Sulla storia dell’Afl-Cio

L’organizzazione sindacale che si è spaccata l’estate scorsa era stata fondata nel 1955. Essa rappresentò il punto di arrivo di un lungo percorso di organizzazione sindacale dei proletari degli Stati Uniti. Ripercorrerlo, sia pur per sommi capi, è essenziale per comprendere il senso della recente scissione e le prospettive che essa apre per la lotta di classe negli Stati Uniti.

Questo percorso cominciò dopo la guerra di secessione, sulla base dell’eredità lasciata dalle embrionali esperienze dei primi decenni del XIX secolo, dal ruolo di primo piano svolto dalla classe operaia (bianca e afro-americana) nella guerra stessa e dai collegamenti stabiliti con le organizzazioni proletarie europee aderenti alla Prima Internazionale. Esso cominciò con il grande sciopero dei ferrovieri del 1877 contro la drastica riduzione dei salari imposta dal Big Business e con la lotta inter-categoriale per la conquista delle otto ore culminata nello sciopero generale del maggio 1886. I lavoratori furono battuti in entrambi i casi. I due movimenti di lotta (a cui parteciparono anche i lavoratori non organizzati e immigrati di fresca data) ebbero però una funzione positiva nella maturazione del movimento operaio degli Stati Uniti. Espressero il tentativo proletario di spezzare l’arma che sin da allora le imprese capitalistiche, soprattutto i monopoli in formazione, cercavano di brandire per imporre i loro salari e le loro condizioni di lavoro: la disponibilità di un esercito di lavoratori diviso, innanzitutto tra bianchi e afro-americani, e mantenuto diviso dalla concorrenza esercitata dal continuo afflusso di immigrati dall’Europa. I lavoratori in lotta non realizzarono il loro obiettivo per l’azione combinata della repressione (dello stato e delle milizie assoldate direttamente dalle imprese) e per le prospettive di affermazione sociale aperte dalla conquista del West.

L’Afl di Gompers

A sancire questo sbocco di quella prima, ruggente fase dello scontro di classe negli Stati Uniti, fu la fondazione di un sindacato basato sulle associazioni di mestiere, indipendenti l’una dall’altra, escludenti la massa dei lavoratori non qualificati in continua crescita: l’Afl di Gompers. A differenza delle organizzazioni immediate che avevano retto le lotte precedenti (le quali attinsero linfa vitale nella presenza al loro interno di membri di organizzazioni politiche animate da una visione classista dello scontro tra capitale e lavoro), l’Afl si dichiarò apolitica per -disse Gompers- non distrarre i lavoratori dalla difesa dei loro interessi con inconcludenti dispute sui massimi sistemi. In realtà per portare avanti un sindacalismo corporativo che ebbe come unica preoccupazione quella di tutelare i salari dell’operaio qualificato con il mantenimento di un numero controllato di addetti ad un dato mestiere.

In un periodo in cui la produzione capitalistica aveva ancora il suo perno sull’abilità artigianale degli operai, questa politica sindacale permise agli operai skilled di strappare salari vantaggiosi e un certo controllo sul processo produttivo (orario di funzionamento degli impianti, ritmi di lavoro, numero di apprendisti da assumere e obbligo di scelta di questi ultimi nell’ambito della union, ripartizione del salario se il lavoro era retribuito attraverso il cottimo a squadra). Su questa base, negli ultimi decenni del XIX secolo, si sviluppò un forte movimento di sindacalizzazione. Si passò da 450mila operai organizzati nel 1897 a oltre due milioni nel 1904.

