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Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

L’Iran tra sviluppo economico, lotta di classe e minacce di guerra

I lavoratori e i giovani impegnati negli anni scorsi contro la “guerra infinita” continuano ad essere sordi ai rumori di guerra contro l’Iran. Passati in sottordine anche nella manifestazione di Vicenza del dicembre 2007 e nelle rare e scarne assemblee sulla questione “pace-guerra” che l’hanno accompagnata.
Ma i preparativi continuano. E ad essere nel mirino, al di là di Ahmadinejad e soci, sono i lavoratori dell’Iran e del Medioriente e con essi i proletari dell’Asia e del mondo intero. Anche quelli indifferenti della nostra Italietta. Torniamo a denunciarlo in questo numero con una rapida ricognizione della situazione sociale interna all’Iran.

L’immagine dell’Iran diffusa dai media occidentali è un puzzle di interessati luoghi comuni. Uno di questi, assai diffuso in Occidente, vuole che in Iran regnerebbero solo arretratezza estrema e altrettanto estrema miseria. L’Iran, invece, sta conoscendo da quasi un decennio un rigoglioso sviluppo capitalistico, che partecipa di quello dell’intero continente asiatico.

Il “miracolo economico”

Dopo il regresso subìto negli anni ottanta per il peso della guerra con l’Iraq e dopo la lenta ripresa degli anni novanta (+1,7% annuo del prodotto interno lordo), l’economia dell’Iran è decollata a partire dal 2000 fino ai ritmi del 7% del 2005, trainata, oltre che dalla crescita degli introiti petroliferi, anche dallo slancio della produzione manifatturiera e da un livello del saggio di profitto (17%) ben superiore a quello degli anni settanta (10%). L’economia della repubblica islamica si è di fatto ricollegata al trend della modernizzazione capitalistica vissuta dal paese sotto lo scià. Con due differenze, che fanno ringhiare i capitalisti occidentali. Da un lato, un grado inferiore di estroversione e di sottomissione alle multinazionali occidentali. Dall’altro, alcuni interventi nazional-popolari in campo sanitario, scolastico, previdenziale, residenziale, di controllo dei prezzi delineanti una (sotto)specie di “welfare islamico”.
La repubblica islamica ha utilizzato l’accresciuta rendita del petrolio e del gas (che coprono tuttora l’80% delle esportazioni) per cominciare a ridurre la dipendenza della produzione manifatturiera dall’estero e per incrementare l’esportazione di prodotti (1). A tal fine la classe dirigente iraniana si è avvalsa dell’interesse della Cina e, in parte, di alcuni paesi europei di disporre degli idrocarburi senza passare attraverso il rifornitore statunitense (2) e di investire in un paese che ha un vasto mercato interno ed è cruciale per il controllo dell’area. Significativi, a tal proposito, due elementi.
Il primo è l’insieme di condizioni che Teheran stabilisce con le imprese estere che investono nel paese. Nel settore petrolifero impone il contratto buy back, con il quale la National Iranian Oil Company (Nioc) chiede agli investitori non solo una royalty sul ricavato dalla vendita degli idrocarburi ma anche un investimento in tecnologia che, al termine dell’accordo, deve passare nelle mani dello stato iraniano. Nel settore automobilistico la classe dirigente iraniana ha offerto condizioni fruttuose agli investimenti delle multinazionali con il vincolo per queste ultime di apportare al paese un reale trasferimento di tecnologia. La Samand, il modello di auto oggi esportato in tutto il Medioriente, in Asia centrale e in Russia, era originariamente un mero assemblaggio di pezzi Renault; nel frattempo è diventato il prodotto di un’industria automobilistica nazionale che sa stare sulle sue gambe e che, con un’occupazione complessiva di mezzo milione di lavoratori, ha quadruplicato la sua produzione tra il 1996 e il 2005.
Il secondo elemento è costituito dal tentativo portato avanti da Teheran, con un gioco di sponda con Caracas e con Mosca, di aprire una borsa di contrattazione degli idrocarburi in euro nell’isola di Kish (3). Attualmente la gran parte degli idrocarburi estratti nel mondo viene venduta su due sole piazze finanziarie (quella di New York e quella di Londra) sotto il controllo delle imprese statunitensi e sulla base del dollaro come moneta di contrattazione. Il progetto della borsa di Kish è, quindi, un atto di sfida sia al ruolo monopolistico detenuto dal capitale finanziario Usa nel settore petrolifero che al ruolo del dollaro come moneta di riferimento internazionale e, quindi, alla stabilità del sistema finanziario planetario.

Di nuovo in campo gli operai

Incoraggiata da questo essor capitalistico, la classe operaia iraniana è tornata a far capolino sulla scena sociale e politica. Una classe operaia forte di almeno cinque milioni di unità (su una forza-lavoro iraniana complessiva di 24 milioni di occupati), ripartiti oltre che nei settori tradizionali dell’estrazione del petrolio, del tessile e dell’edilizia, anche in settori quali l’auto, la farmaceutica, l’aeronautica, la siderurgia.
Il proletariato industriale, un proletariato con una grande e lunga tradizione politica legata anche al bolscevismo sovietico, costituì la forza sociale motrice della insurrezione del 1979. Senza il grandioso sciopero degli operai petroliferi, la dittatura dello scià non sarebbe stata messa in ginocchio e spazzata via come un fuscello. Ma la direzione politica del moto anti-imperialista e il potere statale furono, tuttavia, assunti dal partito khomeinista. Un disgraziato concorso di circostanze, internazionali prima ancora che interne, fece sì che questo partito, dopo avere stroncato nel sangue i nuclei di classe più combattivi e coscienti, riuscisse a conquistare un’ampia influenza non soltanto tra i diseredati neo-inurbati delle bidonvilles metropolitane, ma anche nei ranghi della stessa classe operaia. Dopo la catastrofe della sinistra storica (il Tudeh) e la semi-dissoluzione di quella di nuova formazione (i fedayn del popolo e il Pc dell’Iran), molti proletari, anche di fabbrica, furono indotti a vedere nello sviluppo di un capitalismo “indipendente” in veste islamica, il vettore con cui sfuggire alle tribolazioni conosciute sotto il regime dello scià. Da parte sua la repubblica islamica provvide a devitalizzare ed epurare i consigli di fabbrica creati durante la rivoluzione, sostituendoli con gli shora-ye-islami, organismi corporativi rappresentativi sia dei manager che dei lavoratori (e se questi interessi non possono essere rappresentati insieme nei paesi ricchi senza gravi danni per i lavoratori, immaginiamoci cosa accade nei paesi dipendenti!). Attraverso tali shora-ye-islami e la retorica della fratellanza tra tutti gli islamici a prescindere dal ruolo sociale ricoperto (figurarsi!), il regime di Teheran si è sforzato di attivare e consolidare nel tempo la collaborazione tra capitale e lavoro. Il risultato di questa accorta combinazione di repressione e demagogia, di cui lo stesso Khomeini dei secondi anni ’70 è stato un campione, fu la scomparsa di un’attività sindacale e politica dei lavoratori separata dall’apparato statale e dalle direzioni aziendali alla quale il proletariato iraniano s’era destato nel 1978-1980 e il ripiegamento di essa nel tentativo di difendere entro le istituzioni corporative della repubblica islamica le tutele immediate strappate nella fase vulcanica della rivoluzione. Da allora ai primi anni del XXI secolo i lavoratori iraniani si sono fatti sentire più volte. Con alcuni scioperi e una serie di rivolte, soprattutto nel corso degli anni novanta (4). Ma senza trovare la forza di uscire dalla paralisi politica iniziata nel 1981, rispetto alla quale le lotte proletarie iniziate nel 2004 sembrano segnare un’embrionale inversione di tendenza.
Alla origine di esse vi sono lo slancio capitalistico conosciuto dall’Iran negli ultimi anni e, nello stesso tempo, i vincoli che lo stanno soffocando. Di fronte allo sviluppo del paese e all’arricchimento, spesso ostentato, degli strati dirigenti dello stato, i proletari iraniani hanno cominciato a rivendicare la loro parte di una torta che, giustamente, considerano il frutto del proprio lavoro. Ma a sospingerli in campo è stata, contemporaneamente, l’asfitticità dello sviluppo produttivo che li ha incoraggiati. Il quale, pur sostenuto, è in grado di assorbire solo una piccola quota del milione di giovani (5) che ogni anno si presenta sul mercato del lavoro. Con effetti a catena anche sulla parte occupata del proletariato.
Molti di coloro che si affacciano sul mercato del lavoro provengono da quelle aree rurali che negli anni scorsi avevano parzialmente assorbito la polarizzazione sociale strisciante in atto del paese. Ora, invece, cresce il numero degli inurbati. Nelle città, soprattutto a Teheran, si allargano le periferie degradate e la massa di persone che vive di lavori saltuari, piccoli commerci o grazie all’assistenza delle istituzioni caritatevoli. Il tasso di disoccupazione è ben superiore al 15% ufficiale. L’elevato (rispetto ai tempi dello scià e alla media dei paesi circostanti) livello di scolarizzazione della gioventù iraniana contribuisce a caricare l’aria già satura di elettricità. Di cui sono sintomi significativi l’elevato numero di suicidi, il crescente consumo delle droghe, chimiche e derivati dell’oppio, soprattutto tra i settori più diseredati del mondo del lavoro e la fascia altamente scolarizzata (6).
Il morso che trattiene lo sviluppo economico e sociale in Iran non deriva solo dalle sanzioni votate nel 2006-2007 dall’Onu e da quelle aggiunte unilateralmente dagli Stati Uniti, che stanno ostacolando l’urgente ammodernamento delle infrastrutture petrolifere dell’Iran (7) a tal punto che ancora oggi il paese estrae solo 4 dei 6 milioni di barili di petrolio estratti nel 1978. L’impatto delle sanzioni è, però, diluito, per ora, dalla crescita dei rapporti economici con paesi, come la Russia e la Cina, in grado di fornire, almeno in parte, le attrezzature avanzate di cui l’Iran ha bisogno (8). A pesare sulla modernizzazione capitalistica dell’Iran è, soprattutto, l’azione soffocante dello stesso meccanismo che la stimola, il capitalismo mondializzato, i cui centri direttivi impulsano lo sviluppo di un’area solo se e nei settori in cui vi possono estrarre sovrapprofitti senza pagare “dazi” eccessivi agli sfruttatori locali, e in quanto la possono utilizzare per ridurre all’ordine i popoli e i lavoratori renitenti di altri paesi, di altri continenti. Questo “gioco” inchioda uno dei massimi produttori mondiali di petrolio, l’Iran appunto, ad importare un terzo del suo fabbisogno di benzina (25 milioni di litri al giorno) perché sono insufficienti le attrezzature necessarie alla lavorazione della materia prima. Per cui, con le loro rivendicazioni sull’aumento dei salari, sugli arretrati, sulle condizioni e la durata del rapporto di lavoro, i lavoratori dell’industria dell’Iran stanno pungendo nel vivo non solo gli interessi dei capitalisti iraniani e degli investitori internazionali, ma anche quelli dell’intero meccanismo di accumulazione mondiale. Soprattutto perché hanno iniziato un percorso di loro propria auto-organizzazione separata dalle altre classi sociali (9).

Ancora troppe illusioni sulla repubblica islamica!

Inizialmente i lavoratori hanno rivolto le loro rivendicazioni al sindacato ufficiale e alle istituzioni della repubblica islamica. Rimasti di fatto senza risposta, sono stati costretti a riscoprire via via le armi della lotta di classe, a svincolarsi dall’abbraccio corporativo dei sindacati ufficiali, ad infrangere la bolsa retorica dell’unità-omogeneità dell’umma islamica. Non ci sono solo gli scioperi aziendali e le giornate di mobilitazione nazionale sui problemi dei lavoratori. C’è l’intelligenza di sfruttare gli spazi offerti dalla legislazione della repubblica islamica, per disporre, come lavoratori, di momenti stabili di incontro e di discussione: ad esempio, quelli legati alle attività delle associazioni escursionistiche e delle leghe di mutuo soccorso. Stanno costituendosi anche primi nuclei clandestini.
Siamo ben lontani da un’organizzazione e da un programma classisti, anche solo ultra-minoritari. Un settore attivo di lavoratori continua a riconoscersi nella repubblica islamica, che ritiene – quale illusione! - di dover e poter ricondurre, secondo la prospettiva radical-sociale di Shariati, sulla via della “giustizia sociale”, alla sua ispirazione originaria, contro le brame di arricchimento, la corruzione e la debolezza verso i padroni occidentali degli squali à la Rafsajani. Ma comincia a farlo, è questo l’importante, sulle gambe di un’attivizzazione in proprio, con la volontà di riconquistare organizzazioni indipendenti dei lavoratori esterne al consiglio islamico del lavoro e con la politicizzazione in corso delle contese sindacali entro questo stesso organo. (10)
Le potenze occidentali vedono le potenzialità di quello che si è messo in moto. In gioco, per esse, non c’è solo l’acquisizione del petrolio alle condizioni desiderate e la messa in riga delle aspirazioni nazionaliste della borghesia iraniana. C’è anche e soprattutto il timore che la retorica antimperialista islamica non riesca a contenere l’embrionale ripresa proletaria in corso. E che tale ripresa possa coagulare su più ampia scala la rabbia e la disperazione dei diseredati iraniani e trasbordi nell’area verso gli operai petroliferi dei paesi del Golfo Persico, verso il vulcano sempre acceso in Palestina, verso la resistenza in Libano, verso gli operai e i lavoratori egiziani, anch’essi protagonisti di magnifiche lotte, verso i due milioni di proletari iracheni emigrati in Giordania e in Siria e supersfruttati dai “fratelli” capitalisti arabi.
La preoccupazione delle cancellerie occidentali ha trovato una conferma nel fallimento del loro tentativo, coadiuvato dall’Afl-Cio, di blandire le iniziative dei conduttori di autobus di Teheran per favorire un cambio di regime filo-occidentale in Iran. Simili manovre non sono andate lontano, al pari di quelle rivolte alle donne dell’Iran, sulla cui condizione e sulla cui mobilitazione ci soffermeremo nei prossimi numeri del che fare. Non sono andate in porto perché l’evoluzione della situazione sociale nei paesi dell’Est dopo il 1989 ha educato i lavoratori e gli oppressi di tutto il mondo e perché il ricordo della rivoluzione del 1979, e del ruolo che vi svolse l’Occidente, è ancora vivo tra gli sfruttati iraniani.
Le potenze occidentali sognano di ristabilire l’ordine imperialista a Teheran senza un diretto intervento militare, che avrebbe rischiose complicazioni. Sperano che Teheran, messa alle strette dalle sanzioni, dall’attizzamento dei secessionismi regionali nel nord e nel sud del paese e da altri ricatti, si pieghi ad un compromesso a loro favorevole. Solleticando l’orgoglio persiano contro il circostante mondo arabo, sono disposte a riconoscere un qualche ruolo allo stato iraniano nell’area in cambio della consegna del movimento degli Hezbollah e di Hamas al piombo imperialista e dell’assunzione del ruolo di gendarme (un tempo svolto dallo scià) verso il traballante mondo arabo. Contano così di stabilizzare il Medio Oriente offrendo la loro copertura alla borghesia iraniana per mettere in riga il proletariato iraniano, spingere in un angolo la Russia e accerchiare la Cina, penalizzandola nei suoi rifornimenti di petrolio e nella sua proiezione verso lo scrigno di materie prime africano.
L’alternativa a questa soluzione “pacifica” è quella di uno scontro militare colossale. Nel quale l’Occidente sta mettendo in conto l’uso dell’arma nucleare come unico deterrente per terrorizzare l’ira delle popolazioni dell’Iran e del mondo islamico. Nell’uno come nell’altro caso, un’eventuale risottomissione dell’Iran all’Occidente riserverebbe ai lavoratori di tutto il mondo un’amara “novità”: lo schiacciamento della resistenza di decine di milioni di lavoratori al dominio totale della sferza del capitale mondializzato, ed un’accresciuta concorrenza tra lavoratori sul mercato del lavoro mondializzato.

Né Rafsanjani, né Ahmadinejad: i lavoratori possono contare solo su sé stessi.

La lotta dei lavoratori iraniani contro la morsa che si sta chiudendo sul loro paese non può contare sulla sponda della borghesia dell’Iran. Non perché essa sia asservita all’Occidente. Non lo è né l’una - i capitalisti rappresentati da Rafsajani e da Khatami, amanti della pace sociale interna e di quella con l’imperialismo - né l’altra - la direzione dell’apparato militare e alcune fondazioni, grandi imprese iraniane con attività in molti settori e centinaia di migliaia di dipendenti - delle frazioni in cui è diviso l’establishment iraniano.
Nessuna di queste due frazioni vuole compradorizzarsi. Entrambe vogliono portare avanti lo sviluppo capitalistico in corso. C’è chi ritiene conveniente farlo sulla base del patteggiamento con l’Occidente, soprattutto perché si vedrebbe garantito di fronte al pericolo sociale interno. Ma con quale contropartita sul piano delle proprie tasche e del proprio potere nell’arena capitalistica mondiale? In un mercato mondiale in cui infuria lo scontro rivelato dalla crisi dei subprime, è forse possibile entrarvi alla “pari” con i “grandi briganti” senza esservi ridotti alla dimensione di pidocchi? C’è chi, invece, l’ala populista-militarista della classe dirigente iraniana, sta prendendo atto che all’Iran una simile contrattazione non lascerebbe granché e, edotta dalla lezione jugoslava e irachena, si sta organizzando per resistere alla pressione esterna proiettando contro il nemico imperialista la carica eversiva del fronte interno, e così mantenerne il controllo. Come fece Khomeini negli anni ottanta. Il suo progetto nucleare è un tassello di questa politica.
I lavoratori iraniani hanno interesse ad ingaggiare lo scontro che l’imperialismo ha lanciato sulla loro testa. Ma non possono farlo appoggiando l’opzione Ahmadinejad perché la strada indicata da Ahmedinejad si arresterebbe davanti all’unica prospettiva in grado di affrontare con efficacia lo scontro con l’imperialismo: l’armamento popolare, il controllo popolare della produzione e della vita sociale interna, l’appello agli sfruttati dell’area circostante al di sopra delle divisioni nazionali, religiose, statuali che ne frantumano al momento le fila. Vi si oppone già oggi perché una simile prospettiva nuocerebbe terribilmente agli stessi interessi iraniani, dell’Iran come nazione borghese, in quanto metterebbe in discussione l’intero ordine capitalistico nell’area. Una previsione dettata dal pregiudizio la nostra? Nient’affatto. L’esperienza passata della lotta all’imperialismo indica costantemente un comportamento vigliacco delle borghesie nazionali dei paesi oppressi o controllati. Ne abbiamo avuto una prova anche con una borghesia nazionale, come quella rappresentata da Saddam Hussein, che ha cercato fino all’ultimo di tener testa agli Usa e all’Ue.
La stessa politica interna di Ahmadinejad parla in questo senso. Aveva promesso di “distribuire le entrate del petrolio sulle tavole di tutti gli iraniani”. Cosa è successo in realtà? Risponde il segretario della sezione del “consiglio islamico del lavoro” di Eslamshahr, sobborgo operaio alle porte di Teheran: “Quanto a distribuire, il governo di Ahamdinejad ha distribuito. Dai pacchi di cibo alle gratifiche, ai sussidi per le giovani coppie che devono trovare casa… Ma questa è [solo] spesa assistenziale. E non ha impedito che nel frattempo l’economia sia andata a rotoli” (il manifesto, 12 marzo).
Per quanto, poi, il presidente iraniano si appelli ai fratelli del mondo arabo-islamico, contribuisce a mantenere le divisioni e le diffidenze tra i lavoratori persiani e quelli arabi e di altre nazionalità, come attesta il suo schieramento in Iraq pro-al Maliki. Contro l’accerchiamento occidentale, Ahmadinejad afferma che il popolo e i lavoratori iraniani possono contare sulla protezione internazionale derivante dalla collaborazione economica con la Cina e dalla alleanza con la Russia (di recente suggellata con la visita di Putin a Teheran). Ma anche qui siamo in presenza di una palla al piede, non di un salvagente.
Il sostegno della Russia e della Cina all’Iran è, infatti, legato a specifici interessi capitalistici e, proprio per questo, non è disposto ad alcun sostegno alla lotta degli sfruttati iraniani contro l’imperialismo. Basti considerare il consenso di Mosca e Pechino alle tre risoluzioni dell’Onu (l’ultima il 3 marzo 2008), che hanno varato le sanzioni contro l’Iran. La Russia e la Cina vedono come il fumo negli occhi il pressing occidentale su Teheran, ma sono ancor più determinate a non permettere che si metta in moto il mondo degli sfruttati mediorientali, che anche per Mosca e Pechino deve accettare il destino riservatogli dalla divisione internazionale del lavoro così da garantire la prosperità dei profitti delle imprese russe e cinesi. Tanto per dire: recentemente la Sinopec e altre imprese cinesi sono entrate in contrasto con l’Iran perché ritengono troppo onerose le condizioni chieste da Teheran nei contratti buy back in corso di definizione. Gli alleati dei lavoratori stanno da tutt’altra parte: non nei governi della Russia e della Cina, ma tra i lavoratori russi e cinesi, non nei presunti governi europei “amici”, come quello italiano, o in una futura amministrazione democratica statunitense, ma tra i lavoratori europei e statunitensi, ridestati a sé stessi!

Note

(1) Di cui è parte lo sforzo per dotarsi delle centrali nucleari.
(2) La Cina importa dall’Iran il 13% del suo fabbisogno di petrolio.
(3) L’idea era già venuta in mente a Saddam Hussein agli inizi del nuovo millennio. Sappiamo come è andata a finire. Si veda P. C. Conti e E. Fazi, Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell’impero americano, Fazi, Roma, 2007.
(4) Si veda l’articolo “L’Iran tra malessere sociale e tensioni politiche (sotto la vigilanza armata dell’imperialismo)” pubblicato sul n. 39 (giugno-luglio 1996) del che fare.(5) Il 65% della popolazione ha meno di 30 anni.
(6) Secondo l’Un World Drug Report del 2005, in Iran ci sono 4 milioni di consumatori di oppiacei, soprattutto di eroina. Un sondaggio condotto dal governo iraniano nel 2005 ha mostrato che l’80% degli intervistati collega la diffusione delle droghe all’impennata della disoccupazione.
(7) I pozzi di petrolio attivi in Iran richiedono, ad esempio, un’operazione, l’iniezione di gas per prelevare il liquido rimasto all’interno del giacimento, per la quale sono necessarie tecnologie in mano alle multinazionali Usa e occidentali. Si veda M. Paolini, Il meccano di Ahmadinejad su Limes n. 5 del 2006.
(8) Negli ultimi anni la Cina ha firmato con l’Iran accordi per lo sfruttamento di alcuni giacimenti di gas e di petrolio, per l’ammodernamento delle infrastrutture telefoniche e per la costruzione di uno stabilimento automobilistico nell’Iran settentrionale. Con la Russia Teheran ha siglato accordi per la fornitura di aerei militari e sistemi antimissilistici. Gli scambi prevedono anche investimenti della Tupolev nell’industria aeronautica iraniana. Si veda “La Russia, la Cina e l’Iran: perché non sarà un’alleanza” in Aspenia, n. 37 del 2007.
(9) Si veda A. Malm e S. Esmailan, Iran on the brink. Rising workers & threats of war, Pluto, London, 2007.
(10) V. l’articolo di M. Forti “Iran, il voto disincantato della città dei martiri” pubblicato su il manifesto del 12 marzo 2008 .

Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008

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