Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
L’emergenza-rifiuti a Napoli non ha nulla di “napoletano”…
La Campania sommersa dall’immondizia non avrebbe fatto tanto scalpore se non vi fossero state le proteste delle popolazioni locali. La regione stava progressivamente affogando in un oceano di rifiuti nel più interessato silenzio. Aver infranto questo silenzio è stato merito delle mobilitazioni contro la riapertura delle discariche. Esse hanno spiattellato davanti ai lavoratori della Campania e di tutta l’Italia un problema bruciante. Che rimanda a questioni generali, planetarie, con cui l’intero mondo del lavoro è chiamato a fare i conti.
Sull’emergenza rifiuti in Campania i grandi
mezzi di informazione hanno strombazzato una tesi incardinata attorno a due
perni. Primo: l’emergenza è dovuta a specificità campane, quali la vasta e
radicata presenza della camorra, l’alto livello di corruzione delle
amministrazioni locali e il profondo livello di degrado introiettato dagli
stessi cittadini. Secondo: l’unica realistica via d’uscita è quella applicata a
Brescia (ovvero via libera agli inceneritori), che permetterebbe in un colpo di
eliminare le ecoballe accumulate, le discariche, le “infiltrazioni camorristiche”,
ecc.
La diagnosi e la prognosi contenute in questa tesi sono false.
Pianura e Brescia, modelli complementari
Intanto, l’alluvione da immondizia che sta sommergendo la Campania è
la manifestazione locale di un problema epocale che s’è cominciato a presentare
in tutto l’Occidente alla fine degli anni settanta: lo smaltimento della
gigantesca quantità di rifiuti generati dal ciclo produttivo e dal consumo
domestico tipici della società capitalistica. In Italia, per alcuni anni ci si è
arrangiati, buttando i rifiuti “tal quali” nelle discariche, in modo più o meno
legale. Nei primi anni novanta questa “soluzione” è arrivata alle corde, le
discariche hanno iniziato a saturarsi e si è affacciata l’emergenza immondizia
in alcune delle aree più densamente popolate e industrializzate del paese, tra
cui il napoletano e il milanese.
A questo punto, le istituzioni italiane adottano e cercano di realizzare, con il
supporto di Legambiente, la soluzione in corso di applicazione nei paesi
dell’Europa centro-settentrionale cosiddetti all’avanguardia nella gestione
“ambientalmente corretta” dei rifiuti. Tale soluzione è basata sugli “inceneritori-termovalorizzatori”,
impianti che bruciano la parte combustibile dei rifiuti (urbani e industriali) e
ne ricavano energia elettrica e termica. Le regioni centro-settentrionali,
malgrado l’opposizione di ristretti nuclei di cittadini e di associazioni
ambientaliste, partono alla grande su questa strada, trainate dall’esempio
“virtuoso” di Brescia. Le regioni centro-meridionali arrancano. “Finalmente” nel
1999, anche la Campania sale sul treno con la decisione di costruire due
inceneritori di elevata potenza. L’Impregilo di Cesare Romiti vince l’appalto
per l’inceneritore di Acerra e in attesa del completamento dei lavori, si
impegna a stoccare i rifiuti combustibili sotto forma di ecoballe in apposite
aree di parcheggio. Come sia andata a finire noto: ritardo nella costruzione
dell’inceneritore, esaurimento dello spazio nelle aree di parcheggio e nelle
discariche, sommersione del napoletano di rifiuti di ogni tipo. Meno noti due
altri fatti.
Primo: la “via bresciana” (vedi riquadro) non è affatto più pulita di quella che
ha portato a saturare le discariche e a sommergere Napoli di rifiuti. Nella
città lombarda l’immondizia è stata tolta dalle strade per essere trasformata in
veleni sparsi per l’area circostante e in ultra-tossiche scorie speciali
insaccate pericolosamente in discariche locali o inviate in altre regioni
cosiddette “sporche”. Secondo: l’ostacolo principale che ha impedito alla
soluzione-Brescia di attecchire nel napoletano è stata l’opposizione della
popolazione di Acerra e di altre località della Campania. Un’opposizione di cui
i protagonisti delle mobilitazione possono andare fieri. Non si sono fidati
delle rassicurazioni istituzionali, con tanto di suggello dell’ambientalismo di
governo.
