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Brescia ed Erba. Due delitti compiuti da proletari. Pachistani in un caso, italiani nell’altro. A morire, in entrambi i casi, sono state anzitutto donne. Per vie diverse, essi rimandano alle miserie e alle contraddizioni che i proletari vivono nella società contemporanea. Al cruciale rapporto tra le popolazioni immigrate e le popolazioni autoctone. All’esigenza di trovare una comune via d’uscita dal tunnel in cui siamo.
Hina e le altre
I riflettori sulla vicenda di Hina Saleem si sono spenti da un pezzo. Le cronache estive hanno fatto a pezzetti la sua vita mettendola al servizio della quotidiana azione di schiacciamento e criminalizzazione cui sono sottoposte le comunità degli immigrati. Gli immigrati e le immigrate devono presentarsi alle nostre frontiere come individui, a mani alzate, e una volta entrati, rinunciare alla loro identità, ai loro costumi e alla loro dignità, individuale o collettiva. Hina ha meritato una pelosa ed effimera compassione perché, si è detto, aveva scelto senza mediazioni di diventare "una di noi". Ritorniamo su questa vicenda perché è quanto mai attuale e necessario sbarrare la strada a questa propaganda, smascherare ciò che riserva la nostra società alle donne immigrate e sostenerle con la solidarietà militante dei lavoratori e delle donne nei loro tentativi di trovare la strada di una vera emancipazione.
Parlare di Hina Saleem e della sua morte non è semplice. Anzitutto per la propaganda scatenata intorno ad essa, che l’ha fatta divenire il simbolo della "barbarie" che regna nei paesi del Sud del mondo, barbarie che con l’immigrazione arriva fin qui, nel cuore della civiltà, dove le donne vivono libere e vengono rispettate.
Una violenza abituale
Al contrario, come ci testimoniano le cronache ogni giorno, il barbaro assassinio di Hina è avvenuto all’interno di una società intrisa di violenza, in cui i delitti di sangue contro le donne per opera di famigliari maschi sono circa 200 ogni anno. Essi costituiscono in tutti i paesi occidentali la prima causa di decesso per le donne dai 16 ai 45 anni! I dati smentiscono, dunque, clamorosamente il fatto che la violenza sulle donne sia un’esclusiva dei popoli e delle culture "arretrate", in particolare degli immigrati di fede mussulmana. Certo, diversi sembrano essere nel caso di Hina gli autori e le motivazioni.
Hina è stata ammazzata dal padre, dallo zio e dal cognato perchè minacciava, col suo comportamento, la stabilità della struttura patriarcale alla base della sua famiglia, della sua comunità. Una struttura che implica il controllo dei familiari maschi sulla vita -soprattutto sulla sessualità- delle donne. Una struttura sentita illusoriamente da alcuni come baluardo della propria identità, come difesa dalla marginalizzazione e dal razzismo che impregna le società di "accoglienza". In Italia una simile struttura era presente fino a non molto tempo fa e consentiva il delitto d’onore, che è stato abolito dai nostri codici solo nel 1981. Niente di particolarmente "diverso" e sconosciuto, dunque. Lo sviluppo sociale e le lotte delle donne e dei lavoratori lo hanno allontanato nel tempo e hanno reso obsoleto il controllo dei padri sulle figlie, dirottando l’esplodere della violenza all’interno della coppia, della famiglia ristretta, dei rapporti di vicinato. Per non parlare della violenza quotidiana con cui rendiamo possibile lo sfruttamento e lo schiacciamento di interi popoli.
Non è semplice parlare della morte di Hina perché la propaganda ha sfruttato l’intero accaduto e l’orrore che ha suscitato tra i lavoratori e le donne per contrastare i tentativi di avvicinamento e di socializzazione che si verificano tra lavoratori italiani e immigrati, che sempre più frequentemente condividono luoghi e tempi di lavoro, e le stesse lotte. Per erigere un muro tra il mondo dell’immigrazione e le donne, comprese quelle che, in questo ultimo anno, hanno contribuito a lanciare e a partecipare attivamente alle mobilitazioni in difesa della "194", chiamando a parteciparvi le donne immigrate e denunciando apertamente come il ricatto della scelta tra lavoro e maternità colpisca, innanzitutto, le lavoratrici precarie e le lavoratrici immigrate e sia parte di un più generale attacco alle conquiste della classe lavoratrice.
Stereotipi coloniali
E’ stato rispolverato il vecchio ritornello caro al colonialismo sulla missione civilizzatrice e liberatrice che l’Occidente pretende di avere nei confronti delle donne dei continenti "colorati". Questo dato, storicamente falso, è di supporto alla propaganda finalizzata a compattare i proletari occidentali nell’appoggio all’aggressione ai popoli arabo-islamici – nella quale l’Italia si è ritagliata un ruolo di prim’ordine- e a dividere e contrapporre qui da noi i lavoratori autoctoni da quelli immigrati, per meglio ricattare gli uni e gli altri. Gli immigrati, ci siamo sentiti ripetere in tutte le salse – se vogliono vivere qui, in Italia, per lavorare, devono abbandonare ogni retaggio del "tribalismo", devono -ha detto il ministro per le "pari opportunità" Pollastrini- "ripudiare il fondamentalismo maschilista proprietario" . Essi devono accettare la nostra cultura ed aderire pienamente ai suoi valori. Devono fare proprio il "rispetto" che l’Occidente porta alle donne, rispetto che, come sappiamo, consiste nel toglierle al controllo dei maschi della famiglia allargata e mettere a disposizione della società intera la loro capacità lavorativa, procreativa e sessuale, in un ruolo comunque subordinato e che si prevede tanto più subordinato per le donne immigrate. Dal patriarcalismo individuale al patriarcalismo collettivo, dunque.
Il rifiuto di compiere questo passo, o la scelta di modalità diverse dall’adesione totale ai modelli sociali dominanti, è oggetto comunque di una furibonda campagna razzista (vedi il can can scatenato a livello europeo sulla questione del velo) all’interno della quale Hina è stata indicata come esempio da seguire per tutte le donne che sono immigrate qui in Italia: non tanto per essersi ribellata, quanto perché la sua sfida alle leggi patriarcali è sembrata coincidere con la scelta del modello femminile che si vorrebbe imporre definitivamente anche alle stesse donne occidentali: un modello nel quale apparire letteralmente senza alcun velo dovrebbe sembrare sinonimo di libertà e liberazione dall’oppressione maschilista.
Bisogno di emanciparsi
Sono certamente molte le donne immigrate che cercano un loro percorso di liberazione dalle opprimenti condizioni di vita imposte dalla famiglia, da una soggezione tipica delle società pre-moderne, e che viene da una parte del mondo islamico pienamente legittimata. Ricordiamo tra queste il caso recente di Kaur, giovane operaia indiana che, vedova, si è uccisa per non acconsentire al matrimonio col cognato impostole dalla famiglia nel suo paese d’origine. Altre cercano un loro percorso di emancipazione accettando le regole imposte dalla famiglia per quanto riguarda la vita personale, il matrimonio, ma pretendendo di studiare e lavorare. Anche questo percorso comporterà contraddizioni e lotte, com’è stato ed è tutt’ora per molte donne occidentali.
Molte adolescenti che vivono e studiano qui vogliono essere "uguali" alle loro coetanee, non vogliono sentirsi emarginate, desiderano liberarsi dall’oppressione familiare. Con questo desiderio, così come con tutte le spinte che muovono le donne immigrate a cercare una loro più piena partecipazione alla vita sociale, e di conseguenza a poter scegliere anche nella loro vita personale, noi siamo pienamente solidali.
Siamo solidali con il desiderio di libertà delle più giovani, anche se sappiamo bene che esso rischia troppo spesso di trasformarsi in un’altra pesante forma di soggezione. Non parliamo solo dei casi estremi, anche se frequentissimi, delle tante giovani che vengono in Italia per lavorare e si trovano irretite in giri di prostituzione. Parliamo della realtà, -spesso coperta dalla propaganda mediatica -che molte giovani immigrate si trovano materialmente davanti, quella che Hina stessa stava sperimentando, al di là dell’abbigliamento che la rendeva così simile alle altre ragazze, dal piercing, della convivenza con un uomo che i genitori non approvavano: una condizione di degrado materiale e morale che vanifica spesso ogni tentativo di emancipazione, e che ha un effetto dirompente sulla stabilità delle loro famiglie.
Vittima di due patriarcalismi
Pensiamo solo un attimo al contesto dove si sono svolti i fatti, dove Hina ha trascorso la sua adolescenza. La provincia di Brescia: una delle zone più ricche di Italia, con una forte e consolidata realtà industriale e il più alto tasso di presenza di immigrati in Italia, il 12%, il doppio della media nazionale. Una società dove saltano subito all’occhio le conseguenze provocate dal progressivo degrado sociale, dovuto alla mercificazione e alla alienazione dei rapporti umani, in primis quelli tra uomini e donne. Una società tanto ricca di danari quanto misera nei rapporti umani, dove l’esclusione dalla vita sociale degli immigrati degenera in segregazione razziale vera e propria. Questa segregazione è stata riservata anche alla famiglia Saleem.
Il padre, e con lui i famigliari maschi, hanno identificato e personificato la causa in ciò che era invece effetto di questa segregazione, ossia il comportamento di Hina, la sua propensione verso un modello di vita che essi sentivano come una minaccia alla stabilità e alla dignità della famiglia, alla sua appartenenza alla comunità. Hanno cercato di mantenere la presa su questa giovane donna esasperando il controllo su di lei, fino a tenerla a casa da scuola e a negarle l’accesso all’oratorio, gli unici mezzi di socializzazione con i suoi coetanei italiani e immigrati. E prima di arrivare al delitto ci sono certamente state liti e minacce. In un certo qual modo verrebbe da dire, la segregazione nella segregazione.
E Hina? Lei ha cercato di reagire all’aumento della stretta oppressiva con l’andar via di casa. Fuori di casa la vita non è sicuramente stata facile. E’ stata una vita proseguita in un altro genere di emarginazione, che sicuramente Hina non aveva previsto nella sua scelta di libertà. Sognava di fare l’attrice, hanno detto. Invece, secondo quanto ha dichiarato un operatore sociale, era stata coinvolta in "esperienze che possono essere definite, anche per una ragazza italiana, non sempre delle più felici" (Carta, 28 agosto 2006), e lo stesso fidanzato, un giovane bresciano, con cinica noncuranza della sua oggettiva fragilità, ha finito per coinvolgerla in giri di droga.
Si è trovata così ad essere vittima di due uomini (e di due patriarcalismi, aggiungiamo noi): il padre, che l’ha privata della vita, e il fidanzato che, diffondendo i filmini fatti prima della sua morte e dandola in pasto al circuito mediatico della più bassa lega, ha reso padrone l’Occidente del suo corpo, dimostrando così quanto aveva a cuore la sua "libertà".
E’ su tutt’altra strada che le donne immigrate potranno realizzare il proprio bisogno di emancipazione.
La storia di Hinanon deve ripetersi!
Il presupposto fondamentale per un vero percorso di emancipazione delle donne immigrate risiede nella loro attivizzazione, che non può, per essere efficace, avvenire solo individualmente. La storia che abbiamo raccontato ci rimanda alla necessità che esse intraprendano questo percorso in modo collettivo, che tenga conto dei complessi problemi che questa emancipazione solleva, e che sia animato dallo sforzo di far comprendere alle comunità di provenienza quanto l’abbandono delle vecchie strutture sia ineludibile, quanto sia necessario trovare strategie comuni, e non basate sulla subordinazione delle donne, di resistenza allo sfruttamento e ai tentativi di disgregazione contro cui impatta la loro presenza in Occidente.
Gli stessi lavoratori immigrati, oggi per lo più scandalizzati e intimoriti dai nostri costumi, sono chiamati a verificare come sia più facile affrontare le loro quotidiane battaglie per sopravvivere con dignità, per rivendicare i loro diritti, avendo al fianco donne coscienti e forti, e non umiliate e sottomesse, segregate tra le mura di casa. Anche loro sono chiamati dare solidarietà.
Per questo chiamiamo le donne occidentali a manifestare una piena e totale solidarietà ad ogni tentativo che le donne immigrate fanno, sia pur a livello individuale, di liberarsi dalle loro ataviche oppressioni e cercare una strada per la loro emancipazione. Solidarietà tutt’altro che scontata, nei fatti, nella misura in cui proprio dal loro lavoro e dalla loro subordinazione anche le donne di qui traggono vantaggio. La vera solidarietà poi non può trincerarsi dietro al relativismo culturale, grimaldello del razzismo e della separazione fra donne e fra lavoratori italiani e immigrati, ma deve affrontare di petto la questione dell’oppressione delle donne come viene agita qui, denunciando lo spregio per la donna insito nei modelli di vita proposti, la vera natura della presunta liberazione della donna occidentale, e l’uso che i vecchi e nuovi colonialismi fanno della condizione di subordinazione familiare e sociale cui sono sottoposte le donne nelle società arretrate. Dalla coscienza di questo legame e del fatto che sono l’una funzionale all’altra, e ambedue a vantaggio del mantenimento del sistema capitalistico dominante, deve venire la spinta alla creazione di un fronte comune di lotta contro ogni forma di patriarcalismo, che di questo sistema è pilastro fondamentale.
Di questo fronte comune sono chiamati a far parte integrante i proletari occidentali. Anch’essi hanno interesse a contrastare gli attacchi contro le donne immigrate, che soffocano sul nascere l’auto-attivazione delle nostre compagne immigrate, fanno arretrare e isolare le loro potenzialità di lotta e portano con sé l’arretramento e la sconfitta dell’intero movimento dei lavoratori.
Una solidarietà collettiva e militante, dunque, da parte delle donne e dei lavoratori autoctoni e immigrati, che nasce e porta al riconoscimento di una comune –anche se diversa- condizione di sfruttamento e quindi di una comune necessità di liberazione.
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA
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