Lavoratori qualificati e lavoratori non qualificati

Non ci volle molto, però, perché emergesse il carattere suicida del gomperismo per gli stessi lavoratori specializzati. Dall’Afl era, infatti, escluso l’80% dei lavoratori manuali del paese, la massa crescente e disorganizzata dei proletari unskilled, composta da immigrati provenienti dall’Europa meridionale e dalle donne da poco entrate nel mercato del lavoro, divisi a causa dell’eterogeneità nazionale e sessuale e del pressante controllo poliziesco. Sulla base di un serrato processo di accentramento delle imprese in trust e monopoli, il padronato (in testa i baroni dell’acciaio) introdusse nelle fabbriche una serie di innovazioni tecnologiche che riuscirono a scomporre l’attività lavorativa in operazioni manuali semplici per le quali potevano essere assunti anche gli operai unskilled ultra-ricattati. Questa trasformazione del processo produttivo, unita alla forza acquisita dal capitale mediante il suo accentramento, permise alle direzioni aziendali di porre i lavoratori qualificati davanti ad un aut-aut: o l’accettazione della nuova disciplina del lavoro oppure il licenziamento.

L’offensiva padronale sviluppò nella massa del proletariato una duplice spinta. Da un lato, quella dei lavoratori non qualificati per conquistare una condizione di lavoro meno precaria e meno dura. Dall’altro, quella dei lavoratori qualificati per arginare il drastico peggioramento delle loro condizioni di esistenza. Esse confluirono nel tentativo di passare ad un’organizzazione sindacale basata non più sul mestiere ma su un intero settore industriale, nella quale fossero ammessi insieme sia operai skilled che unskilled allo scopo di impedire che i padroni potessero usare questi ultimi come crumiri per far fallire gli scioperi. Lo scontro di classe che ne risultò, andò avanti per mezzo secolo, fino al 1955, attraverso quattro ondate: quella che si espresse attraverso l’esperienza degli Iww dal 1905 alla prima guerra mondiale, quella successiva alla prima guerra mondiale e interna al movimento proletario internazionale degli anni venti, quella suscitata dalla disoccupazione di massa prodotta dalla Grande Depressione negli anni trenta, quella che si sviluppò nel corso e subito dopo la seconda guerra mondiale.

Lo sboccosocial-imperialista

Nel corso delle prime tre ondate, il moto spontaneo della base fu fecondato (e fecondò) dalla presenza di un nucleo proletario rivoluzionario che faceva leva sulle lotte immediate dei lavoratori, sull’estensione della loro organizzazione di massa, sul superamento, nello scontro con il Big Business, delle divisioni razziali, nazionali e sessuali esistenti tra i lavoratori per sviluppare un movimento di classe in grado di recidere alla radice lo sfruttamento operaio con la rivoluzione anti-capitalistica. Al contrario di quanto sosteneva Gompers, la politicizzazione (rivoluzionaria) giovò eccome alle lotte immediate! Questi tentativi, che videro i loro protagonisti nei tanto disprezzati lavoratori immigrati, analfabeti e spesso incapaci di comprendere l’inglese, e nelle tanto disprezzate donne appena entrate nelle fabbriche, abortirono o furono sconfitti per un concorso di cause: l’ascesa del capitalismo statunitense alla testa del capitalismo mondiale e la possibilità per esso di distribuire qualche briciola del banchetto imperialista ad una frazione crescente, pur se sempre in modo selettivo, della classe operaia (1); la sconfitta dell’assalto al cielo comunista degli anni venti; l’intervento –su un terreno così arato– di una capillare e preventiva repressione statale delle tendenze rivoluzionarie; lo sviluppo all’interno del movimento proletario di una politica sindacale che inalberò, opportunamente aggiornato, quell’apoliticismo di Gompers, che nel XX secolo volle dire l’accodamento elettoralistico alla politica del partito repubblicano o di quello democratico, il sostegno della politica mondiale dell’imperialismo Usa e la frantumazione della contrattazione sindacale entro il recinto delle singole aziende.

In questa sua operazione, il riformismo social-imperialista non fece leva solo sulla forza proveniente dalle risorse materiali maneggiate dal capitale e dall’apparato statale Usa ma anche sulla cronica debolezza dell’ala rivoluzionaria del movimento proletario degli Stati Uniti, cioè sulla sua difficoltà a farsi carico con un’iniziativa adeguata di due cruciali problemi posti dallo scontro di classe nelle metropoli capitalistica: come ricomporre l’unità multinazionale delle fila proletarie continuamente scomposta dall’afflusso degli immigrati, dalla presenza della divisione tra bianchi e afro-americani, dalla repressione e dall’introduzione dell’organizzazione del lavoro tayloristica? come tener testa alla simbiosi tra i monopoli capitalistici e l’apparato statale diretto da Washington senza congiungere l’azione sindacale con un’adeguata azione politica?

Questa difficoltà pesò sull’esperienza degli Iww del 1905-1914 (2), su quella comunista avviata nel primo dopoguerra, come anche su quella del raggruppamento trotskista presente nella tornata di lotte degli anni trenta, quando, nella mobilitazione proletaria contro la disoccupazione e i tagli salariali prodotti dalla Grande Depressione, si arrivò alla fondazione, per scissione dall’Afl, di un sindacato, il Cio, basato sull’organizzazione per settore industriale (3). In tutte e tre i frangenti, il capitalismo statunitense riuscì ad evitare quell’incrudimento dello scontro di classe che avrebbe potuto favorire la maturazione in senso comunista internazionalista dell’avanguardia proletaria negli Stati Uniti. Vi riuscì, prima, con la prosperità alimentata dalla prima guerra mondiale e dai ruggenti anni venti e dall’assorbimento, da essa permesso, degli operai unskilled nella produzione di massa fordista in via di consolidamento nell’apparato produttivo del paese. Vi riuscì, dopo le lotte di massa e l’occupazione delle fabbriche degli anni trenta, con la prosperità alimentata dalla seconda guerra mondiale e la totalitaria conquista del dominio sul capitalismo mondiale.

L’unificazione tra Afl e Cio

La seconda guerra mondiale rappresentò il turning point, con l’incorporazione nel National War Labor Board –oltre che dell’Afl– anche della Cio e del partito comunista stalinista (4), con le contropartite salariali che le imprese statunitensi, cocainizzate dai profitti della guerra, poterono concedere. Gli scioperi del 1941, del 1943, del 1945 e del 1946 furono tutti interni a questa dinamica di corporativizzazione e passivizzazione politica del proletariato organizzato. Il completamento di essa richiese, comunque, una nuova stretta repressiva, con il varo della legge Taft-Hartley e la campagna maccartista per la liquidazione dei militanti comunisti presenti nel movimento sindacale e degli stessi quadri del partito comunista, gettato via -come al solito- dopo aver svolto il ruolo di portaborracce dell’imperialismo. La fusione tra l’Afl e la Cio sancì questo approdo del movimento operaio statunitense. È vero che essa fece del sindacato industriale la base organizzativa della centrale unificata, ma per quale battaglia sindacale? per quale prospettiva?

Mentre negli statuti dell’Afl e del Cio si riconosceva ancora che la lotta si svolge tra capitalisti e salariati e che si puntava, in un indefinito futuro, ad un mondo di uomini liberi, nella centrale sindacale unificata si parlava solo di perseguire miglioramenti nella condizioni d’esistenza dei lavoratori "nel quadro del nostro sistema costituzionale e conformemente alle nostre istituzioni e tradizioni". Il presidente confederale, G. Meany, disse: "A parlare franco, noi altri sindacalisti statunitensi amiamo il sistema capitalistico. Intendiamo naturalmente preservarlo nei nostri sforzi diretti a migliorare il livello di vita dei lavoratori migliorando il sistema stesso; non intendiamo affatto abbandonarlo per qualche chimera o fantasia ideologica".

Dopo di allora, le lotte di fabbrica non scomparvero. Assunsero la forma di una conflittualità anche dura ma minuta, aziendalistica, incapace di integrare la spinta antagonista proveniente dallo sviluppo del movimento degli afro-americani durante gli anni sessanta...

Finché con l’era reaganiana il capitale ha rotto il patto sociale stretto con il "suo" proletariato, rimettendo in gioco tutti i problemi che i baroni capitalisti degli inizi del XX secolo avevano gettato in faccia agli operai skilled di allora. Questa volta, però, dietro l’angolo del capitalismo statunitense non c’è la conquista del mondo, dopo aver appena compiuto quella del Far West.

Note

(1) Dopo i successi mietuti nelle lotte promosse e dirette tra i tessili e i chimici nel 1912-1913, gli IWW concentrarono i loro sforzi sulle officine Ford, inondandole di volantini in più lingue e "cingendole di assedio" con i comizi. Quando, nel 1914, corse voce che i wooblies preparavano uno sciopero alla Ford, il capitano d’industria Henry Ford, futuro ammiratore di Hitler, sentendosi minacciato, inaugurò la sua famosa politica degli "altri salari".

(2) Nel 1904, un gruppo di sostenitori dell’unionismo industriale lanciò un appello per una riunione da tenersi nel gennaio del 1905 al fine di "discutere modi e mezzi per unire gli operai americani su corretti principi rivoluzionari". La novità di questa posizione consisteva nel fatto che essa non mirava a trovare una "sistemazione" del proletariato nel quadro sociale esistente: la classe operaia –si sottolineava nell’appello– è in grado "di prender possesso e mandare avanti per i propri interessi le industrie del paese". Nel manifesto si affermava inoltre che il capitalismo stesso ha eliminato le divisioni fra mestieri, ridotto i lavoratori allo stesso livello e che laddove sussistono divisioni ciò avviene solo nell’interesse della direzione aziendale per il controllo sindacale e politico dei dipendenti. Da qui si ricavava la conclusione che la difesa degli interessi immediati dei proletari può essere realizzata solo sulla base del riconoscimento dell’esistenza di un inconciliabile antagonismo tra la classe capitalistica e la classe operaia. Alla convenzione del gennaio 1905 parteciparono rappresentanti di otto organizzazioni. Da qui prese l’avvio il processo che diede vita a Chicago nel giugno del 1905 agli Industrial Workers of the World (Iww, detti anche wobblies –dal verbo to wobble = "vagabondare"– perché viaggiavano di stato in stato per svolgere il lavoro di propaganda). Il nome stesso della nuova organizzazione (Lavoratori Industriali del Mondo) indicava che la sua finalità era quella di indicare alla classe operaia i suoi interessi generali, comuni al proletariato di tutto il mondo. Il carattere embrionalmente internazionalista degli Iww trovò conferma nella risoluzione in favore delle forze che si trovavano proprio in quel periodo (1905-1906) impegnate nella lotta rivoluzionaria in Russia, nella condanna del militarismo e dello sciovinismo del proprio apparato statale, nella decisione di prendere contatti con le altre organizzazioni operaie che in tutto il mondo agivano sul piano del riconoscimento della lotta di classe.

(3) Alla metà degli anni trenta, l’ala più "radicale" dell’Afl, guidata da John L. Lewis (presidente della United Mine Workers of America) e appoggiata dai lavoratori dei settori sindacalmente più forti (i metalmeccanici e i tessili), chiese una politica rivendicativa più aggressiva all’interno delle fabbriche (nel frattempo ristrutturate secondo i modelli della produzione di massa) e il rafforzamento della trasformazione del sindacalismo Usa nei termini dell’unionismo industriale. Nel novembre 1935, si costituì il Committee for Industrial Organization (Cio, Comitato per l’Organizzazione Industriale), che si prefiggeva di agire in tal senso all’interno dell’Afl. A causa del loro rifiuto a sciogliersi, intimato dal comitato esecutivo dell’Afl, i "ribelli" furono prima sospesi e quindi, nel 1937, espulsi. Nel 1938 il Committee for Industrial Organization si costituì come associazione indipendente, adottò un nuovo statuto e assunse il nome di Congress of Industrial Organizations (Congresso delle Organizzazioni Industriali).

(4) Durante la seconda guerra mondiale, il partito comunista statunitense, più realista del re, arrivò a boicottare gli scioperi con cui i lavoratori cercarono di sfruttare la piena occupazione e le esigenze belliche di Washington per rivendicare consistenti aumenti salariali.