Ed è proprio questa diffidenza e questo spirito di resistenza che i poteri forti
hanno cercato e stanno cercando di infrangere per far decollare la soluzione
imperniata sugli inceneritori. Da un lato, si militarizza il problema con
l’invio del super-commissario De Gennaro. Dall’altro, si costruisce un clima di
ricatto contro le popolazioni locali facendo leva sul fatto che si sta realmente
giungendo alla saturazione delle discariche e all’esaurimento dei parcheggi per
le ecoballe. Il che sta accadendo, ecco un altro fondamentale “dettaglio” della
faccenda, perché nel frattempo la Campania si è “specializzata” nel ruolo di
immondezzaio dei rifiuti industriali illegamente sversati dalle regioni
industrialmente più sviluppate dell’Italia e dell’Europa.
Come emerge anche dal film Biutiful cauntri, questo ruolo è organicamente
richiesto dalla soluzione-inceneritore applicata nelle regioni
capitalisticamente avanzate ed “ecologicamente corrette”: tale scempio ha
regalato tumori alle popolazioni locali, intossicazione dell’ecosistema, laute
tangenti per gli amministratori locali, ai Bassolino e ai Redaelli, ottimi
affari per la criminalità organizzata ma anche, soprattutto, risparmi ben più
lucrosi per l’intero mondo “pulito” delle imprese dell’Europa, che in nome della
competitività deve economizzare su tutto: sui salari, sulle misure di sicurezza
in fabbrica e, ovviamente, anche sull’eliminazione delle scorie industriali. Un
esempio da manuale di cosa voglia dire sviluppo capitalistico combinato e
diseguale: le aree capitalistiche più forti costringono altre aree (anche
all’interno dello stesso Occidente) a farsi carico degli aspetti “più sporchi e
arretrati” del ciclo produttivo. E così regioni come la Campania, spinte
all’indietro nei settori produttivi centrali dalla concorrenza mondializzata, si
specializzano nel servizio dello smaltimento dei rifiuti economicamente
compatibile dal punto di vista del profitto e della competitività. Brescia e
Pianura: due poli di un unitario ciclo dello smaltimento dei rifiuti che è un
autentico attentato alla salute sociale e ambientale sia nelle regioni
dell’Italia e dell’Europa settentrionale che in Campania.
Il problema è politico, non tecnologico.
L’emergenza rifiuti c’è a Napoli, ma anche altrove: nelle altre aree (come Roma)
dove si sta per avviare la costruzione degli inceneritori; nelle regioni
centro-settentrionali dove si è imposto il modello Brescia e dove, nel silenzio
delle istituzioni e nell’indifferenza-ignoranza della gente, si stanno
accumulando gli ingredienti per una catastrofe ecologica di enorme portata. Ed è
ben oltre i confini nazionali, nelle tante Brescia-Pianura che in tutto il mondo
vivono problemi simili o ancora più gravi.
Come si può affrontare una simile emergenza? “Semplice”. L’esperienza portata
avanti in alcune piccole città italiane e in alcune limitate aree del mondo
occidentale indica che alcune soluzioni-tampone che non siano il modello Brescia
o la discarica modello Napoli ci sono: un’accorta raccolta differenziata
domiciliare, il recupero e il riutilizzo nella produzione industriale della
carta e della plastica contenuti nei rifiuti, l’utilizzo della frazione umida di
questi nell’agricoltura sono, ad esempio, misure che, soprattutto se prese
insieme, riducono sensibilmente la quantità di rifiuti da smaltire e i miasmi da
essi riversati nell’ambiente.
Tali (o analoghe) misure-tampone si possono imporre solo con la lotta delle
popolazioni interessate perché applicare questi provvedimenti su grande scala
costerebbe troppo al sistema delle imprese e lederebbe i loro profitti e la loro
capacità competitiva. Nessun aiuto potrà venire né dalle istituzioni locali e
governative, né dagli schieramenti di centro, destra e sinistra, tutti implicati
nella responsabilità dell’attuale scempio, né dal fronte delle imprese (neanche
da quelle cosiddette “legali ed oneste”). Su questi fronti vi sono solo i nostri
nemici. Vi sono i perni di quella rete di interessi che intende imporre, anche
con la mano militare, la soluzione combinata “inceneritore-discarica”, perché è
la più adeguata alla difesa del profitto e della competitività aziendale e
nazionale, e chi se ne frega della salute pubblica e della salvaguardia degli
equilibri ecologici! Il problema, quindi, non è né tecnico né tecnologico, è
politico. Anche l’adozione di meri provvedimenti-tampone necessita della
mobilitazione e dell’auto-organizzazione di massa.
Non si parte da zero. C’è l’esperienza del movimento di lotta che si è
sviluppato in Campania. Ci sono alcuni comitati sorti negli ultimi anni in altre
regioni. Ci sono i primi tentativi per stabilire un coordinamento nazionale di
tali organismi. È questa la via da battere. Per avviare un’opera di propaganda
in grande stile verso la popolazione lavoratrice. Per far conoscere le proprie
ragioni. Per spezzare l’isolamento in cui i mezzi di informazione e il governo
hanno accerchiato i manifestanti di Pianura e delle altre zone campane
presentandoli come camorristi, egoisti, indisponibili a farsi carico di quei
sacrifici che permetterebbero di “uscire dall’emergenza”. Per contrastare la
tendenza emersa nelle mobilitazioni in Campania (favorita e stimolata dai tanti
“amici” presenti nelle istituzioni locali) alla contrapposizione tra comuni e
province, che porta all’indebolimento di tutti.
Un simile movimento di lotta dovrebbe, e potrebbe, mettere a frutto l’attenzione
maturata tra la gente comune, anche sotto il benefico influsso della vicenda
campana, a migliorare con “piccoli gesti” la gestione domestica dei rifiuti. Per
dare efficacia a tali comportamenti, è indispensabile allargare la sfera di
impegno anche al di fuori delle mura domestiche, attraverso un’attività
organizzata. A cosa servirebbe, ad esempio, separare la carta in casa se poi il
ciclo di smaltimento è sottratto al controllo sociale? se poi quella carta va ad
alimentare, come accade oggi nel 50% dei casi, le fornaci degli inceneritori? e
non sarebbe una fatica di Sisifo darsi da fare per sistemare i rifiuti domestici
e, nello stesso tempo, eludere il problema del trattamento di quelli
industriali, che costituiscono i tre quarti dei 130 milioni di tonnellate di
immondizia prodotta in Italia? Infine, come si affronta quest’altro corno
dell’emergenza senza un’azione di organizzazione, contro-informazione e lotta
collettiva?
Per quanto sia al momento difficile, si deve andare verso la costruzione di
momenti di dibattito e di controinformazione con il mondo del lavoro, con gli
operai delle fabbriche. Le poche norme di tutela ambientale minimamente
efficaci, ricordiamolo, sono state strappate agli imprenditori e allo stato
grazie alla lotta unitaria della classe proletaria per la sicurezza del lavoro
in fabbrica. Oggi i padroni violano queste “conquiste” su entrambi i fronti
sempre più spesso perché l’aumento dello sfruttamento operaio e il saccheggio
selvaggio dell’ambiente sono entrambi necessari alla competitività e al
profitto. Il fronte di difesa deve essere perciò comune. Per imporre forme di
controllo sul territorio (ad esempio verificare cosa viene realmente riversato
nelle discariche in funzione) e costringere a viva forza lo stato e le aziende a
farsi carico delle spese e dei costi necessari all’uso delle migliori tecnologie
già oggi disponibili nello smaltimento “corretto” dei rifiuti.
Rifiuti e produzione capitalistica
Battersi per imporre tali misure si può e si deve, ma bisogna anche sapere che
si tratta solo di un tampone. Perché esse affrontano il toro per la coda, sul
versante dello smaltimento dei rifiuti. Ma il problema, come sottolineano una
serie di organismi ecologisti, sta nel modo in cui sono prodotti gli oggetti (le
merci) dal sistema economico contemporaneo. Secondo questa tendenza del
movimento ambientalista mondiale, la traboccante quantità di rifiuti prodotta
deriva dal fatto che si fabbricano oggetti di breve durata, difficilmente
riparabili, non di rado del tutto inutili, fabbricati con sostanze nocive,
infarciti di imballaggi privi di senso dal punto di vista della funzionalità
d’uso ma vitali per renderli appetibili rispetto a quelli con cui sono in
concorrenza. Per queste posizioni libere da sentimenti di soggezione verso il
“pensiero unico” borghese dominante, non è un’utopia prospettare l’obiettivo
“rifiuti zero” senza con ciò tornare ad una vita francescana e priva di comfort.
Noi marxisti siamo del tutto d’accordo. Non in contraddizione ma in coerenza con
la nostra dottrina. Che è l’unica, non ce ne vogliano gli ambientalisti più
serii, in grado di indicare come modificare l’esistente organizzazione della
produzione e passare ad un armonico ricambio organico tra natura e specie umana.
L’unica teoria che sa individuare le ragioni per cui i manufatti prodotti nella
società contemporanea hanno le caratteristiche di cui sopra: ciò accade perché
nell’attuale società la produzione è finalizzata all’accumulazione dei profitti
e non alla soddisfazione dei bisogni umani.
Intendiamoci. Non manca al capitalismo l’istinto di risparmiare le materie prime
usate nella fabbricazione delle merci né l’interesse a riciclare i materiali già
utilizzati. I capitalisti hanno, anzi, un’ossessione in questo senso. Il punto è
che essi applicano i metodi che la scienza e la tecnologia mettono a
disposizione solo e soltanto per ridurre i costi di produzione e, quindi, per
produrre merci sempre più scadenti, meno durature e con crescente scempio della
salute degli operai… La fretta e l’ansia produttivistica dettate dalla legge del
profitto non possono andare d’accordo con una produzione che abbia a cuore la
qualità e l’utilità sociale dei manufatti, la salvaguardia della salute sociale
ed ambientale, la riduzione del peso del lavoro nell’esistenza umana. Senza
contare quanto una tale smania iper-produttivistica conduca a sprecare enormi
quantità di materie prime e di energie lavorative sociali nella confezione di
gigantesche quantità di merci inutili o dannose per gli autentici bisogni umani.
A partire dalle armi…
Il capitalismo ricicla solo nella maniera e nella misura (vedi inceneritori)
congeniali al profitto, non in relazione all’interesse della collettività umana
e al raggiungimento di un metabolismo equilibrato con la Terra che ci ospita
(1). E così la carta (bene che dovrebbe essere completamente riutilizzabile)
viene resa in buona misura difficilmente riciclabile dalle imprese produttrici
attraverso l’aggiunta di una serie di composti chimici addizionali così da
costringere gli acquirenti a continuare a rifornirsi da esse. Nello stesso
tempo, quote di scorie nucleari vengono riciclate nella produzione di quei
proiettili e bombe all’uranio impoverito con cui recentemente sono state
“deliziate” le popolazioni balcaniche ed irachene…
L’esperienza stessa mostra, quindi, che ad essere in gioco, nella
emergenza-rifiuti, non è una certa gestione dell’economia di mercato, è il
sistema sociale dell’economia di mercato in quanto tale. Non c’è via di scampo:
se si vuole l’obiettivo “rifiuti zero”, è necessario proporsi l’incenerimento
del capitalismo. Un’operazione destinata a rimanere nel regno dei sogni, se non
fosse il meccanismo capitalistico stesso ad accumulare, con il profitto e i
rifiuti, un soggetto sociale, il proletariato, l’intera umanità lavoratrice,
costretto dalle sue condizioni di esistenza ad eseguire la sentenza storica
rivoluzionaria.
Si sente dire a destra e a manca che questa tesi sarebbe stata messa ko dalla
storia. Eppure anche i dibattiti e le lotte attorno all’emergenza rifiuti
mostrano l’esatto contrario: nel bel mezzo del dominio del pensiero unico, della
rassegnazione al capitalismo come unico mondo possibile, se non si chiudono gli
occhi davanti alle tragedie generate dal profitto, è giocoforza mettere in
questione l’attuale organizzazione sociale e guardare in direzione di un
“socialismo da stato di necessità”. Sintomatica la riflessione a cui è pervenuto
Giorgio Bocca: “A volte si ha l’impressione che si avvicina la catastrofe
finale. La vergognosa vicenda napoletana di una grande città sommersa dalla
spazzatura (…) indica però la via a un socialismo nuovo, non più utopico e
romantico, non più evangelico e filantropico, ma da stato di necessità. Un
socialismo obbligatorio che s’imporrà per la sopravvivenza, perché il mondo ha
dei limiti, perché non ha più posto per tutti i desideri e tutti i soprusi. Il
libero mercato sta portandoci all’autodistruzione: se non provvedi a rimuovere
la tua spazzatura, te la ritrovi sulla porta di casa. Il rimedio dei ricchi di
passare le loro spazzature ai poveri non è più facile e indolore. Al posto del
libero mercato il socialismo della sopravvivenza arriverà, speriamo, al mercato
possibile. Mettendo fine al mercato libero dell’autodistruzione, degli sprechi,
dei furti, per passare al mercato ragionevole dei consumi compatibili con le
risorse, del benessere esente dagli sprechi e dalle competizioni insensate. E
alla rinuncia a una cultura di stampo militare, fatta di continue conquiste e di
continui riarmi” (L’Espresso, 15 febbraio 2008).
Proprio così: il socialismo si sta imponendo come via obbligata per la stessa
sopravvivenza della specie umana. Più che giusto. Tranne il “particolare” di
identificare il “socialismo della sopravvivenza” con il “mercato ragionevole”.
L’“irrazionalità” che vediamo in atto, infatti, è la manifestazione dell’unica
“razionalità” di cui sono capaci il mercato e il capitalismo.
(1) Si veda il capitolo “Economia nell’impiego del capitale costante” nel Libro
III de Il Capitale di K. Marx.
Nel dibattito politico connesso all’emergenza rifiuti in
Campania è entrata in circolazione, con il contributo della “sinistra radicale”,
una sostanza altamente inquinante: la tesi secondo cui la dottrina marxista
avrebbe trascurato la questione ecologica e sarebbe incapace, succube di una
visione meschina dell’economia, di inquadrare i drammi ambientali.
Quest’ecoballa monumentale è incenerita all’istante dalla considerazione
dell’opera complessiva di Marx e di Engels. Come anche della battaglia condotta
nel secondo dopoguerra dalla Sinistra Comunista, in piena esaltazione
produttivistica sia da parte della decrepita società dei consumi di massa che da
parte del giovane capitalismo in costruzione in Russia e all’Est sotto la
bandiera del “socialismo reale”.
In vista di un’ampia, meditata riflessione su tutta la questione, riproponiamo
sul nostro sito alcuni testi tratti dal’arsenale della Sinistra:
- Specie umana e crosta terrestre
- Le tesi sul programma rivoluzionario immediato
- Piena e rotta della civiltà borghese
- Spazio contro cemento
Scheda
Africa terra promessa
Nei primi anni ’90, secondo informazioni dei Verdi europei, in Somalia sono
state scaricate, provenienti dall’Europa, circa 10 milioni di tonnellate di
rifiuti tossici. Le ecomafie avrebbero pagato alle élites somale 8 dollari a
tonnellata, mentre le industrie europee a loro volta avrebbero sborsato 16
dollari a tonnellata alla malavita organizzata.
Visto che il costo di smaltimento “a norma” di tali rifiuti in Europa era
all’epoca di circa mille dollari a tonnellata se ne può dedurre che le ecomafie
hanno guadagnato 80 milioni di dollari e le aziende europee hanno risparmiato
840 milioni di dollari. Per il popolo somalo, tumori e inquinamento.
Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA