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 Dal Che Fare n.69 aprile - maggio 2008

10 ottobre 2008

Il testo che segue è stato pubblicato nella primavera scorsa sul numero 69 del nostro giornale. Pur se "datato" rispetto alle ultime notizie, crediamo che esso rimanga del tutto attuale per inquadrare da un punto di vista di classe la crisi finanziaria in corso. Siamo, intanto, impegnati a preparare una più ampia e più profonda analisi del corso del capitalismo internazionale, delle politiche con cui le borghesie dei paesi imperialisti e dei "paesi emergenti"  intendono affrontare la tempesta, delle prospettive dello scontro di classe e dei compiti cui sono chiamati i militanti proletari, in Occidente e nel resto del mondo.

Dal Che Fare n.69 aprile - maggio 2008

La crisi dei mutui statunitensi annuncia

un uragano economico, sociale e politico mondiale

I lavoratori guardano con crescente apprensione alle nuvole nere che la crisi dei mutui negli Stati Uniti ha addensato sull’economia mondiale. Cosa sta accadendo? Cosa è in arrivo?

E’ tutta colpa della “nuova finanza”?

La grande stampa ha diffuso in questi mesi e continua a diffondere una spiegazione delle origini di questa crisi a dir poco superficiale. A stare ad essa alla base delle turbolenze attuali ci sarebbero i “piccoli mostri” della “finanza creativa” colpevoli di avere inventato nuovi “prodotti” finanziari, i cosiddetti derivati o strutturati, pacchetti ad alto rendimento immediato contenenti azioni, obbligazioni, operazioni di crediti al consumo, mutui, etc., una “strana roba” il cui contenuto rimane ignoto sia all’acquirente comune (il mitico risparmiatore), sia agli acquirenti istituzionali (banche, fondi di investimento, assicurazioni, etc.). E giù invettive contro questi speculatori senza scrupoli, venditori di paccottiglie, canaglie, assatanati di guadagni a breve, occultatori di rischi e perdite che avrebbero inquinato la finanza “buona”, quella che invece punterebbe sul lungo periodo, che sarebbe assai più trasparente e razionale, se non addirittura affetta da scrupoli morali.

Peccato, però, che dietro le suddette canaglie – o.k., il termine è giusto - non sia difficile scorgere i massimi attori della finanza “buona”. Ovvero esattamente le grandi banche con le mani in pasta nelle transazioni più spericolate e fior di operazioni “fuori bilancio”, le stesse assicurazioni, le grandi, grandissime società di intermediazione (altro che “piccoli mostri”!), le insospettabili agenzie di rating (in verità al di sotto di ogni sospetto), le borse, le banche centrali che invece di chiudere un occhio su simili commerci li hanno chiusi entrambi, incoraggiando anche con il denaro a basso costo la nascita e la travolgente ascesa di nuovissimi operatori finanziari come gli Hedge funds e i Private Equity. Lo hanno riconosciuto, di recente, anche Krugman e Stiglitz: dietro la deregulation finanziaria degli ultimi due, tre decenni ci sono Wall Street e la Federal Reserve di Greenspan, cioè le due massime autorità e potenze istituzionali del capitalismo finanziario mondiale. Sono loro, e le altre istituzioni consimili, ad avere consentito e favorito la nascita di quel “sistema bancario ombra” e di quella “unfettered finance”, finanza senza vincoli, a cui ora si attribuisce la responsabilità di tutto questo macello.

Non ci si venga a raccontare, perciò, la storiella dei lupi cattivi venuti chissà da dove a turbare l’idillio della foresta incantata del mercato. L’attività finanziaria è parte fondamentale ed integrante del processo di produzione e di accumulazione capitalistico fin dai suoi albori. Ne è suo elemento costituivo. E la sua funzione organica è di fare il possibile e l’impossibile, con ogni mezzo, per amministrare il capitale “altrui”, il capitale “sociale”, nel modo più profittevole per i singoli capitalisti e per il sistema del capitale. Non si dà capitalismo senza credito, senza banca, senza finanza. E non si dà credito, né banca, né finanza senza ogni sorta di marchingegno speculativo. Già 150 anni fa, nell’Inghilterra del suo tempo, Marx vedeva all’opera una “nuova aristocrazia finanziaria” composta di individui specializzati nell’escogitare progetti finalizzati ad appropriarsi “plusvalore altrui” attraverso “tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni”. Insomma dei veri e propri “cavalieri di ventura”, dei maghi del “giuoco di borsa dove i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi”. E lungi dal presentare costoro come dei guastafeste del capitalismo, notava che la loro attività, fosse o meno coronata dal successo individuale, produceva comunque il risultato, vitale per il capitalismo in quanto ordine economico-sociale, di accentrare il capitale in poche mani, poco conta se vecchie o nuove, espropriando, oltre i produttori diretti, anche i capitalisti piccoli e medi (vedi il cap. 27 del Libro III de Il capitale).

Quanto sta accadendo a partire dalla crisi dei mutui sub-prime statunitensi, quindi, non è affatto una recentissima patologia da globalizzazione neo-liberista sregolata, cancellabile perciò con una nuova regolazione delle attività finanziarie. Appartiene invece alla fisiologia del capitalismo. Fisiologia nella quale distinguere gli affari “sani”, riguardanti capitali realmente esistenti, dalla “speculazione” concernente invece capitali e proventi futuri è, fin dai suoi primordi, tanto difficile quanto lo è, a capitalismo pienamente globalizzato, distinguere il capitale finanziario da quello bancario o da quello industriale, di cui è il coronamento e la simbiosi.

Uno sviluppo con  tre propellenti 

Lasciamo cadere, perciò, la futile opposizione tra finanza “buona” e finanza “cattiva”. Se si vuole andare alle radici della crisi finanziaria in corso, si tratta, semmai, di spiegare da dove venga la esplosione delle attività finanziarie verificatasi tra il 1980 e il 2005, quando, a stare almeno alla stima dell’Istituto McKinsey, il rapporto tra attività finanziaria globale e produzione lorda globale è salito dal 109% al 316%. 

Secondo il capo-redattore del Financial Times M. Wolf, essa è stata effetto della liberalizzazione delle attività finanziarie e della rivoluzione informatica; avrebbe dunque poco a che fare con l’economia reale. Secondo noi, invece, alla base della crescita così impetuosa della massa dei capitali liquidi e dei loro vorticosi movimenti a scala mondiale, tanto reali che fittizi, c’è stato anzitutto un grande incremento della produzione reale, della produzione di valore e di plusvalore. Non ci riferiamo solo al periodo 2003-2007, durante il quale il prodotto lordo mondiale è cresciuto quasi di un terzo, in termini assoluti la più grande ripresa economica di tutto il dopo-guerra. Ci riferiamo agli ultimi 25 anni. Durante i quali, il mercato del lavoro mondiale è pressoché raddoppiato, consentendo alle imprese di torchiare la più grande massa di lavoro mai “messa all’opera” dal capitale nella sua storia plurisecolare. In questo periodo è più che raddoppiata la produzione industriale e agricola mondiale. Sono stati integrati e si sono integrati a pieno nel mercato mondiale “unificato”, con successo o con rovina, tanto i paesi di nuova indipendenza quanto i paesi dell’ex-campo del “socialismo reale”. Un tale ampliamento del mercato mondiale è stato al tempo stesso causa ed effetto di un rilancio dell’accumulazione capitalistica su scala allargata, che ha proceduto a ritmo molto sostenuto, specie nell’ultimo decennio, in gran parte dell’Asia, in Russia, negli altri paesi grandi esportatori di petrolio, e con più di qualche affanno nel cuore euro-statunitense dell’Occidente [una discrepanza che ci ha purtroppo molto attardati nella comprensione degli svolgimenti economici mondiali a causa di un oggettivo, involontario, perfino contro-volontario, ma non per questo meno vero, limite euro-centrico del nostro punto di osservazione].

Questo rilancio dell’accumulazione ha avuto tre propellenti.

