seppure su altri livelli rispetto all’Est (per la Germania si è ipotizzata una flat tax al 25%).

… e la lotta contro di essa.

La lotta contro la mannaia del fisco sui salari non può, quindi, essere condotta fianco a fianco con il padronato. Essa va accompagnata con quella per difendere e migliorare la qualità dei servizi sociali e per estenderne la gratuità per i proletari. Ma va accompagnata anche a quella per difendere e incrementare il reale potere d’acquisto delle buste paga perché il salario operaio è un tutt’uno e va difeso sia sul suo versante indiretto (spesa sociale) che, a maggior ragione, su quello diretto (retribuzione).
Sul versante fiscale va rivendicata la forte, secca e generalizzata detassazione dei salari. Affrontata a muso duro la tassazione locale (nel 2007 è stato calcolato che le imposte comunali sono aumentate di circa il 17%). Amputata quella indiretta, cioè quella forma di prelievo fiscale che si nasconde nei prezzi delle merci (si pensi alle tasse gravanti sui carburanti o all’Iva) e che è la più iniqua di tutte poiché è pagata nella stessa misura tanto dai “ricchi” quanto dai “poveri”.
Parte integrante di questa battaglia è affrontare la questione dei ceti medi da un punto di vista di classe. A tal proposito riflettiamo su quanto accaduto nei primi mesi di vita del governo Prodi, allorquando i poteri forti finanziari ed industriali incoraggiarono l’esecutivo a prendere delle misure atte a limitare l’evasione fiscale dei ceti medi e a canalizzare le risorse così recuperate verso il cosiddetto “capitale produttivo”. Alcuni provvedimenti furono presi. Si trattò di misure ultratimide, di scarso impatto sul versante economico, ma che volevano avere ed ebbero un discreto impatto sul versante politico: la deviazione contro la classe proletaria della rabbia di questi settori che, gonfi di veleno, sono scesi (cosa rarissima) in piazza. Non contro chi realmente muoveva i fili del governo Prodi, cioè il mondo dell’alta finanza e della grande industria. Bensì contro il movimento sindacale, individuato come il “vero” burattinaio della situazione.
Ricordare quanto successo sul finire del 2006 è importante per il futuro perché dimostra come sia suicida per il mondo del lavoro accodarsi alle politiche dettate dal grande capitale quand’anche queste si presentino condite con elementi di (apparente!) “giustizia fiscale”. Per evitare il compattamento reazionario dei ceti medi accumulatori intorno al grande capitale e neutralizzarne l’attivizzazione antiproletaria, occorre che la classe proletaria si dimostri determinata a difendere in modo intransigente i suoi interessi, imponga che, a prescindere e contro le necessità del debito pubblico e del “sistema Italia”, a pagare non siano più i lavoratori e rivendichi che la crisi dello stato e dell’economia capitalistica sia scaricata sui grandi magnati della finanza, delle banche e dell’industria”.
Per far ciò, è necessario che i lavoratori riconquistino una politica di classe che sappia far vivere all’interno dell’intera società la prospettiva di una nuova e diversa organizzazione sociale non più bisognosa di un opprimente ed esoso apparato burocratico perché non più basata sulle leggi del mercato, del profitto e della concorrenza, ma su quelle della solidale cooperazione di tutta l’umanità lavoratrice. Una società dove non vi saranno più pesci grandi alla perenne caccia di quelli piccoli. Certo, si tratta di una prospettiva la cui riconquista non potrà essere né facile né “tutta di un botto”. Ma già oggi si può iniziare ad andare in tale direzione affrontando correttamente le questioni, anche “minime”, che si pongono sul tappeto.
I vari aspetti dell’attacco capitalistico (fiscale, salariale…) si tengono e si danno forza l’uno con l’altro: bisogna lavorare alla costruzione di una mobilitazione generale contro l’insieme di essi. Una lotta che va presa direttamente nelle proprie mani e che deve puntare a cancellare, livellandoli verso l’alto, tutti i differenziali salariali e normativi esistenti tra lavoratori di diverse regioni, di diverse aziende, di diverso sesso e tra italiani ed immigrati. Una battaglia che richiede che i più attivi tra gli operai inizino a porsi il problema di tessere rapporti internazionali con gli altri lavoratori, a cominciare da quelli che nell’Europa dell’Est stanno iniziando a rialzare la testa contro la politica dei salari stracciati e degli orari pesantissimi imposta dal capitale occidentale.

