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Che Fare n.68 novembre  - dicembre 2007

L’Italia dalla seconda alla terza repubblica: per i

 

 lavoratori di male in peggio



La situazione politica italiana è in nervosa agitazione e non promette niente di buono per i lavoratori.

I ds si sciolgono nel nascente partito democratico. I cespugli centristi della maggioranza, Di Pietro e Dini in testa, tramano con il centro-destra. Pur se la costituzione di un partito unico delle Libertà arranca, vanno avanti le prove di mobilitazione di piazza delle destre, ultima quella di sabato 13 ottobre di An a Roma. Non accenna, poi, a placarsi lo scompiglio provocato sul e nel “palazzo” dalla campagna dei grandi mezzi di informazione contro la “casta”... Cosa sta succedendo?

Al momento della liquidazione della prima repubblica, nei primi anni novanta, dicemmo che la seconda repubblica in incubazione avrebbe avuto il compito di rompere il compromesso sociale tra capitale e lavoro salariato stabilito nel secondo dopoguerra, di disciplinare strettamente i lavoratori al rilancio della competitività delle imprese, di restituire lustro alla potenza imperialistica dell’Italia sul mercato mondiale. Questa operazione, a cui hanno concorso -con metodi e tempistiche diverse- i governi tecnici, i governi di centro-destra e quelli di centro-sinistra, è riuscita solo in parte.

Da un lato, per la resistenza, sorda e talvolta aperta, dei lavoratori ad accettare passivamente la torchiatura e l’annullamento politico riservati loro dalla seconda repubblica. Dall’altro lato, per l’incapacità del grande capitale e dei suoi centri di potere politico a disciplinare al rilancio della nazione gli strati intermedi della società. Il “compromesso storico” tra capitale e lavoro salariato era, infatti, intrecciato ad un altro compromesso: quello stabilito dal grande capitale con i ceti medi per bilanciare il movimento operaio. La ristrutturazione del paese non doveva mettere in riga solo il proletariato, doveva anche tagliare i relativi “privilegi” dei lavoratori del pubblico impiego e dare un minimo di regola fiscale alle brame esentasse dei ceti medi accumulatori.

Nel periodo 1992-2006 le due operazioni non sono riuscite fino in fondo nei termini sperati dai grandi poteri finanziari e industriali nazionali e internazionali. Oggi i nodi vengono al pettine. Per un contesto internazionale in cui le imprese italiane sono doppiamente insidiate. Dall’emersione di concorrenti estremamente dinamici, nell’Est europeo e nell’Estremo Oriente. Dalla presenza negli altri paesi imperialisti di processi di ristrutturazione dei rapporti tra le classi sociali a vantaggio del grande capitale più profondi e rapidi di quelli avvenuti in Italia. Vi sono riusciti la Gran Bretagna, la Spagna e la Germania. Ora tenta il gran passo anche la borghesia francese con Sarkozy. Senza contare l’insidia del dumping in Europa delle merci made in Usa messa in opera dalle imprese d’oltre Atlantico con il favore della svalutazione del dollaro.

La borghesia italiana ha bisogno di compiere un salto. Di dare al processo di accumulazione e all’intera vita sociale la disciplina autoritaria...

richiesta per riprendere quota nella concorrenza internazionale. Il governo Prodi, il costituendo partito democratico, le sperimentazioni sul polo di centro-destra, l’indecisionismo della seconda repubblica non soddisfano la “razza padrona” italiana, quei re della finanza e dell’industria che, come ha scritto Scalfari, rappresentano il vero potere, inamovibile, del paese. Nell’arco di un secolo questo potere è passato dal liberalismo giolittiano al fascismo, dal fascismo alla repubblica a seconda di come i tempi imponevano di perfezionare lo sfruttamento del lavoro salariato e di migliorare la collocazione dell’Italia nella gerarchia del capitalismo mondiale. Adesso, questi stessi grandi poteri capitalistici stanno premendo per un nuovo cambio. Da qui la campagna contro la “casta politica”. Colpevole, agli occhi della supercasta della finanza e della grande imprenditoria che l’ha allevata, di essere incapace di portare avanti la centralizzazione di tutti gli strati della nazione al rilancio della competitività del paese. Soprattutto di essere troppo debole verso la “corporazione” del lavoro salariato.

Non che nulla sia stato compiuto dalla seconda repubblica. Da ultimo dal governo di centro-sinistra, sua ala “radicale” compresa. Ma è ancora poco. Lo ha esplicitato Galli della Loggia qualche giorno fa sul Corriere della Sera: il turbine di Mani Pulite, che ha fatto scomparire la Dc e il Psi (ma non i democristiani e i socialisti!), ha permesso alla “sinistra”, uscita indenne da Tangentopoli, di arrivare al governo senza aver in precedenza assunto una cultura di governo; il guaio è che –si lamenta Galli della Loggia- la “sinistra” continua a non volerla acquisire, tale cultura, si rifiuta di “condurre una grande battaglia di rottura rispetto al proprio stesso passato per cancellare dal suo popolo la mentalità radicale [s.n.], e dunque sempre incline potenzialmente al massimalismo di vario tipo. La sinistra è ancora prigioniera di un male forse incurabile: il continuismo con la vecchia tradizione comunista.” (23 settembre). Agli occhi degli industriali e dei banchieri, anche il partito democratico, il cui segretario in pectore non fa altro che sbracciarsi per affermare che il conflitto capitale e lavoro è morto, sembra incapace di tagliare questo cordone “del popolo della sinistra”.



Un progetto molto ambizioso



Così i grandi poteri capitalistici nazionali e internazionali si sono rimessi in moto contro “l’impresa della politica”, come fecero agli inizi degli anni novanta. Anche questa volta, come nel 1992, occorre sparigliare le carte e preparare una svolta autoritaria, l’arrivo di un novello Cesare, come ha auspicato uno dei loro portavoce, Scalfari, qualche mese fa. E anche questa volta, il grande capitale cerca di far leva sull’insoddisfazione popolare verso un sistema politico lontano ed estraneo dalle aspettative della gente. Il progetto è lungimirante e ambizioso.

Lo scontento causato dalle conseguenze sui lavoratori del passaggio alla terza repubblica sarà crescente. Per quanti sforzi si facciano a spingerlo nel retrobottega della coscienza, non potrà essere annullato. L’unico modo per evitare che trovi un autonomo punto di coagulo è quello di indirizzarlo contro una serie di capri espiatori. Che stanno in basso: gli immigrati, gli emarginati, la vecchia generazione operaia che sarebbe renitente ai sacrifici (!), gli sfruttati del Sud e dell’Est del mondo che osano ribellarsi al pieno dominio del capitale italiano e imperialista. Ma capri espiatori che stanno anche in alto, nella “casta” dei politici borghesi o in quella dei finanzieri speculativi tipo Tanzi e Ricucci (a questi, si capisce, sarà riservato un trattamento di favore). La promessa è quella di una razionalizzazione del potere politico ed economico, con vantaggi per tutte le “classi produttive” della nazione. L’obiettivo è in realtà una più scientifica organizzazione della torchiatura e del controllo sociale del lavoro salariato. Riprendendo la lezione storica della genesi del nazismo e del fascismo, il capitale si prepara a deviare e sublimare lo scontento e la rabbia dei lavoratori verso il sostegno attivo a questo programma, verso la loro mobilitazione contro i nemici esterni alla comunità nazionale e contro i “corrotti scansafatiche” interni che ne minano la compattezza e la competitività. Di qui, la “tolleranza-zero”, la propaganda razzista, la campagna giovanilista bipartisan contro l’“inutile” peso della vecchia generazione (“Giovinezza, Giovinezza…”), il parziale scoperchiamento della fogna dorata della politica borghese, i tentativi italici di innesto ogm incrociato democrazia-fascismo che le tecniche borghesi di manipolazione della vita sociale e politica hanno in agenda per l’intero Occidente.



Le contraddizioni irrisolte



La regia di questo disegno non è unica, né è ancora chiaro come il copione sarà sceneggiato.

Pur appeso ad un filo, Prodi potrebbe continuare a navigare e ad assestare altri colpi ai fianchi lavoratori, in attesa che la rancida minestra sul fuoco completi la cottura. Si potrebbe andare direttamente alle elezioni: l’inevitabile risultato, il ritorno in sella di Berlusconi, non è, però, gradito al grande capitale. Non per lo strapotere individuale del cavaliere. Bensì perché quest’ultimo è troppo condizionato da una base sociale borghese arruffona e riottosa ad essere disciplinata al rilancio nazionale. E perché, anche per questo, incapace di tagliare il nodo gordiano del “potere di interdizione” del sindacato.

Qualche chance come provvisoria alternativa a Prodi potrebbe averla un governo tre-quarti tecnocratico e un-quarto populistico di unità nazionale per il varo di nuove riforme istituzionali, l’imposizione di qualche drastico intervento di riduzione (a spese dei soliti noti) del debito pubblico e l’accelerazione della razionalizzazione della macchina statale. L’operazione è coltivata da anni -l’ha raccontato Turani- nei salotti buoni della “nuova” razza padrona italiana, dai Montezemolo, dai Marchionne, dai Bazoli, dai Profumo, ma essa sconta più di una palla di piombo al piede. Pesa la mancanza di “uomini nuovi” provenienti dal basso capaci di catalizzare i sentimenti popolari, di cui si comincia, però, la sperimentazione nelle mobilitazioni di piazza delle destre e negli scambi di ruolo destra-sinistra legati ai contatti di Di Pietro, via Grillo, con Fini e la Brambilla. Ma anche, a scala locale, alle amorose corrispondenze dei Cofferati, degli Illy, dei Cacciari con gli ambienti politici, religiosi e “intellettuali” della destra.

Pesa anche, seppure meno appariscente, lo zampino che gli alleati internazionali, dagli Stati Uniti a Israele al nuovo inquilino della presidenza francese, stanno mettendo nel calderone italiano, come già successo negli anni novanta, per ostacolare il tentativo della borghesia italiana di rilanciarsi attraverso lo sviluppo di un’Europa alleata ma autonoma degli Usa, capace di condurre una politica non prona a questi ultimi soprattutto in Medioriente.

Cosa accadrà nei prossimi mesi, dio solo lo sa. Di sicuro, rimanga Prodi, si vada alle elezioni, si compia il “big bang” preparato dalla “nuova” razza padrona o si scivoli in un caos melmoso, il quadro politico ha un programma anti-proletario estremamente chiaro.



Anche i lavoratori devono darsi una prospettiva globale di lungo periodo.



Ed i lavoratori, come sono posizionati di fronte a questo fosco orizzonte?

Anche il mondo del lavoro salariato è insoddisfatto della seconda repubblica. Del centro-sinistra e del governo in carica. Non lo galvanizzano né il nascente partito democratico né la “Cosa Rossa”. Il suo consenso verso i partiti della destra continua ad essere consistente, soprattutto al nord e soprattutto tra i lavoratori delle piccole imprese, come hanno mostrato le ultime elezioni amministrative, ma anche Bossi, Berlusconi e Fini risultano poco convincenti. La classe lavoratrice e il suo consistente nocciolo operaio (il 30% circa della forza lavoro) sono lontani dalla ristrutturazione in corso del quadro politico italiano. Vivono una delusione a cui nessuna forza politica riesce a dare, per ora, una risposta ai loro occhi persuadente. Come ha rilevato un commentatore di destra “una parte del lavoro operaio avverte di essere relegato all’opposizione e nel sindacato e nella sinistra” (Il Giornale, 7 ottobre). Soffre il peso della snervante spremitura sul posto di lavoro, dell’azzeramento della considerazione sociale del proprio ruolo e dell’infelicità di massa dilagante al di fuori del posto di lavoro.

Malgrado questo scontento, i lavoratori hanno difficoltà a reagire. Soprattutto per l’incubo paralizzante della crescente concorrenza dei lavoratori dell’intero pianeta, oramai “fusi” dal capitale mondializzato in un unico mercato del lavoro. Nondimeno sono tangibili dei primissimi tentativi di uscire da due anni di stasi e di ripiegamento. Se ne è avuta la manifestazione, da ultimo, nelle nelle assemblee sul protocollo del 23 luglio svoltesi all’interno degli stabilimenti medio-grandi. La rabbia che si sta accumulando, in particolare nel proletariato industriale, è uno dei fattori che ha portato alla convocazione nelle prossime settimane di una serie di iniziative: la manifestazione del 20 ottobre e lo sciopero proclamato dai sindacati di base contro il protocollo del 23 luglio; le due manifestazioni dei lavoratori immigrati del 27-28 ottobre; la manifestazione sul fisco indetta da Cgil-Cisl-Uil per la metà novembre; l’iniziativa di Vicenza contro il Dal Molin di metà dicembre.

Per modeste che possano essere prese ciascuna a sé, tali iniziative devono essere partecipate, sostenute e spinte in avanti in modo da fare i conti con gli effetti smobilitanti delle politiche riformiste delle stesse forze che le organizzano. Alla prospettiva globale che porteranno in esse il partito democratico, la “Cosa Rossa”, le direzioni di Cgil-Cisl-Uil e gli altri spezzoni della “sinistra” italiana (più o meno “antagonista”) va contrapposta una contro-prospettiva altrettanto globale. Va fatto emergere quanto il malessere che si esprime in ciascuna iniziativa riguardi l’intera condizione proletaria, e non singoli aspetti di essa, quanto tale malessere trovi le sue radici non in una qualche specificità dell’Italia ma nel sistema capitalistico mondiale, nella inevitabile conversione distruttiva sull’umanità lavoratrice e sulla natura dell’uso capitalistico delle moderne forze produttive.

Il problema non è il singolo politico, corrotto o cocainomane. L’esperienza di “Mani Pulite” dovrebbe avercelo insegnato. Il problema non è semplicemente neanche il capitalismo speculativo o una certa gestione del capitalismo, come invece si ingegna a sostenere la “sinistra”, più o meno radicale. Il problema è il capitalismo tout court, il mercato, la produzione per il profitto, la classe che li dirige, il meccanismo democratico che ne olia l’ingranaggio. Questo è il vero gas serra che ci sta soffocando. E da cui nasce e di cui è espressione il “declino dell’Italia”. Da esso ci si potrà difendere solo rifiutando l’appello confindustriale e governativo al sostegno del rilancio della competitività del paese. Preoccupandosi dell’unico declino che ci interessa bloccare e invertire: quello delle condizioni e del potere dei lavoratori. Dotandoci dell’unica prospettiva in grado di difenderci dalla concorrenza mondializzata tra lavoratori, quella della mondializzazione dell’organizzazione dei lavoratori, di cui va bloccato e invertito lo scompaginamento. Sulla base della lotta auto-organizzata degli sfruttati, indipendente dalle altre classi e dalle istituzioni democratiche. Spalla a spalla con i lavoratori immigrati e in solidarietà con le lotte di resistenza all’imperialismo nel Sud del mondo, a partire da quelle nel mondo arabo-islamico. Mettendo nel mirino anche la campagna securitaria e la politica militarista e neo-coloniale del governo Prodi. E senza farsi abbindolare dalla balla secondo cui i lavoratori non abbiano bisogno di un proprio partito per difendersi, che, anzi, debbano guardarsi da esso perché i guai vengono sempre dai “politici”, mentre la “società civile” e il mercato sarebbero le uniche cose sane, e potrebbero far prosperare, se liberati dalla dittatura dei “politici” e gestiti da manager capaci alla Marchionne, operai e padroni insieme.

In una parola, è la prospettiva globale del socialismo.

Che Fare n.68 novembre - dicembre 2007

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