Il primo è stato l’introduzione di un grappolo di innovazioni tecnologiche (e organizzative, come la diffusione del toyotismo e della “lean production”) che hanno innalzato la produttività del lavoro, abbattuto i costi del trasporto intercontinentale delle merci (con i grandi tir, i container e le navi porta-container, la ristrutturazione dei porti, l’applicazione del just in time), velocizzato e integrato a tal punto lo scambio di informazioni da rendere possibile, per la prima volta nella storia, una fabbrica avente i suoi reparti sparsi per il pianeta. Le misure della produttività del lavoro sono controverse; gli incrementi sono stati particolarmente differenziati, ovviamente assai più contenuti là dove la produttività del lavoro è già altissima; ma è fuori discussione che, specie negli ultimi dieci-quindici anni, nei paesi dell’Europa dell’Est, nell’Asia orientale, sud-orientale e meridionale, in alcune aree del Sud America e dell’Africa a sud del Sahara, zone nelle quali è ormai concentrata buona parte della produzione manifatturiera mondiale, la produttività del lavoro è salita a ritmi sostenuti, se non eccezionali (in Cina abbiamo addirittura un +187% tra il 1998 e il 2004), anche a seguito di massicci investimenti produttivi.

Il secondo propellente è stato il convogliamento di una massa crescente di investimenti diretti all’estero (IDE) verso alcuni paesi del Sud del mondo, soprattutto asiatici, balzati secondo Litvin, in totale, dai 20 miliardi di dollari annui di fine anni ’80 ai 200 miliardi circa di fine anni ’90. In queste aree essi hanno messo le mani su un esercito di centinaia di milioni di lavoratori a salari stracciati, nettamente al di sotto del salario medio mondiale, una vera gallina dalle uova d’oro. La Cina è stata in primissima fila. In questo paese gli IDE sono balzati dai 6-7 miliardi di dollari dei primi anni ’90 ai 60 miliardi di dollari del 2006. E’ avvenuta così una formidabile ridislocazione della produzione industriale occidentale e mondiale verso Est e verso alcune aree del Sud del mondo, e attraverso una tale ridislocazione sono stati abbattuti i costi di produzione nell’industria, in agricoltura e negli stessi “servizi”, inclusa la ricerca tecnologica di grandi imprese come Microsoft o Ibm. Un risultato cui hanno contribuito non poco le decine di milioni di lavoratori “di colore” immigrati di recente negli Stati Uniti e in Europa, la cui (oggettiva) concorrenza sul mercato del lavoro occidentale ha ben funzionato da freno dei salari.

Il terzo propellente è stato l’esponenziale indebitamento che ha caratterizzato l’insieme degli stati, nonostante la pressoché universale contrazione della spesa sociale. In trenta anni il grado di indebitamento degli stati in rapporto al prodotto lordo si è duplicato – un’altra enorme zavorra accollata alla classe lavoratrice. Primatisti in ciò i grandi prestatori di denaro di un tempo: gli Stati Uniti. Anche perché lì al colossale indebitamento dello stato federale verso l’estero e l’interno, si è sommato l’indebitamento delle famiglie (con il record storico del 2007: un debito medio per famiglia pari al 130% del reddito, nel 1995 era l’89%), quello delle imprese industriali e finanziarie, quello dei singoli stati federati e infine delle amministrazioni locali, per un indebitamento complessivo pari ormai al 400% del prodotto interno lordo.

I primi due elementi hanno incorporato nell’accresciuta produzione planetaria una massa di profitti cresciuta ancor più rapidamente della produzione. Il terzo ne ha garantito, in ultima istanza, la realizzazione, offrendo un mercato di smercio per la quantità di beni strumentali e di consumo eruttata dal vulcano della produzione mondializzata. La continuità del rilancio dell’accumulazione iniziato nella seconda metà degli anni ottanta è dipeso, perciò, da un lato dalla possibilità di mantenere indefinitamente bassi i costi di produzione a mezzo di un bassissimo costo della forza-lavoro, dall’altro dalla possibilità di tenere sotto controllo il processo di indebitamento generale.  

