Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
Contro lo “scambio” voluto da Confindustria! Per una vera lotta in difesa del salario sociale!
La vertenza contrattuale dei metalmeccanici, l’inflazione
che torna (anche secondo i dati ufficiali) ad alzare la testa e i rilevamenti di
vari istituti statistici sulla distribuzione sociale dei redditi hanno
contribuito a far sì che la questione salariale abbia conquistato un posto di
rilievo nel dibattito sindacale e politico, tanto che Cgil, Cisl e Uil hanno
lanciato una campagna per la diminuzione del peso delle tasse sui redditi da
lavoro e pensioni.
Sembrerebbe che anche la Confindustria, il governatore della Banca d’Italia e i
due principali partiti abbiano riconosciuto l’esistenza del problema e siano
intenzionati a fare lo loro parte per “superarlo”. Sembrerebbe, dunque, che i
lavoratori possano guardare con fiducia alla trattativa che si aprirà tra le
parti sociali sulla questione.
Tutto bene, quindi? Niente affatto.
Il problema salariale è serissimo, ma per affrontarlo bisogna innanzitutto
rompere con questo unanimismo, aprire gli occhi sul senso e sulla portata delle
misure in discussione tra padronato-governo-sindacati e sul reale prezzo che
esse comporterebbero per le condizioni di lavoro, per il potere d’acquisto dei
salari e per la forza collettiva ed organizzata del mondo del lavoro.
Chi dà il “la” a tutta la sinfonia sono la Confindustria e i
grandi poteri finanziari.
Essi dicono: “Se i salari sono bassi, è perché in Italia la produttività è
scarsa. O si aumenta quest’ultima o le buste paga sono destinate a restare ferme
al palo. L’aumento della produttività richiede che le direzioni aziendali
possano gestire gli orari senza dover sottostare ai vincoli contrattuali oggi
vigenti, incompatibili con le regole del mercato mondiale. Se i lavoratori
accettano di farsi carico di questo aumento della produttività, si creeranno le
condizioni, a seconda dello stato di salute della singola azienda, per la
distribuzione a vantaggio dei salari di una quota di tale aumento. Purché, però,
essi accettino anche l’alleggerimento del contratto nazionale, visto che le
imprese, per sostenere la concorrenza internazionale, non possono sopportare il
carico di due livelli di contrattazione.”
Traduciamo in parole povere: qualche euro in più si può forse pure dare, ma
selettivamente e a condizione che si accetti una nuova generalizzata torchiatura
del lavoro operaio e l’accantonamento del contratto nazionale, con i suoi
“aumenti certi e uguali per tutti”. Le conseguenze di questi cedimenti sarebbero
disastrose.
Il contratto nazionale, trama unitaria tra i lavoratori
Per decenni il contratto nazionale è stato uno dei fattori di unità materiale e,
quindi, di forza contrattuale del mondo del lavoro. Tramite esso l’operaio della
piccola impresa o delle aree geografiche meno industrializzate è riuscito ad
ottenere o a mantenere una serie di garanzie salariali e normative che per conto
proprio non avrebbe mai potuto strappare. In questo modo i lavoratori delle
“fasce più deboli” sono diventati più tutelati e, quindi, meno utilizzabili dal
padronato come arma di ricatto per imporre condizioni peggiorative alla restante
parte della classe operaia. Il lavoratore della grande industria settentrionale
“aiutando” quello della piccola impresa meridionale ha, in fin dei conti,
aiutato se stesso.
È questo il meccanismo che per i padroni deve saltare. Un chiaro assaggio delle
intenzioni confindustriali lo si è avuto in occasione del rinnovo contrattuale
dei metalmeccanici. Se le “tute blu” sono riuscite (pur segnando qualche
arretramento non da poco come l’allungamento della durata contrattuale) a
portare a casa il contratto, ciò è dovuto a due fattori: le mobilitazioni
operaie che hanno accompagnato la fase conclusiva della vertenza e
l’inadeguatezza del quadro politico istituzionale (tanto governativo, quanto
d’opposizione) a supportare pienamente e con convinzione l’azione degli
industriali. Ma, nonostante questo stop, la contrattazione nazionale resta uno
dei bersagli prioritari della Confin-dustria. Che essa cerca di portare a casa
facendo anche leva a modo suo sulla volontà dei lavoratori di mettere fine alla
discesa del potere di acquisto dei loro salari.
