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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

Il Kosovo “liberato”: un semi-deserto militarizzato

Per il responsabile strategico della Banca Mondiale, Neil Bush, il Kosovo è un positivo esempio del funzionamento dell’economia di mercato. Passarne in rassegna i caratteri è, quindi, sommamente istruttivo per vedere cosa riserva tale economia ad un paese colonizzato.
Anzitutto: come in ogni paese libero che si rispetti, nel Kosovo “liberato” le leve del potere sono nelle mani delle potenze occidentali.
La polizia, la giustizia e l’amministrazione civile sono dirette dalla missione Onu-Unmik. È ancora l’Unmik ad avere in mano l’amministrazione delle proprietà mobili e immobili del paese, che ha avuto la premura di far passare il controllo delle banche locali ai gruppi europei (soprattutto austriaci, belgi e tedeschi). Il potere militare spetta, invece, alla Nato (missione Kfor), presente con 17-20 mila soldati (2000 italiani), la maggioranza dei quali si trova a Camp Bonsteel, la più grande base militare Usa in Europa, e a Pristina, diventata un vero e proprio quartier militare.
La Kfor e l’Unmik esercitano, di fatto, un potere illimitato, coadiuvate nella loro funzione di comando da uno sciame di organizzazioni non governative (circa 4.000), denominate dalla popolazione locale “Mango”, ovvero “Mafia Ngo”, nelle cui mani sono affluiti dal 1999 dai 3 ai 4 miliardi di euro. I partiti kosovari sono semplici esecutori delle decisioni dei rappresentanti delle grandi potenze; l’Unmik detiene perfino il diritto di bloccare gli atti parlamentari e di sciogliere il parlamento. Per evitare sorprese, comunque, è stato creata anche un’Institution Building, a guida Ocse, incaricata di soprintendere la trasformazione delle istituzioni kosovare in conformità ai desiderata occidentali.
Sotto la cura di simili avvoltoi l’economia e la società kosovare sono ovviamente rifiorite. Il settore trainante dell’economia kosovara (con circa il 70% del prodotto interno lordo) è diventato quello del traffico di donne e bambini, di armi e di droga. L’attività produttiva è completamente in ginocchio. La produzione industriale, pari al 46% del prodotto interno lordo nel 1989, è scesa al 15% negli anni della guerra e nel periodo di amministrazione Unmik si è assestata attorno al 17%. Anche la produzione agricola è vistosamente arretrata, non da ultimo a causa della diffusa presenza dell’uranio impoverito, disseminato dai bombardamenti dei “liberatori” occidentali. A completare questo quadro di devastazione, nell’agosto del 2000 la Kfor ha pensato bene di chiudere d’imperio il più grande complesso industriale della regione, le miniere di Trepca, con il misero pretesto dell’infrazione degli standard ambientali. In realtà si è voluta spazzare via l’ultima e importante concentrazione operaia di questa regione, per il timore che essa potesse diventare un punto di aggregazione della delusione e dello scontento che si è diffuso in questi anni nei confronti dei militari e dei magnaccia occidentali, e che si è manifestato clamorosamente di recente con una scarsissima partecipazione alle ultime elezioni e anche ai festeggiamenti organizzati per la cd. “indipendenza”. Una presenza scomoda, quella dei minatori di Tresca, da spazzar via, anche perché (altro fatto sgradito, benché su di un altro piano) si trattava di impianti di proprietà serba. Oggi i cartelli statunitensi ed europei (tra cui la Thyssen Krupp) stanno concorrendo per appropriarsi di questi stabilimenti, dove un tempo lavoravano circa 20.000 persone, e si può esser certi che se ed ove dovessero riaprire, lo sarebbero con una forza lavoro decimata. Don’t disturb!
Pressoché nessuna delle infrastrutture fondamentali per la popolazione funziona. La produzione dell’energia elettrica, ad esempio, nettamente insufficiente sia per le esigenze della popolazione che per quelle produttive, avviene attraverso generatori privati, perché quella pubblica non è costante e fortemente diversificata: il territorio è diviso in zone di serie A, B e C; i paesi più poveri che non riescono a pagare l’elettricità vengono classificati sotto la categoria “C” e possono fruirne solo quando ci sono dei sopravanzi nella produzione. A dimostrazione dell’estrema imparzialità dei “liberatori”, le zone serbe sono le più sfavorite. L’Unmik rifiuta inoltre qualsiasi collegamento con la Serbia per l’approvvigionamento energetico, progettandolo invece con l’Albania.
Date queste condizioni, è inevitabile che il Kosovo importi merci per un valore 10-20 volte superiore a quello delle merci esportate, mentre il suo enorme debito estero gli impone una politica finanziaria restrittiva.
Mentre i prezzi sono più o meno a livello di quelli europei, il salario medio è di 200 euro al mese e le pensioni di invalidità sono di circa 52 euro. Il 50% della popolazione è disoccupata, il 75% povera o indigente. Sotto l’amorevole cura dei suoi “liberatori”, anche il Kosovo come il resto della ex-Jugoslavia, è stato trasformato in un bacino dell’esercito industriale di riserva che necessita al capitale occidentale per tenere basso il costo della forza-lavoro. Un bacino, un territorio con una fortissima emigrazione: a partire dagli anni ’90, infatti, è emigrato verso l’Europa occidentale un terzo dei kosovari, vittime della “pulizia di classe” targata Kfor-Unmik.
A completare il quadro, vi è la schifosa opera di sistematica “etnicizzazione” della vita sociale, formalmente delegata alla manovalanza delinquenziale o clanica locale contro i serbi, i rom, gli ashkali, i gorani e i turchi (in cui ha avuto un ruolo di primo piano anche il “partito” del criminale Thaci). I fatti più gravi sono i pogrom del marzo 2004 a Glavanica e Gracanica, dove “malgrado” (?) la presenza di 17 mila soldati della Kfor e 4000 poliziotti dell’Unmik, sono state uccise 17 persone, ferite 900 persone e cacciate dalle loro case circa 7.000 persone. Dal 1999, tra i 150 e i 200 mila serbi kosovari sono fuggiti verso la Serbia, dove vivono ancora in hotel sistemati come campi profughi e conducono un’esistenza segnata dalla disoccupazione, senza alcun significativo sostegno da parte del governo di Belgrado.
Distruzione dell’economia produttiva, miseria nera, traffico di donne e bambini da avviare alla prostituzione o all’espianto di organi, emigrazione di massa, fiumi di droga, pulizia etnica: evviva i liberatori del Kosovo e dei Balcani!

(I dati presentati in questo riquadro sono tratti dall’articolo di Hannes Hofbauer Kosovo: die Rückkehr des Kolonialismus, dal libro di Maciej Zaremba Kosovo ou Unmikistan e dal numero di Limes del dicembre 2006, “Kosovo, lo stato delle mafie”)
 

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

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