Il duplice ruolo della finanza (vecchia e nuova)   

La “rivoluzione” finanziaria intervenuta in questo periodo ha cercato appunto di svolgere questo ruolo di guida, di regìa mondiale del processo di accumulazione di capitale (per sua natura, comunque, irriducibilmente anarchico), spostando di continuo in avanti il limite oltre il quale può esserci solo l’improvvisa sanzione di una nuova, gigantesca crisi di sovrapproduzione. Come lo ha fatto? Accrescendo in generale l’efficienza del capitale nello sfruttamento del lavoro alla scala mondiale, attraverso fusioni e concentrazioni di società di portata senza precedenti. Intensificando la concorrenza tra i lavoratori del Nord e del Sud del mondo, e all’interno dei due rispettivi mondi, attraverso spostamenti sempre più rapidi di capitali e di impianti. Imponendo a tutti gli “attori economici”, privati e statali, inclusi i più riottosi, la tirannia dei mercati (anche, quando necessario, attraverso embarghi e guerre). Premendo sui salariati perché accrescessero i loro debiti, lanciando loro l’esca di un (inizialmente) facile accesso al credito e costringendoli, in “cambio”, a lavorare di più e più intensamente. Diffondendo con un’estensione e un’ossessività che non ha precedenti nella storia del capitalismo l’ideologia liberale, e influenzando in senso mercantile, attraverso questa semina di ogm mentali ad alta tossicità, il comportamento di milioni e milioni di “individui” sia nei posti di lavoro che nelle loro “propensioni” ai consumi.

Sotto questo profilo, ha perfettamente ragione M. Wolf quando si lancia nella lode della “finanza senza vincoli” degli ultimi tre decenni, e rivendica ad essa di avere dato all’economia globale una nuova forma assai più vantaggiosa per il mondo degli affari di quella precedente, da lui identificata con il macchinoso, lento, poco profittevole “capitalismo manageriale”. A differenza dei manager di un tempo, scrive, “gli investitori finanziari svegli di cervello identificano velocemente e attaccano le sacche di inefficienza [scarsa profittabilità – n.]; nel fare ciò essi migliorano l’efficienza del capitale ovunque; impongono le regole del mercato al management alla guida delle imprese; finanziano nuove attività e mettono delle vecchie attività inefficienti nelle mani di chi è in grado di sfruttarle meglio; creano una superiore capacità globale di fronteggiare i rischi [del mercato]; allocano in qualsiasi angolo del mondo il loro capitale là dove esso frutterà di più; e, nel far questo, essi conferiscono alla gente comune la capacità di governare con maggior successo le proprie finanze”. Salvo quest’ultima asserzione, palesemente falsa, il resto è vero, anzi verissimo. Il “nuovo capitalismo finanziario” ha accresciuto, e di molto, l’efficienza del capitale nello sfruttamento del lavoro alla scala mondiale e per determinare “in tutto il globo un considerevole spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale”, così considerevole da farlo definire da M. De Cecco “una controrivoluzione globale”. Tutto ciò è meno nuovo di quel che si possa credere, perché già nel ventennio che precedette la prima guerra mondiale, tra fine ottocento/inizio novecento, si ebbe una trasformazione simile. Nessun dubbio però, sulla maggiore profondità ed estensione di questo secondo slancio interamente, realmente mondializzato del capitale finanziario. E sulla intensità delle conseguenze sul processo di produzione del capitale.

Ma… ma questo squillante “trionfo del finanziere sul produttore, dello speculatore sul manager”, dell’“intermediario finanziario” e dell’azionista sui dirigenti d’impresa, del capitale sul lavoro, ha avuto, e si incomincia a vederlo ad occhio nudo, anche un suo rovescio. Perché a grado a grado che questa nuova globalizzazione del capitale finanziario ha incamerato risultati anche politici esaltanti, il completo tracollo del “socialismo reale”, la stabilizzazione e la crescente apertura ai capitali occidentali del “socialismo di mercato” denghista, la generalizzazione delle politiche liberiste anche ai partiti e ai governi di “sinistra”, le vecchie e le nuove istituzioni della finanza internazionale hanno preso a scommettere con crescente, incontenibile euforia sul proprio futuro e sul futuro del capitalismo, producendo e scambiandosi una smisurata pletora di titoli giuridici di proprietà sul lavoro, sul plus-lavoro, delle future generazioni del proletariato mondiale. E così facendo hanno generato crescenti movimenti speculativi, molteplici bolle finanziarie, poiché ad essere scambiate furiosamente sul mercato mondiale sono state sempre più non masse di profitti reali, ma montagne di aspettative di profitti futuri e, via via, anche di debiti presenti (socializzati).

A gonfiare le vele dei vecchi e nuovi corsari della finanza mondiale fino a convincerli della loro invulnerabilità è stata, fino ad un certo punto, pure la relativa facilità con cui, almeno in superficie, sono state circoscritte e riassorbite le ricorrenti crisi finanziarie. A cominciare dalla crisi del debito messicano nel 1982, e poi il crollo di Wall Street nel 1987, il fallimento di più di mille Savings and Loan tra gli anni ’80 e gli anni ’90, il tonfo in borsa dei titoli della cosiddetta “New Economy” nel 2001, per tacere delle crisi del sistema monetario europeo nel 1992, del thai indonesiano nel 1997, del rublo russo nel 1998 e così via. Se pure il capo d’un partito “comunista” come Deng proclamava senza pudore che “arricchirsi è glorioso”, non si poteva certo pretendere di porre dei limiti alla creatività degli inventori di futures, alla generosità (da usurai) dei concessori di sub-prime, all’ingegnosità da pataccari dei produttori di “pacchetti azionari e obbligazionari” sempre più complessi e indecifrabili, ai virtuosi dei fondi fuori bilancio, ai “geni” dei modelli matematici di investimento automatizzati, ai gaglioffi controllori delle società di rating, altrettante magnifiche incarnazioni degli spiriti animali del capitale, della sua brama cannibalesca di abbattere ogni e qualsiasi ostacolo si frapponga alla sua illimitata valorizzazione.

  E’ stato toccato un limite!

 Era inevitabile, su queste basi, che sono al fondo le “basi”, e cioè le leggi di funzionamento, del capitalismo di sempre, arrivare alla vertigine del capitale che auto-genera sé stesso, che si valorizza e moltiplica da sé stesso se solo lo si lascia libero di fare quel che vuole e sa fare, senza passare attraverso la fatica (altrui) della produzione. Questa vertigine è stata sperimentata proprio negli ultimissimi anni, ed è il prodotto sia degli ingentissimi profitti effettivamente messi al sicuro nelle casseforti capitalistiche, sia della percezione di trovarsi di fronte ad intoppi sempre più difficili da superare. Sempre Marx ha spiegato, e la realtà conferma, che il ciclo dell’accumulazione di capitale arriva sempre ad un punto in cui il capitale stesso cerca di forzare artificialmente, attraverso la leva del credito, le difficoltà che incontra a valorizzarsi. Questa forzatura è stata, nel venticinquennio di cui parliamo, pressoché permanente, specie negli Usa, ma a prezzo, appunto, di accrescere passo dopo passo i rischi di un tracollo generale e, d’altro canto, senza poter riportare in equilibrio tra loro l’esponenzialmente incrementata capacità di produzione e la capacità di consumo sempre comunque  limitata della società, e dei salariati per primi.

E così, ad un dato punto, il meccanismo ha iniziato a incepparsi con l’esaurimento di uno dei suoi principali carburanti: la progressiva svalorizzazione della forza lavoro mondializzata.

Negli Usa, da qualche anno, i lavoratori hanno iniziato ad aver difficoltà a sostenere l’allungamento e l’appesantimento degli orari di lavoro accettati nei venticinque anni precedenti. Laggiù, nel paese che sta (o stava?) sulla collina a mostrare alle genti i miracoli del capitalismo anglosassone, tra il 1973 e il 2006 la produttività del lavoro è cresciuta dell’83%, ma il salario reale settimanale resta ancor oggi inferiore, secondo i calcoli rigorosi, a quello del 1973, mentre secondo altri calcoli più concessivi, è cresciuto (al massimo) del 13%, tant’è che nel 2006-2007 nella media delle famiglie statunitensi (immaginate poi in quelle dei neri, dei chicanos, delle donne sole con figli…) il tasso di risparmio è diventato negativo. E una tendenza analoga sta prendendo corpo anche nella “diversa” e più “equa” Europa, con il fenomeno sempre più vasto delle famiglie proletarie, e non solo, che stentano ad arrivare a fine mese. In Italia, per fare solo un esempio, negli ultimi anni la crescita della produttività del lavoro è stata fatta propria per l’87% dai profitti, e soltanto per il misero residuo 13% dai salari, divenuti nel frattempo i più bassi di Europa. A questo impoverimento relativo (e in non pochi settori di classe perfino assoluto) anche i proletari europei hanno cercato di fare fronte con l’incremento dei carichi di lavoro personali e familiari e un indebitamento crescente. Secondo Bankitalia i debiti medi delle famiglie, nel decennio 1995-2005, sono saliti in Gran Bretagna dal 96% al 148% (un record storico), in Spagna (ecco una componente non secondaria del “miracolo spagnolo”) dal 46% al 112%, in Italia dal 25% al 43%, in Francia dal 53% al 66%, in Germania dall’86% al 100%. In questo periodo sono comparsi sul mercato del credito perfino mutui a cento anni, sempre per l’acquisto della casa: le banche si sono così attribuite un diritto all’espropriazione del lavoro “assicurato” per quattro generazioni!

Ma come la crisi dei mutui ha evidenziato, e non solo negli Stati Uniti (vedi il fallimento della Northern Rock in Gran Bretagna e le pesanti perdite di grandi banche europee, a iniziare dall’Ubs), c’è un limite al di là del quale l’ipoteca sui salari diventa per i lavoratori, per quanti sacrifici facciano, materialmente insostenibile. Negli Stati Uniti, centro mondiale di questo indebitamento generale, questo limite è stato raggiunto nell’estate del 2007. Se non altro, a quel che è dato sapere, per tre milioni di famiglie. E da allora la sfrenata corsa al profitto del capitalismo finanziario globale ha aperto un ciclo, forse di importanza storica, di insolvenze.

Possibile che tutto questo pandemonio si sia generato per un’inezia del genere? Dopotutto, si legge, le perdite finanziarie accertate al momento (è fine marzo 2008) non oltrepasserebbero i 500 miliardi di dollari a fronte di una ricchezza finanziaria globale stimata al 2006 pari a 160.000 miliardi di dollari (meno dello 0,3%). Possibile? Possibile perché quei tre milioni di famiglie rappresentano soltanto la punta dell’iceberg: la loro dichiarazione privata di default rende pubblico agli occhi del mondo che il “sogno americano” è finito per una massa crescente di americani “comuni”. Possibile, anzi reale, perché al contempo sta finendo in altri angoli del globo un altro sogno (o incubo, a seconda dei lati da cui si guarda la realtà): quello dell’indefinito sfruttamento dei proletari asiatici, est-europei e latino-americani a produttività vicina a quella occidentale e salari sotto il livello di sopravvivenza (o quasi). Infatti negli ultimi anni in Cina, in America Latina, nell’Est Europa i salari si sono stabilizzati o hanno iniziato a lievitare, con la conseguenza di interrompere la diminuzione del prezzo dei beni di largo consumo importati negli Stati Uniti e l’effetto di bloccare finalmente, alla scala mondiale, la tendenza all’abbattimento dei costi di produzione.

Non possiamo fare a meno di aggiungere, poi, pazienza se ci si prenderà per dei “filo-islamici” (del resto, lo ha rilevato anche Stiglitz), che un contributo determinante a che si toccasse un punto di non ritorno della crisi finanziaria lo ha dato la resistenza degli iracheni e degli afghani che ha innalzato i costi materiali della guerra per lo stato yankee a livelli stratosferici (3.000 miliardi di dollari), restringendo in questo modo, per il presente e per il futuro, la possibilità delle agenzie bancarie e dei nuovi intermediari finanziari di continuare a erogare crediti facili (si fa per dire) ai privati ultra-indebitati in cerca di un salvagente a cui aggrapparsi. 

E così, ancora una volta, è l’economia reale, sono i rapporti sociali antagonistici, il vero, l’ultimo banco di prova di questa enorme “bolla di sapone di capitale monetario nominale” che si è venuta a creare nel corso delle orge capitalistiche di fine e inizio secolo. Ancora una volta il mago non è riuscito a dominare le potenze degli inferi da lui stesso evocate. E l’esito di questo impatto è certo: essa è destinata a sgonfiarsi o ad esplodere, poiché troppo grande è divenuto lo scostamento tra le mere aspettative di profitto e i profitti realmente realizzabili.

 E ora, sarà possibile gestire la crisi?

 E ora?

Assistiamo al tentativo multilaterale di governare la crisi. Tentativo che è in corso da quasi un anno e si presenta complicatissimo. Anche perché la crisi bancaria innescata dai mutui sub-prime si somma e si combina con altri due fattori fortemente destabilizzanti: la caduta senza fine del dollaro e l’altrettanto infinita crescita del prezzo del petrolio e di altre materie prime (tra cui anche materie prime agricole).

Il declino del dollaro ha due facce: rispecchia fedelmente il declino della supremazia statunitense nella produzione di merci, ma è al contempo un’arma anti-declino che Washington sta usando come una mazza da baseball per spezzare i denti agli “amici”-concorrenti europei e rifilare ai sottoscrittori del suo debito, gradualmente, il maxi-bidone del “biggest default in history”, della più gigantesca insolvenza (o truffa) nella storia del capitalismo. Non meno squilibrante è l’accumulo di montagne di profitti e rendite nelle mani dei paesi produttori di petrolio e di gas che, certo, possono alimentare con questo oceano di liquidità il processo di accumulazione allargando i propri mercati interni, investendo produttivamente o tamponando, nell’interesse di tutti, le prime grosse falle del sistema finanziario. Ma non intendono e non possono farlo gratis (vedi il modo in cui si muovono i fondi sovrani arabi), come accadde al tempo dei petrodollari. E non possono proseguire su questa strada senza creare, con l’inevitabile incremento dei costi di produzione, crescenti difficoltà alla Cina, all’India e agli altri paesi rampanti del momento che fungono ormai da traino (provvisorio) dell’accumulazione mondiale.

Nondimeno, e proprio per questi ulteriori rischi di sistema, il tentativo di governare la crisi c’è. Vi sono impegnati anzitutto gli Usa e gli altri stati occidentali con una serie di esercizi funambolici. Far uscire di scena le imprese finanziarie decotte. Far emergere un pool di giganti bancari e finanziari risanati in grado di trainare la continuazione dell’accumulazione e di pilotare una ulteriore centralizzazione del capitale industriale. Associare in questa operazione di ripulitura-salvataggio i fondi dei paesi esportatori di petrolio e della Cina così da responsabilizzarli nella gestione dell’economia mondiale. Difendere le quote di mercato delle “proprie” multinazionali con le barriere protezionistiche. Il tutto per ammortizzare i danni, scaricarli sui pesci minori, prendere fiato e prepararsi ad applicare la vera cura “risolutiva” che questi grandi poteri capitalistici hanno in mente. Una cura che si basa su tre medicine amarissime per i proletari: una nuova, secca svalorizzazione della forza-lavoro mondiale; una nuova, amplissima espropriazione dei contadini dalle campagne dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia per dare forza a questa svalorizzazione e incorporare più a fondo le campagne dei continenti di colore nel processo di accumulazione; la sottomissione al dominio totale dell’Occidente dello sviluppo capitalistico della Cina e dei paesi, Iran, Venezuela e Russia, che vi si sono associati.

Da molti, a destra e a sinistra, invece, questa crisi è vista come una grande opportunità “in positivo” per una ridislocazione pacifica del “centro” dell’economia mondiale sempre più verso Oriente, per una “perequazione dei rapporti di potere tra Nord e Sud del mondo”, ed infine per una maggiore perequazione interna ai singoli stati tra classi proprietarie e classi lavoratrici. Il fallimento della globalizzazione neo-liberista, quindi, come grande occasione per rilanciare un nuovo keynesismo e un vero multipolarismo, i due massimi stabilizzatori, anche per i Samir Amin e gli Arrighi, di una economia mondiale che sarebbe solo in parte, a quel punto, capitalistica. Ora, certo, una tendenza alla riduzione degli squilibri di forza tra Usa e Cina è in atto. Ma come si fa a non vedere che gli Usa hanno già messo in moto le proprie contromisure con la politica della “guerra infinita”, con i primi provvedimenti protezionisti, con le blandizie diplomatico-militari verso l’India, il Giappone, il Vietnam, la Russia, con la socializzazione mondiale dei rischi e delle perdite dell’America s.p.a.? Come si fa a non vedere che le élites dirigenti di entrambi i continenti in declino, Nord America ed Europa occidentale, vanno riconoscendosi sempre più intorno alla necessità di una grande unità nazionale finalizzata ad un solo obiettivo: rilanciare la competitività delle proprie nazioni contro le altre, costi quel che costi? e come si fa a non vedere che la pazienza da guru degli alti papaveri ultra-borghesi di Pechino è dovuta solo al calcolo (molto) realistico dei benefici del prender tempo, un tempo che sta giocando tutto e solo a favore della Cina e a sfavore degli Usa? non si sta forse anche la Cina avviando verso il riarmo?

Al momento neppure le potenze imperialiste occidentali sono pronte allo scontro, tirate come sono da due esigenze contrapposte. Da un lato, devono colpire con violenza le loro classi lavoratrici. Dall’altro, hanno bisogno del loro “consenso” e della loro mobilitazione per portare avanti, anche militarmente, nelle guerre ancora aperte e in quelle da aprire, la difesa e l’allargamento della propria quota della forza-lavoro sfruttata in Asia, in America Latina e in Africa. Come è possibile quadrare un simile cerchio? La carta su cui si accinge a puntare l’imperialismo è rivelata dai programmi dei candidati rimasti in lizza per le presidenziali negli Usa (Mc Cain, Hillary Clinton ed Obama): canalizzare in chiave anti-cinese e anti-islamica lo scontento dei lavoratori occidentali e promettere loro che schiacciando l’asse islamico-confuciano (se un asse del genere si costituirà) si potrà almeno ridurre il balzo all’indietro nelle condizioni di vita e di lavoro riservato al proletariato da un capitalismo nuovamente in crisi (e che crisi!). La preparazione di questa gigantesca operazione di irregimentazione e blindatura delle società occidentali è la contro-misura fondamentale in corso di approntamento da parte dei vertici degli stati occidentali, della Federal Reserve, della Bce e di tutto il gotha del capitalismo mondiale.

 La nostra prognosi

 Per noi, quindi, non ci sarà alcuna pacifica “perequazione della ricchezza e dei redditi” tra Nord e Sud del mondo, tra Ovest ed Est, tra sfruttatori e sfruttati. Ci sarà, al contrario, un’intensificazione immediata della concorrenza inter-imperialistica e inter-capitalistica, e delle tendenze verso una guerra generalizzata per la rispartizione del mercato globale (che non è alle porte, ma si avvicina). Ci sarà un approfondimento “inimmaginabile” degli antagonismi di classe e della lotta di classe

Il proletariato mondiale è ancor meno preparato della borghesia ad un simile scenario. Ma, volente o nolente, dovrà fronteggiarlo, saprà farlo. Il nostro non è un esercito di fantasmi, ha le sue grandi tradizioni, non gli manca né l’esperienza né la teoria. Al momento è disorganizzato ma  il terremoto economico, sociale, politico che la crisi dei mutui preannuncia potrà e dovrà costituire per esso il punto di partenza di una sua rinascita, di un  nuovo movimento proletario rivoluzionario, che dalle proprie ceneri risorge come la fenice.

Per preparargli il terreno, un’avanguardia degna di questo nome deve osare, osare, ed ancora osare sfidare lo spirito dei tempi rimettendo in pista e portando fino in fondo la critica marxista del capitalismo. Deve osare, osare e ancora osare affermare e motivare davanti alla massa degli sfruttati di ogni colore che c’è una sola soluzione, una sola via di uscita: la rivoluzione sociale, il socialismo internazionale.

      Dal Che Fare n.69 aprile - maggio 2008

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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