Il padronato, non potendo negare l’esistenza del problema “buste paga”, sta
tentando di indirizzare il malcontento e la stessa rabbia operaia verso una
“soluzione” che permetterebbe agli industriali di abbattere alcuni fondamentali
perni della capacità di difesa e resistenza dei lavoratori. È questo il
principale obiettivo che si vuole perseguire con l’aziendalizzazione del
salario. Con le buone o con le cattive. O, meglio, con un mix di bastone e
carota, come insegna l’amministratore delegato della Fiat Marchionne, il quale
mentre si fa promotore della costruzione di spacci aziendali a basso costo e di
asili nido per i dipendenti, colpisce con duri provvedimenti i lavoratori più
combattivi dello stabilimento di Pomigliano e utilizza ogni arma di ricatto per
imporre turnazioni “stile Melfi” anche a Mirafiori.
Insomma. I padroni “offrono” la prospettiva di una qualche tenuta salariale e,
anche, di minimi, transitori e selettivi aumenti, ma vogliono in cambio la
dismissione di ogni forma di difesa collettiva e generale. Vogliono mani
totalmente libere sull’organizzazione e sull’orario di lavoro, sui turni, sulla
flessibilità, sui carichi e sui ritmi lavorativi. Accettare un simile scambio
non significherebbe “soltanto” accettare di faticare di più, più intensamente e
con sempre minore sicurezza, ma vorrebbe dire anche farsi trovare impreparati e
disorganizzati di fronte ai futuri affondi che l’andamento del mercato mondiale
imporrà con certezza sullo stesso versante salariale.
Il dibattito sulle buste paga coinvolge anche il “mondo politico”. Il
centro-sinistra e il centro-destra assecondano e traducono nei loro indirizzi
politici l’impostazione della Confindustria. Innanzitutto con il loro ritornello
sulla (pretesa) convenienza dei lavoratori a sostenere a braccetto con i padroni
il rilancio dell’Italia. E poi con le specifiche misure proposte. Renato
Brunetta, uomo di fiducia e consulente economico di Berlusconi: “Un intervento
indistinto sui salari non avrebbe senso. La riduzione della pressione fiscale
sarà sulla contrattazione di secondo livello” (la Repubblica, 11 febbraio).
Nicola Grossi, uno degli estensori del programma del Partito democratico: “Il
primo intervento deve riguardare i salari: le detassazioni legate alla
produttività vanno fatte subito… Al momento l’intervento sicuramente possibile è
quello sulla contrattazione di secondo livello” (la Repubblica, 11 febbraio).
Detassare soltanto gli aumenti frutto di accordi aziendali significa lavorare
per rendere questa forma di contrattazione più appetibile di quella nazionale.
Si promette un qualcosa ad una minoranza (tale è infatti il numero dei
lavoratori che riescono ad accedere alla contrattazione integrativa) al fine di
minare e indebolire un importante vincolo unitario dell’insieme della classe
operaia. Non a caso Montezemolo e la Confindustria hanno ripetutamente
sottolineato l’utilità e la giustezza di simili proposte. Esse hanno trovato
delle primissime anticipazione in alcuni punti (parziale detassazione dei premi
di produttività e degli straordinari) dell’accordo con governo e vertici
sindacali del 23 luglio 2007 sul welfare.
I salari possono crescere solo con la lotta generale!
Non bisogna nascondersi che simili “soluzioni” del problema salariale sono
insidiose e che, soprattutto a causa dell’attuale stato di difficoltà politica
del proletariato, possono trovare consensi tra gli operai. Spetta ai lavoratori
più combattivi e lungimiranti contrastare con forza e sin da subito tali
illusioni e denunciare con vigore le conseguenze e le finalità della piattaforma
del grande capitale e dei partiti che si contendono la maggioranza parlamentare.
A indicare la strada è la stessa (anche recente) esperienza storica. Negli
ultimi cinquanta anni l’unico periodo in cui i salari “relativi” sono aumentati
è stato quello tra il 1969 e il 1973. Ovvero gli anni di maggiore lotta operaia
sono stati quelli in cui le buste paga hanno beneficiato maggiormente degli
incrementi della produttività del lavoro sottraendone quote importanti al
profitto d’impresa. Ciò è stato possibile in virtù di una mobilitazione di
carattere generale e del fatto che non si è minimamente accettato alcuno scambio
tra salario e condizioni lavorative, anzi, si è parallelamente imposto un deciso
miglioramento di queste ultime.
A cosa invece porti la logica dello “scambio” lo dice quanto accaduto dagli anni
’80. È vero che il taglio della scala mobile, l’imposizione dell’inflazione
programmata come tetto per gli aumenti contrattuali, l’erosione della quota
indiretta del salario con i tagli al welfare non hanno portato ad una drastica
diminuzione del potere d’acquisto delle retribuzioni globalmente incassate da un
lavoratore. Ma questo è accaduto anche perché si è “accettato” l’incremento
degli straordinari, dei ritmi e dei carichi di lavoro. Tutto ciò non ha comunque
permesso che si evitasse l’erosione salariale degli ultimi anni. Anzi, l’ha
favorita perché quello “scambio” ha indebolito la forza di contrattazione della
classe lavoratrice con effetti negativi anche sulle ultime tornate contrattuali.
Non solo: questo “scambio” ha contribuito a far peggiorare verticalmente le
condizioni lavorative, come hanno dimostrato anche ai “ciechi” la strage della
Thyssen o quella di poco successiva avvenuta a Porto Marghera. Inoltre, se non
bastasse il quotidiano stillicidio di morti sul lavoro, alla fine del 2007 è
stato pubblicato un rapporto della Confederazione Sindacale Europea in cui si
afferma che una grande percentuale di lavoratori è affetto da disturbi
muscolo-scheletrici collegati all’attività lavorativa.
Oggi da alcuni settori della sinistra sindacale viene posta l’esigenza di
battersi per mettere all’ordine del giorno la rivendicazione di un meccanismo
che adegui in maniera automatica ed efficace le retribuzioni all’inflazione.
Giusto. Così come è giusto rifiutare ogni scambio tra condizioni di lavoro e
salario e dare battaglia affinché nelle future piattaforme contrattuali trovi
spazio la chiara richiesta di forti e generalizzati aumenti. Affinché, però,
queste sacrosante rivendicazioni possano avere gambe su cui camminare è
indispensabile dire esplicitamente tre cose. Primo: simili obiettivi si possono
raggiungere solo se, anche andando controcorrente, si gettano le basi per una
ripresa generalizzata della mobilitazione operaia, contrastando sin da subito
ogni linea di deriva e di divisione aziendalista e territoriale. Secondo: una
tale lotta non si sposa affatto, anzi confligge duramente, con il miglioramento
della competitività delle aziende e dell’intero “sistema paese”. Terzo: serve
una linea d’azione che rovesci gli attuali indirizzi del movimento sindacale.
I vertici sindacali si stanno muovendo in direzione opposta. Da un lato, pur se
con dei distinguo soprattutto da parte della Cgil, convergono con la logica di
“scambio” su cui si basa la piattaforma padronale (e chiari segnali si hanno
nella discussione sulla riforma della contrattazione). Dall’altro lato, puntano
a rendere appena più consistente la somma che dovrebbe essere incassata dai
lavoratori, proponendo di accompagnare questo “scambio” con una riforma fiscale
che non si limiti ad intervenire sulla detassazione degli incrementi aziendali,
ma vada anche ad incidere sul fiscal drag, sulle aliquote Irpef, ecc. Il
sindacato guidato da Bonanni (in linea con la sua storica visione strettamente
aziendalista) è favorevole a privilegiare gli interventi a sostegno degli
aumenti legati alla produttività, ma chiede agli industriali la certezza (sic!)
della contrattazione integrativa per tutte le aziende. La Cgil, al momento,
sembra (sembra) puntare soprattutto su sgravi relativi a tutta l’intera
struttura della busta paga.
Che i tagli operati dalla mannaia fiscale sulle retribuzioni siano un importante
aspetto della questione salariale è indubbio. Una vera mobilitazione (non
annullata appena proclamata, come è successo nei mesi scorsi) su questo terreno
è urgente. Bisogna passare senza tergiversazioni alla mobilitazione
auto-organizzata per uno scontro con il governo che non è affatto più semplice
di quello contro il padronato e che non può minimamente essere condotto (al
contrario di quello che dice certa propaganda) in tandem con la Confindustria.
Non si tratta infatti di “correggere” degli ingranaggi (quelli fiscali) che
negli anni sono andati fuori posto, ma di dare battaglia contro uno dei pilastri
dell’accumulazione capitalistica.
La vorace macchina fiscale dei padroni…
La favola ufficiale narra che tanto tempo fa l’intera società giunse ad un
“accordo” per costituire tramite il fisco un fondo per le spese comuni e per
venire incontro a chi più avesse bisogno. Un’altra favola (anch’essa ufficiale)
dice che, col tempo, questo “servizio comune” (e coloro che lo gestiscono)
avrebbe approfittato della “delega” rilasciata dalla società civile per gravare
su di essa indistintamente (tanto sui padroni quanto sugli operai) senza fornire
in cambio i servizi promessi. La realtà, era ed è totalmente diversa.
Sin dal suo sorgere, il moderno meccanismo tributario ha avuto il fine di
rastrellare ricchezza dalla società per convogliarla a vantaggio degli interessi
immediati e strategici del capitale. Grazie al fisco la borghesia è riuscita nei
secoli ad edificare e a strutturare il suo enorme e parassitario apparato
statale. Burocrazia, polizia, eserciti: corpi ed organismi sempre più
elefantiaci, il cui fine ultimo e fondamentale è quello di esercitare funzioni
di controllo sociale e repressione sul proletariato interno ed internazionale, e
di “sostegno alla produzione”, cioè miliardi regalati agli imprenditori (si
pensi alla imponente mole di “aiuti” dati nel corso degli anni alla sola Fiat) o
finalizzati ad infrastrutture rivolte essenzialmente alle necessità
capitalistiche e non certo ai bisogni della popolazione.
Ma, si può obiettare, il fisco si fa carico anche di spese sociali come, ad
esempio, la sanità pubblica. Verissimo. Lasciamo per una volta da parte il
discorso sulla qualità sempre più indecente di tali servizi e sui costi
crescenti che si devono sostenere per analisi e ricoveri. Facciamo finta di
nulla e andiamo avanti. Il fatto è che, però, servizi come quello sanitario non
sono stati regalati. Lo stato e, dietro di lui, il capitale, sono stati
costretti a elargirli dal peso e dalla forza accumulata dalla classe
lavoratrice.
Lo stesso dicasi della tassazione progressiva, ovvero del meccanismo per cui chi
più guadagna, più (almeno in teoria) paga. Ad esempio, negli Usa (paese guida
del capitalismo mondiale) il massimo di progressività fiscale coincide con due
periodi. Quello a ridosso del 1917, quando bisognava arginare il contagio
rivoluzionario che dalla Russia sembrava potersi estendere a tutto il resto del
mondo industrializzato. E quello dei decenni immediatamente seguenti la grande
crisi del 1929, cioè quando si trattava di prevenire una ripresa su larga scala
della lotta di classe e di intruppare le masse sotto le varie bandiere patrie
per scatenare il secondo macello mondiale.
Spesa “sociale” e progressività delle imposte: è proprio questo il duplice
aspetto dell’attuale sistema tributario che la Confindustria vuole spazzare via
sull’onda di quello che la classe dei capitalisti è riuscita a fare negli Usa e
in Gran Bretagna. Quando invoca un apparato statale più snello e leggero, invoca
essenzialmente uno stato che si sia “finalmente” liberato di buona parte di quei
servizi che è tuttora costretto ad elargire ai lavoratori e in cui le imprese
siano quasi pienamente esentate dalla tassazione.
L’Italia ha già fatto un bel pezzo di strada in questo senso (vedi scheda). Ma è
ancora poco soprattutto in confronto a quanto sta avvenendo nel resto d’Europa.
Per le imprese tedesche dal primo gennaio la pressione fiscale è scesa dal 38,6
al 30% (in Italia è al 37,25), mentre nella quasi totalità dei paesi dell’Est ci
sono flat tax, livelli di imposizione fiscale unificati con una sola aliquota
per tutti, da sogno (per il capitale): Serbia al 14%, Russia addirittura al 13%
(come l’Ucraina), Slovacchia al 19%, Romania al 16%, la primatista (nel peggio)
Georgia al 12%. Livelli ben al di sotto del 26% con cui l’Estonia inaugurò, nel
1994, questa corsa al ribasso dei prelievi statali dal capitale e dalle rendite,
questo dumping fiscale, che si sta spostando ora verso Occidente con Grecia e
Germania già percorse da proposte che vanno in questa direzione, seppure su
altri livelli rispetto all’Est (per la Germania si è ipotizzata una flat tax al
25%).
… e la lotta contro di essa.
La lotta contro la mannaia del fisco sui salari non può, quindi, essere condotta
fianco a fianco con il padronato. Essa va accompagnata con quella per difendere
e migliorare la qualità dei servizi sociali e per estenderne la gratuità per i
proletari. Ma va accompagnata anche a quella per difendere e incrementare il
reale potere d’acquisto delle buste paga perché il salario operaio è un tutt’uno
e va difeso sia sul suo versante indiretto (spesa sociale) che, a maggior
ragione, su quello diretto (retribuzione).
Sul versante fiscale va rivendicata la forte, secca e generalizzata detassazione
dei salari. Affrontata a muso duro la tassazione locale (nel 2007 è stato
calcolato che le imposte comunali sono aumentate di circa il 17%). Amputata
quella indiretta, cioè quella forma di prelievo fiscale che si nasconde nei
prezzi delle merci (si pensi alle tasse gravanti sui carburanti o all’Iva) e che
è la più iniqua di tutte poiché è pagata nella stessa misura tanto dai “ricchi”
quanto dai “poveri”.
Parte integrante di questa battaglia è affrontare la questione dei ceti medi da
un punto di vista di classe. A tal proposito riflettiamo su quanto accaduto nei
primi mesi di vita del governo Prodi, allorquando i poteri forti finanziari ed
industriali incoraggiarono l’esecutivo a prendere delle misure atte a limitare
l’evasione fiscale dei ceti medi e a canalizzare le risorse così recuperate
verso il cosiddetto “capitale produttivo”. Alcuni provvedimenti furono presi. Si
trattò di misure ultratimide, di scarso impatto sul versante economico, ma che
volevano avere ed ebbero un discreto impatto sul versante politico: la
deviazione contro la classe proletaria della rabbia di questi settori che, gonfi
di veleno, sono scesi (cosa rarissima) in piazza. Non contro chi realmente
muoveva i fili del governo Prodi, cioè il mondo dell’alta finanza e della grande
industria. Bensì contro il movimento sindacale, individuato come il “vero”
burattinaio della situazione.
Ricordare quanto successo sul finire del 2006 è importante per il futuro perché
dimostra come sia suicida per il mondo del lavoro accodarsi alle politiche
dettate dal grande capitale quand’anche queste si presentino condite con
elementi di (apparente!) “giustizia fiscale”. Per evitare il compattamento
reazionario dei ceti medi accumulatori intorno al grande capitale e
neutralizzarne l’attivizzazione antiproletaria, occorre che la classe proletaria
si dimostri determinata a difendere in modo intransigente i suoi interessi,
imponga che, a prescindere e contro le necessità del debito pubblico e del
“sistema Italia”, a pagare non siano più i lavoratori e rivendichi che la crisi
dello stato e dell’economia capitalistica sia scaricata sui grandi magnati della
finanza, delle banche e dell’industria”.
Per far ciò, è necessario che i lavoratori riconquistino una politica di classe
che sappia far vivere all’interno dell’intera società la prospettiva di una
nuova e diversa organizzazione sociale non più bisognosa di un opprimente ed
esoso apparato burocratico perché non più basata sulle leggi del mercato, del
profitto e della concorrenza, ma su quelle della solidale cooperazione di tutta
l’umanità lavoratrice. Una società dove non vi saranno più pesci grandi alla
perenne caccia di quelli piccoli. Certo, si tratta di una prospettiva la cui
riconquista non potrà essere né facile né “tutta di un botto”. Ma già oggi si
può iniziare ad andare in tale direzione affrontando correttamente le questioni,
anche “minime”, che si pongono sul tappeto.
I vari aspetti dell’attacco capitalistico (fiscale, salariale…) si tengono e si
danno forza l’uno con l’altro: bisogna lavorare alla costruzione di una
mobilitazione generale contro l’insieme di essi. Una lotta che va presa
direttamente nelle proprie mani e che deve puntare a cancellare, livellandoli
verso l’alto, tutti i differenziali salariali e normativi esistenti tra
lavoratori di diverse regioni, di diverse aziende, di diverso sesso e tra
italiani ed immigrati. Una battaglia che richiede che i più attivi tra gli
operai inizino a porsi il problema di tessere rapporti internazionali con gli
altri lavoratori, a cominciare da quelli che nell’Europa dell’Est stanno
iniziando a rialzare la testa contro la politica dei salari stracciati e degli
orari pesantissimi imposta dal capitale occidentale.
Seguono schede
Prima scheda.
Bassi salari, tante differenziazioni
Secondo uno studio dell’Ires-Cgil a fine 2006 lo stipendio medio di un
lavoratore dipendente in Italia era inferiore a 1.200 euro.
Disaggregando tale informazione si può scoprire che al Sud la media scende a 969
euro, mentre quella delle donne lavoratrici si attesta a 961 euro, nelle piccole
imprese siamo a 866 euro, con gli immigrati a 856 euro e con i un giovani da
poco assunti a 854 euro.
Seconda scheda.
Una torta sempre più piccola?
Dal 1993 al 2006 la produttività in Italia è cresciuta di 16,7 punti
percentuali. Di questi 2,2 (il 13% del totale) sono andati alle retribuzioni e
14,5 (l’87%) alle imprese.
Anche negli altri e maggiori paesi occidentali, in questo quindicennio, la
suddivisione degli incrementi di produttività è stata simile a quella italiana:
ovunque le aziende hanno fatto (alla grande) la parte del leone.
Questi dati dimostrano che il problema salariale non è dovuto ad una “torta” che
tende a restringersi. La torta cresce, e come se cresce! Il fatto è che il
capitale è bulimico e non non è mai sazio di quello che spreme dal lavoro
sociale.
Terza scheda.
L’idrovora fiscale
Dal 2000 al 2006 a causa della mancata restituzione del “fiscal drag” l’aliquota
Irpef media sui salari è salita dal 18,5 al 19,5%. Nello stesso tempo la
tassazione sulle rendite è pari al 14,9% e il lavoro autonomo (che assorbe il
25% dell’occupazione) si fa carico solo del 10% delle entrate tributarie.
Inoltre negli ultimi 14 anni le aliquote medie di tassazione sui profitti delle
imprese sono scese in Italia dal 52 al 37,25% (in Europa dal 38 al 24,2%),
mentre si stima che l’evasione fiscale sia tuttora superiore agli 80 miliardi.
Intanto gli interessi passivi sul debito pubblico (cioè quanto viene pagato a
chi detiene titoli di stato) hanno raggiunto nel 2007 la quota di 74,5 miliardi
di euro, cioè il valore di tre o quattro manovre finanziarie.
Dalle cifre appena riportate si può vedere come il fisco, lungi dall’essere uno
strumento redistributivo, sia invece un gigantesco aspiratore che preleva
risorse dai salari e le riversa verso i possessori di capitale. I dati ad
esempio dicono che il debito pubblico è per il 55% in mano ad istituzioni
finanziarie internazionali, per il 31% ad altri intermediari finanziari, per un
7% alle imprese e solo per il restante 7% alle famiglie (in buona parte non
proletarie).
Quarta scheda. Vorrei ma non posso
La lotta contro gli sprechi e gli sperperi del mastodontico
apparato statale e burocratico sembra essere diventata una bandiera comune a
tutti gli schieramenti politici ufficiali. Essa viene presentata come un terreno
sul quale gli interessi padronali e quelli operai possono e devono felicemente
coincidere. Veltroni è uno dei principali sponsor di tale matrimonio e il
ragionamento a supporto della tesi appare lineare: snellendo e tagliando la
macchina burocratica si potranno salvare capra e cavoli; si libereranno risorse
per sostenere la competitività delle aziende e, contemporaneamente, si potranno
salvaguardare gli attuali livelli di spesa sociale. Uno stato “snello”,
supportato da un fisco “agile”, sembrerebbe dunque essere interesse di tutti…
con tanti saluti alla “vecchia e superata” lotta di classe.
Il “problemino” è che un simile stato nella società capitalistica semplicemente
non può e non potrà mai esistere. Nel capitalismo lo stato è lo strumento con
cui un infima minoranza (la grande borghesia) della società domina, controlla e
sottomette la stragrande maggioranza dei suoi membri alle esigenze
dell’accumulazione capitalistica. La crescita elefantiaca degli apparati
burocratici, polizieschi e militari trova la sua radice proprio in ciò, nella
necessità di mantenere sotto controllo e contrastare gli antagonismi sociali
prodotti a scala sempre più allargata da questa accumulazione, sia sul piano
interno che su quello internazionale.
Qui in Italia la faccenda può anche manifestare alcune particolarità, ma nella
sostanza si tratta di un fenomeno mondiale. Capitalismo e “governo a buon
mercato” sono termini tra loro inconciliabili a tutte le latitudini. Lo
conferma, tra l’altro, l’evoluzione dell’apparato fiscale e statale negli Usa,
nel paese cioè in cui si è compiuta la “rivoluzione per un fisco leggero”.
Solo il proletariato rivoluzionario potrà amputare la sanguisuga fiscale.
Perché, preso il potere, dovrà schiacciare solo una minoranza e marciare verso
un’organizzazione sociale senza classi, senza gli antagonismi ad esse connessi e
senza stato.
Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA