Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
Elezioni di svolta? Sì, a destra
A stare all’estenuante propaganda elettorale, le prossime
elezioni sarebbero elezioni di svolta. Si dice: “Finalmente i cittadini avranno
la possibilità di scegliere non tra due coalizioni eterogenee ma tra due
partiti, il partito democratico e il partito del popolo delle libertà, con un
programma ben definito. E, con ciò, di stabilire quale politica dovrà rinnovare
e guidare il paese, senza le tergiversazioni delle camarille annidate nella
casta dei politici che ammorba l’Italia”.
In realtà, le dorsali della politica che dovrà guidare il paese sono fissate in
anticipo. Le ha stabilite la forza sociale che, senza essere stata investita da
nessun voto, dirige la società: il grande capitale, italiano e internazionale.
Si tratta solo di applicarle, calibrandone dosaggi e tempistica. Quali siano
tali dorsali, lo ha già mostrato la vicenda della caduta del governo Prodi.
Perché hanno liquidato Prodi.
Intendiamoci. I re della finanza e dell’industria sono grati al governo
dimissionario. Perché quest’ultimo ha continuato a favorire (in forme in parte
diverse da quelle berlusconiane) il drenaggio della ricchezza dal lavoro
salariato al profitto e alla rendita. Perché ha paralizzato la (pur
contraddittoria) ripresa di mobilitazione dei lavoratori e degli oppressi
avvenuta nel 2001-2006. Perché, con la copertura offerta al varo del partito
democratico, ha contribuito a picconare quanto rimaneva, in ambito riformista,
dell’organizzazione militante dei lavoratori.
Ma per Montezemolo, Profumo, Bazoli, Della Valle, Geronzi, Colaninno, ecc.
l’arretramento politico subìto dai lavoratori nell’anno e mezzo di governo Prodi
è stato troppo limitato. L’ambizione del grande capitale è quella di distruggere
la contrattazione nazionale e collegare in modo rigido gli aumenti salariali
agli indici di competitività aziendali e all’allungamento degli orari di lavoro
attraverso l’aziendalizzazione della contrattazione sindacale. Solo così le
aziende italiane possono, infatti, rimanere competitive di fronte alla duplice
morsa dei capitalismi più forti e di quelli emergenti nell’Asia. Solo così
possono rilanciare la loro crescita. Che, al contrario di quanto dicono la
destra e la “sinistra”, non può realizzarsi con benefìci, magari a distanza, per
tutte le classi sociali, per i padroni da un lato e per i lavoratori dall’altro.
Lo ha indicato da ultimo, appunto, la crisi del governo Prodi. Apertasi quando è
emersa la sua incapacità di applicare fino in fondo il programma “suggeritogli”
dalla Confindustria e dalla finanza.
Tale incapacità non è stata un’assenza di volontà. Il fatto è che, dopo un anno
e mezzo di paralisi, nell’autunno-inverno 2007-2008 il lavoro salariato è
tornare a far sentire le sue esigenze sulla scena politica. Con il “no” degli
operai delle grandi fabbriche all’accordo del 23 luglio, con la numerosa
manifestazione del 20 ottobre, con gli scioperi e i blocchi stradali per il
rinnovo del contratto dei metalmeccanici, con il riaffacciarsi della protesta
delle donne, con le iniziative dei lavoratori immigrati contro il razzismo e la
legge Bossi-Fini, con la manifestazione di Vicenza contro il Dal Molin, con la
rabbia montata dopo la strage alla Thyssen-Krupp di Torino.
Quando, di fronte a queste proteste e richieste, il governo Prodi ha promesso
l’apertura di una trattativa per la revisione della tassazione dei salari e ha
pilotato la sigla di un accordo di compromesso per il contratto dei
metalmeccanici, il fragile equilibrio che lo manteneva in vita si è rotto. Il
grande capitale ha deciso che era giunta l’ora di licenziarlo. Il caso Mastella
ha fornito solo l’occasione per togliergli la sedia da sotto il sedere. Ha
commentato uno dei padrini del partito democratico, il direttore di la
Repubblica: “Prodi coltivava un’ambizione culturale, prima ancora che politica:
quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale),
obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e
innovazione, in un patto con i moderati anti-berlusconiani. Quell’ambizione è
saltata” (25 gennaio 2008).
Già: nel capitalismo mondializzato l’orizzonte riformista non è in grado di
garantire neanche la pallida redistribuzione dei sacrifici promessa da Prodi.
Qualunque sarà l’esito delle elezioni, il governo futuro ripartirà da qui.
La “grande coalizione”, per ora mancata.
Non tutte le ciambelle, però, riescono con il buco.
Messo da parte Prodi, il grande capitale italiano ha chiamato a raccolta le
altre associazioni padronali e ha presentato al mondo politico un
manifesto-ultimatum (v. la Repubblica, 30 gennaio): prendiamo atto che
l’alternanza tra i poli di centro-destra e di centro-sinistra su cui è stata
fondata la seconda repubblica non è in grado di garantire la governabilità; le
alleanze messe in piedi con promesse a destra e a manca pur di conquistare la
maggioranza dei voti, si sono poi sfaldate o sono state paralizzate dagli
“interessi egoistici di tanti micro-partiti”; l’attuazione delle riforme
istituzionali ed economiche richieste dalla fase di emergenza in arrivo può
essere assicurata dalla cogestione della responsabilità di governo da parte dei
partiti maggiori e dall’estromissione di quelli minori; si cominci subito con un
governo di larghe intese pre-elettorale per varare un ventaglio di riforme
istituzionali che aumenti il potere dell’esecutivo e riduca quello delle
corporazioni. Prima di tutto, il potere della “corporazione” degli operai. Ma
anche quello legato all’anarchica rincorsa all’arricchimento di padroncini,
professionisti e altri strati intermedi.
Il rilancio dell’Azienda-Italia richiede che questa pletora di interessi
borghesi micragnosi, estesa come in nessun altro paese europeo, sia
ridimensionata sul piano economico e accarezzata sul piano politico
indirizzandone le aspirazioni di rivincita contro il “nemico esterno”, gli
immigrati e lo spettro dell’antagonismo proletario interno. “L’Italia –ha
osservato Padoa-Schioppa- è come un’impresa che perde posizioni nel mondo,
indebitata e soprattutto gravemente sottocapitalizzata. Ha un debito pubblico
pesantissimo e reperire risorse nuove per fare gli investimenti di oggi e
recuperare quelli non fatti di ieri è estremamente arduo” (la Repubblica, 2
marzo). Proprio così. E per questo, anche l’irregimentazione degli appetiti
particolaristici degli strati borghesi intermedi all’interesse superiore della
nazione non è un optional. E, come ha iniziato a fare Visco, va perseguita anche
attraverso la leva fiscale. Non solo per canalizzarne profitti e rendite verso i
settori decisivi dell’accumulazione capitalistica, ma anche per far accettare
più facilmente ai proletari i pesanti sacrifici in arrivo.
La “grande coalizione” è la formula politica incaricata di guidare questo
accentramento totalitario della nazione, senza che le proteste e le resistenze
dei vari settori sociali lo facciano arrancare, come in parte è successo negli
anni della seconda repubblica. Lo ha rilevato anche Tremonti: la grande
coalizione “è la formula democratica giusta per gestire nell’Europa continentale
i problemi che arrivano dal mondo globale. (…) La formula della grande
coalizione, ormai estesa sulla mappa politica dalla Germania al Lussemburgo,
all’Austria, all’Olanda al Belgio ha due caratteristiche essenziali: fa crescere
il potere dei governi, fa decrescere (s.n.) il conflitto nel paese” (la
Repubblica, 27 gennaio).
Affidato all’incarico Marini, il progetto della “grande coalizione”, per ora,
non è andato in porto. Non tanto per il desiderio di Berlusconi di realizzare la
“grande coalizione” (da lui non disdegnata affatto, come risulta dalle
dichiarazioni di Tremonti) solo dopo le elezioni, da posizioni di forza nei
confronti di Veltroni. A dettare il comportamento del cavaliere sono stati, in
realtà, quegli strati sociali intermedi accumulatori che temono di veder
alquanto dimagrire i loro guadagni con l’avanzamento del progetto auspicato dal
grande capitale. Lo aveva rilevato qualche settimana prima il rapporto Censis:
“la natura molecolare” del capitalismo italiano, fatta di “piccole realtà
attive”, sta evolvendo in “mucillagine”; le “minoranze che danno speranza al
paese” (i grandi gruppi finanziari appena costituiti e le poche centinaia di
aziende internazionalizzate) fanno fatica a strutturare e mettere in riga questa
“poltiglia”. In conseguenza di ciò, la tutela dei traffici pidocchiosi di questa
poltiglia sta risultando vincente nei partiti, specie in quelli del
centro-destra, che, in parte consistente anche se non esclusiva, l’hanno
tradizionalmente rappresentata.
Il nuovo partito di Berlusconi ha vecchie tare.
In Forza Italia e in An ci sono anche voci consapevoli che i tempi stanno
cambiando. Tremonti, ad esempio, coglie l’insufficienza del liberismo reaganista
e l’esigenza di integrarlo con un intervento statale in grado di sorreggere il
capitale nazionale e di canalizzare verso un bersaglio esterno (la Cina, gli
speculatori delle borse anglosassoni, gli immigrati soprattutto se islamici) la
crescente polarizzazione di classe interna al paese. Sa di poter contare
sull’accumulazione di un sentimento reazionario a livello dei ceti medi ben
alimentato dal trasversale partito razzista e securitario dei sindaci-sceriffi,
a cui purtroppo non è estranea una fetta di lavoratori. Ma il partito del popolo
delle libertà non sta utilizzando come potrebbe tali ingredienti per approntare
i due organi essenziali all’attuazione del programma richiesto dal rilancio
dell’imperialismo italiano: una macchina statale e un partito borghese
all’altezza dei tempi di ferro che si preparano. Ne è un sintomo il silenzio del
programma elettorale del partito del popolo delle libertà sulla politica estera.
Che, invece, dovrebbe essere uno dei campi di iniziativa fondamentale
dell’intervento statale a difesa delle imprese del paese.
La limitata ripresa della penetrazione delle banche e delle imprese italiane nei
mercati dell’Europa dell’Est, nel mondo islamico e in America Latina avvenuta
negli ultimi due anni ha trovato un sostegno essenziale nell’azione svolta dal
governo Prodi-D’Alema. Nell’Europa dell’Est Unicredit e BancaIntesa hanno
acquisito una quota consistente del capitale bancario dell’area. L’Eni e l’Enel
hanno siglato accordi di grande portata con la Russia (o grazie alla copertura
della Russia) e in Asia centrale. Sotto l’ombrello della missione in Libano sono
stati consolidati gli affari con l’Egitto e con l’Iran. Agli inizi di marzo è
arrivato il maxi-accordo con il Venezuela di Chavez. Gli Usa, Israele e la
Francia, che non hanno visto e non vedono di buon occhio questa ripresa di
tessitura economica e diplomatica, hanno cercato, singolarmente e in modo
coordinato, di mettere il bastone tra le ruote agli interessi italiani in queste
aree.
Non sembra che a destra si abbiano le idee chiare su come proseguire in questa
tessitura, su come si mettono sotto schiaffo i popoli dei continenti in cui le
imprese italiane affondano i loro artigli avendo però mezzi militari limitati,
su come si rintuzzano i colpi dei concorrenti imperialisti. Altrimenti si
porrebbero con ben altra cura il tema di una propria “politica mondiale”. Tanto
più che gli Usa, in collaborazione con la Francia, si apprestano a stringere i
tempi dell’aggressione all’Iran e al fronte degli stati capitalistici emergenti
in cui è inserita Teheran, da Pechino a Mosca a Caracas. Il clic di mouse sulla
secessione del Kosovo ne è un tassello. Una macchina statale efficiente e
proiettata a difesa del capitale nazionale nel mondo è, inoltre, fondamentale
anche per un altro motivo: senza di essa è difficile indirizzare verso l’esterno
il malcontento suscitato all’interno sia tra i lavoratori che tra i ceti medi.
In assenza di un indirizzo chiaro sulla politica estera il richiamo di Tremonti
all’intervento dello stato in difesa delle imprese italiane dalla concorrenza
internazionale assume la veste di un semplice foraggiamento degli interessi
microscopici delle piccole imprese di alcuni settori industriali (tessile,
calzaturiero). L’esponente di Forza Italia si richiama all’esempio dello
statunitense Mc Cain, e però ne salta il perno fondamentale. Altro che “Italia,
rialzati!” Si dà per scontato che di fronte allo spostamento del baricentro del
sistema capitalistico mondiale verso il Pacifico, i capitalisti italiani non
possano più svolgere un ruolo come classe borghese alla testa di uno stato
imperialista. Ci si industria soltanto su come far quattrini, lasciando agli
altri stati occidentali di giocare la partita, dedicandosi a sfruttarne,
furbescamente, la copertura. Il tutto sulla pelle dei lavoratori, ridotti, nei
sogni del partito del popolo della libertà, a polli impotenti. Da spennare e a
cui offrire, come unica speranza, la lotteria del matrimonio con un milionario…
Non è un caso che nelle liste elettorali del partito del popolo delle libertà
faccia bella mostra di sé una sfilza di generali della guardia di finanza al
soldo degli evasori, di palazzinari, di piccoli e grandi mafiosi, di padroncini
leghisti, tassisti rivoltosi, star televisive, ecc. Nuovo partito, vecchie tare.
In conseguenza di ciò, l’avvenuta formazione di un unico partito di destra, che
pure potrebbe andare incontro agli interessi del capitalismo italiano, non sta
incontrando il gradimento dei grandi poteri capitalistici nazionali. Alla “nuova
borghesia che ha coscienza di sé” di cui ha parlato Monte-zemolo (la Repubblica,
20 ottobre 2007) va benone il livore anti-proletario del partito del popolo
delle libertà. Ma essa vuole, ha bisogno di qualcosa di più, proprio per mettere
in catene fino in fondo i lavoratori, all’interno e all’esterno dei confini
nazionali.
Comunque vadano le elezioni, due cose sono certe.
Di fronte al fallimento dell’incarico Marini e alla insoddisfacente prospettiva
associata ad una straripante vittoria di Berlusconi, il grande capitale ha
cercato di correre ai ripari. Sia dando fiato alla campagna di Veltroni,
riempiendola di contenuti e di candidati. Sia incoraggiando Casini a smarcarsi
dal partito del popolo delle libertà. Con l’obiettivo, del tutto provvisorio, di
un risultato elettorale che non dia una netta vittoria a nessuno dei due
principali partiti, così da tentare l’ardua operazione di guidarli, da dietro le
quinte e attraverso l’ago della bilancia costituito dal polo centrista, verso
una collaborazione che disciplini le rispettive basi sociali e persegua la
riforma in senso autoritario delle istituzioni statali, la razionalizzazione
della spesa pubblica, la prosecuzione dell’azione fiscale di Visco verso i ceti
medi evasori e l’inquadramento in senso social-sciovinista del mondo del lavoro,
colpito e scomposto dalla democrazia corazzata e dalle direzioni aziendali.
Il risultato non è scontato. Pesa su tutto la debolezza del grande capitale
italiano (di cui la vicenda del disastro di Alitalia fornisce un’altra
conferma), la frantumazione della struttura industriale italiana e lo “zampino”
degli Stati Uniti, di Israele e della Francia, che la storica debolezza dello
stato borghese italiano non è in grado di rintuzzare. Due cose sono, comunque,
sicure.
Primo. Si arrivi al terzo governo Berlusconi-Bossi-Fini, si vada a una “grande
coalizione”, si aggravi lo sfarinamento delle rappresentanze politiche borghesi
a tutto vantaggio della crescente manomissione della manodopera e delle risorse
interne da parte dei grandi poteri capitalistici occidentali, il dopo-elezioni
riserverà un salto di qualità dell’offensiva contro i lavoratori.
Secondo. Il partito democratico sta spianando il terreno a questa offensiva.
Anche se non può certo essere questo il partito di ferro cui ambisce la “nuova”
razza padrona italiana, l’azione politica e i comizi di Veltroni le stanno
rendendo un prezioso servizio. Anzitutto con la propaganda sulla fine della
contrapposizione tra capitalisti (anch’essi ormai descritti come “lavoratori”!)
e operai, tra sfruttatori e sfruttati, sulla fine della lotta di classe. E poi
con l’insistenza sull’Italia quale obiettivo supremo da perseguire per tutti i
cittadini. Con la campagna per accrescere il consenso popolare all’accentramento
del potere statale nelle mani dell’esecutivo. Con la messa fuori scena di un
personale politico ancora troppo compromesso con il riformismo “operaio” vecchia
maniera (perfino Bersani o D’Alema risultano troppo “di sinistra”). Con la
promozione di una nuova generazione di politici e amministratori del tutto
permeati dall’ideologia del liberalismo. Cosa riservi ai lavoratori questo
genere di rinnovamento della politica e di modernizzazione del-l’Italia, lo fa
intendere Veltroni stesso quando rivendica con orgoglio di essersi liberato dal
peso morto della “sinistra radicale” sia sulle questioni sociali interne che
sulla politica internazionale (1). Quando imbarca sul suo pullman Calearo,
Colaninno, Ichino, il generale Del Vecchio, Veronesi…
(1) Sull’indirizzo politico del partito democratico e sulla traiettoria storica
del riformismo italiano dopo la seconda guerra mondiale v. gli articoli
pubblicati sul numero precedente di che fare.
Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA