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Le ragioni dell'aggressione israeliana del Libano

La gran parte di coloro che hanno partecipato alle manifestazioni no war degli anni scorsi riconduce la recente guerra in Libano ad uno scontro tra fanatismi: da un lato quello israeliano, coperto dagli Stati Uniti; dall’altro quello di Hamas, di Hezbollah, della guerriglia irachena e afghana e dello stato iraniano.

"Questa regione così vitale per gli approvvigionamenti energetici mondiali –si dice– è in mano a popoli e partiti fanatici, le cui diatribe rischiano di incendiare la regione e, forse, il mondo intero. Ci vuole un alt! Chi può mettere questo alt? Non certo gli Stati Uniti, anch’essi governati da una banda di fanatici. Rimane soltanto l’Europa, l’Europa dei Prodi-D’Alema, degli Chirac, della Merkel."

Non è affatto così. Ben altre sono state le ragioni della guerra in Libano. E a ben altre mani va affidata l’affermazione della "pace con giustizia", in Medioriente e nel mondo.

 

Se si guarda alla cronaca, così come essa viene confezionata dal totalitarismo dell’informazione democratica, effettivamente sembra che la guerra in Libano sia stata l’ennesima riprova degli opposti, pericolosi, estremismi che infiammano la regione. Da un lato, le azioni guerrigliere dei gruppi della resistenza palestinese e quella di Hezbollah. Dall’altra la reazione di Israele a Gaza e, poi, in Libano. Ma se vogliamo comprendere il senso di questa cronaca, dobbiamo innanzitutto andare a vedere i motivi delle azioni degli uni e dell’altro.

Oppressi e oppressori

L’azione militare compiuta il 25 giugno 2006 da un commando congiunto di militanti laici e islamisti palestinesi è stata una sacrosanta risposta ad un assedio che da mesi stava soffocando Gaza. L’assedio era stato avviato da Israele, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea con l’embargo imposto dopo la vittoria elettorale di Hamas del gennaio 2006. Come abbiamo scritto nel n. 66 del che fare, per Israele e per le potenze occidentali la colpa dei palestinesi era ed è quella di non aver voluto accettare il destino di apartheid e di espulsione strisciante a cui li avrebbe portati la politica della direzione dell’Anp e dell’Olp, la politica incarnata da Abu Mazen. Nel gennaio scorso la massa del popolo palestinese aveva espresso il rifiuto di questo destino anche con la vittoria elettorale riservata alla formazione politica, Hamas, che negli ultimi anni aveva cercato di far argine alla deriva della direzione dell’Olp (1).

Prendendo a pretesto l’azione palestinese del 25 giugno, Israele ha intensificato i suoi raids militari su Gaza ed è giunta a distruggerne la centrale elettrica con conseguenze terribili per la gestione degli impianti idrici e fognari della Striscia. Davanti alla rappresaglia di Israele e al rifiuto da parte di Tel Aviv dello scambio proposto dai gruppi palestinesi tra il militare catturato e alcuni detenuti palestinesi, scambio approvato da un vasto settore della gente ebrea di Israele, i palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionale. All’appello delle masse oppresse palestinesi hanno risposto soltanto gli Hezbollah libanesi. Con un’azione militare che il 12 luglio ha colpito le forze armate israeliane nel confine settentrionale d’Israele. A questo punto il governo e i vertici militari di Israele hanno dato il via all’aggressione al Libano, per punire chi aveva osato rompere l’isolamento dei palestinesi.

Polizia internazionale

Nessuna contesa tra opposti fanatismi, quindi. Da un lato, la coerente continuazione dello specifico colonialismo israeliano. Dall’altro lato, la lotta contro l’espropriazione e la miseria causate da questa politica, e la solidarietà con chi è protagonista di questa lotta. Ragioni materiali, ben solide. E non si venga a dire che Israele, pur esagerando, cerca tuttavia di far valere una giusta esigenza: quella di garantire la sicurezza per il popolo ebreo e di impedire un nuovo olocausto. Non lo si venga a dire, perché, al contrario, con la sua politica lo stato di Israele sta giorno dopo giorno concentrando rischi e lutti sulla propria popolazione, e come affermano fior di ebrei anti-sionisti, sta preparando la sua rovina.

Lo ha mostrato ancora una volta l’aggressione dell’estate scorsa contro la popolazione del Libano: quest’ultima è stata colpita non solo perché dal Libano si era tentato di spezzare il cerchio stretto dall’imperialismo attorno ai palestinesi, ma anche perché il Libano, come è accaduto altre volte in passato, stava diventando un territorio in cui gli sfruttati stavano organizzandosi unitariamente, al di là degli steccati religiosi, contro l’occupazione d’Israele e la politica liberista del governo di Fuad Sinora, e stavano fungendo da ponte di collegamento e di fraternizzazione tra l’Intifadah palestinese e la resistenza antimperialista in Iraq e in Afghanistan.

L’aggressione militare lanciata sul Libano da Israele in estate, come quelle degli anni settanta dirette contro le basi della resistenza palestinese, ha mirato a distruggere le basi militari e il consenso politico alla forza, Hezbollah, protagonista in Libano di questa embrionale convergenza tra le lotte e le iniziative antimperialiste dell’intera area. L’aggressione militare lanciata dal governo Olmert-Peretz serviva inoltre a canalizzare verso l’esterno il crescente malcontento sociale interno ad Israele, per i costi economici e soprattutto umani della politica espansionista di Israele nella regione.

Verso l’Iran, con l’occhio alla Cina

Questa operazione di polizia internazionale, che Israele ha svolto nell’interesse proprio, delle potenze imperialiste e delle stesse classi sfruttatrici arabe, è stata inoltre intrapresa in relazione con un piano a più ampio spettro di tutte le potenze capitalistiche occidentali avente come bersaglio l’Iran. Agli occhi delle potenze imperialiste il governo di Ahmadinejad è due volte colpevole: da lato, non accetta il pieno controllo occidentale delle risorse petrolifere del Medioriente e dell’Asia centrale; dall’altro lato, esso rischia, malgrado le sue intenzioni, di rinfocolare le aspettative delle masse lavoratrici iraniane con effetti esplosivi sulla lotta degli sfruttati dell’intera area.

I grandi poteri capitalistici mondiali hanno bisogno di stabilire il pieno controllo del mondo musulmano per preparare (con il tempo a ciò necessario) l’assedio alla Cina e alla sua classe lavoratrice. La manovra avvolgente attorno a questa preda, borghese e proletaria, richiede che la Cina venga privata dell’accesso alle risorse petrolifere di cui è assetato lo sviluppo capitalistico cinese e che Pechino sta cercando di garantirsi con accordi (a valenza non solo economica) con alcuni dei massimi produttori mondiali di petrolio e di gas, tra cui l’Iran e le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale. Riportare, con le buone o con le cattive, l’Iran sotto il pieno controllo occidentale è uno dei tasselli di questa politica. Il che richiede, a sua volta, il prosciugamento preventivo del sostegno popolare che la resistenza dell’Iran all’aggressione imperialista potrebbe ricevere nel resto del Medioriente con la saldatura delle resistenze in corso in Afghanistan, in Iran, in Palestina in una generale sollevazione sociale dell’intera area. Questo prosciugamento richiede oggi l’annichilimento del processo sociale e politico in atto in Libano.

Il nuovo oleodotto Baku-Batum-Ceyhan

Che l’aggressione israeliana in Libano vada collocata in questo scontro a scala mondiale, lo conferma una coincidenza passata sotto silenzio dai grandi organi di informazione. Il 13 luglio 2006 è stato inaugurato un nuovo oleodotto che va da Baku a Ceyhan, sul Mediterraneo in Turchia, e che permette di esportare il petrolio della regione caspica sul Mediterraneo senza attraversare i territori della Russia. L’oleodotto è stato costruito da un consorzio delle maggiori multinazionali occidentali, tra cui l’Eni, che vi partecipa con una quota del 5%. Ha la finalità di ridurre la centralità della Russia nella disponibilità di questa risorsa strategica per l’Occidente, di strapparla al "controllo" che la Cina vi sta acquisendo attraverso il Kazakhstan, di usarla per far tornare a far scendere il prezzo del petrolio arrivato agli inizi dell’estate a un livello inaccettabile per gli interessi imperialisti. L’oleodotto ha anche un’altra funzione strategica: dovrebbe permettere di rifornire l’India e il Giappone attraverso Israele e il mar Rosso in caso di scontro militare con l’Iran e di blocco del golfo Persico.

Il pieno utilizzo di questa nuova arteria è legato, però, al pieno controllo sociale e politico del territorio che esso attraversa e di quello circostante. E quindi anche del Libano e della Siria. L’aggressione d’Israele si è proposta di rispondere a questa preoccupazione delle grandi potenze capitalistiche. E ha cercato, con la demolizione del tessuto infrastrutturale libanese, di preparare il terreno per permettere ad Israele di assumere il ruolo di player globale nella raffinazione e nella riesportazione verso l’Asia degli idrocarburi arrivati a Ceyhan (e condotti in Israele con un nuovo oleodotto Ceyhan-Ashkelon in corso di definizione), anche in sostituzione della pericolante Arabia Saudita. Sarà una coincidenza, ma a partire dalla metà di luglio, dall’inizio dell’attacco israeliano e dalla parallela inaugurazione dell’oleodotto, il prezzo del petrolio ha cominciato a scendere e a settembre era diminuito del 25% circa…

Un altro fronte della "guerra infinita"

La guerra in Libano non è stata, quindi, e non è (poiché non è certo finita) una guerra locale o di stampo religioso, ma l’apertura di un altro fronte della "guerra infinita" contro il mondo musulmano e il Sud del mondo. Ciò non è contraddetto dall’intervento che le grandi potenze hanno ad un certo punto attivato, per fermare le operazioni militari di Israele. Il fatto è che l’azzardo di Israele non è riuscito ad ottenere gli effetti sperati. Non è riuscito per la ben organizzata resistenza di Hezbollah e delle masse lavoratrici del Libano. E davanti alle difficoltà militari israeliane e ai riflessi che esse cominciavano ad avere nell’opinione pubblica interna e nelle stesse truppe dell’IDF, l’Italia e la Francia hanno assunto un’iniziativa autonoma. Hanno preso la palla al balzo della difficoltà in cui si erano cacciati Israele e gli Usa per reinserirsi nelle manovre in corso nella regione. Non tanto, e semplicisticamente, per dare una mano a Israele e agli Usa. Quanto per dare una mano a se stesse, ai propri interessi di rapina e di dominio sulle risorse e sulla manodopera dell’area. Ecco perché non può esserci alcuna convergenza di interessi tra questi governi e i lavoratori dell’Italia, della Francia e dell’Europa.

(1) Si veda al proposito il libro di Khaled Hroub (direttore dell’Arab Media Project presso la Cambridge University e giornalista di Al Jazeera) recentemente tradotto in italiano con il titolo Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina, Bruno Mondadori, Milano, 2006.


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