 Seguono schede

Prima scheda.                           Bassi salari, tante differenziazioni

Secondo uno studio dell’Ires-Cgil a fine 2006 lo stipendio medio di un lavoratore dipendente in Italia era inferiore a 1.200 euro.
Disaggregando tale informazione si può scoprire che al Sud la media scende a 969 euro, mentre quella delle donne lavoratrici si attesta a 961 euro, nelle piccole imprese siamo a 866 euro, con gli immigrati a 856 euro e con i un giovani da poco assunti a 854 euro.

Seconda scheda.                           Una torta sempre più piccola?

Dal 1993 al 2006 la produttività in Italia è cresciuta di 16,7 punti percentuali. Di questi 2,2 (il 13% del totale) sono andati alle retribuzioni e 14,5 (l’87%) alle imprese.
Anche negli altri e maggiori paesi occidentali, in questo quindicennio, la suddivisione degli incrementi di produttività è stata simile a quella italiana: ovunque le aziende hanno fatto (alla grande) la parte del leone.
Questi dati dimostrano che il problema salariale non è dovuto ad una “torta” che tende a restringersi. La torta cresce, e come se cresce! Il fatto è che il capitale è bulimico e non non è mai sazio di quello che spreme dal lavoro sociale.

Terza scheda.                                        L’idrovora fiscale

Dal 2000 al 2006 a causa della mancata restituzione del “fiscal drag” l’aliquota Irpef media sui salari è salita dal 18,5 al 19,5%. Nello stesso tempo la tassazione sulle rendite è pari al 14,9% e il lavoro autonomo (che assorbe il 25% dell’occupazione) si fa carico solo del 10% delle entrate tributarie. Inoltre negli ultimi 14 anni le aliquote medie di tassazione sui profitti delle imprese sono scese in Italia dal 52 al 37,25% (in Europa dal 38 al 24,2%), mentre si stima che l’evasione fiscale sia tuttora superiore agli 80 miliardi. Intanto gli interessi passivi sul debito pubblico (cioè quanto viene pagato a chi detiene titoli di stato) hanno raggiunto nel 2007 la quota di 74,5 miliardi di euro, cioè il valore di tre o quattro manovre finanziarie.
Dalle cifre appena riportate si può vedere come il fisco, lungi dall’essere uno strumento redistributivo, sia invece un gigantesco aspiratore che preleva risorse dai salari e le riversa verso i possessori di capitale. I dati ad esempio dicono che il debito pubblico è per il 55% in mano ad istituzioni finanziarie internazionali, per il 31% ad altri intermediari finanziari, per un 7% alle imprese e solo per il restante 7% alle famiglie (in buona parte non proletarie).

Quarta scheda.                                    Vorrei ma non posso

La lotta contro gli sprechi e gli sperperi del mastodontico apparato statale e burocratico sembra essere diventata una bandiera comune a tutti gli schieramenti politici ufficiali. Essa viene presentata come un terreno sul quale gli interessi padronali e quelli operai possono e devono felicemente coincidere. Veltroni è uno dei principali sponsor di tale matrimonio e il ragionamento a supporto della tesi appare lineare: snellendo e tagliando la macchina burocratica si potranno salvare capra e cavoli; si libereranno risorse per sostenere la competitività delle aziende e, contemporaneamente, si potranno salvaguardare gli attuali livelli di spesa sociale. Uno stato “snello”, supportato da un fisco “agile”, sembrerebbe dunque essere interesse di tutti… con tanti saluti alla “vecchia e superata” lotta di classe.
Il “problemino” è che un simile stato nella società capitalistica semplicemente non può e non potrà mai esistere. Nel capitalismo lo stato è lo strumento con cui un infima minoranza (la grande borghesia) della società domina, controlla e sottomette la stragrande maggioranza dei suoi membri alle esigenze dell’accumulazione capitalistica. La crescita elefantiaca degli apparati burocratici, polizieschi e militari trova la sua radice proprio in ciò, nella necessità di mantenere sotto controllo e contrastare gli antagonismi sociali prodotti a scala sempre più allargata da questa accumulazione, sia sul piano interno che su quello internazionale.
Qui in Italia la faccenda può anche manifestare alcune particolarità, ma nella sostanza si tratta di un fenomeno mondiale. Capitalismo e “governo a buon mercato” sono termini tra loro inconciliabili a tutte le latitudini. Lo conferma, tra l’altro, l’evoluzione dell’apparato fiscale e statale negli Usa, nel paese cioè in cui si è compiuta la “rivoluzione per un fisco leggero”.
Solo il proletariato rivoluzionario potrà amputare la sanguisuga fiscale. Perché, preso il potere, dovrà schiacciare solo una minoranza e marciare verso un’organizzazione sociale senza classi, senza gli antagonismi ad esse connessi e senza stato.

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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