La resistenza irachena e "noi", così poco… resistenti

Siamo stati tra i pochi a preconizzare subito che il popolo iracheno avrebbe opposto all’occupazione occidentale del proprio paese un’accanita resistenza; così è stato ed è. Non son bastati i bombardamenti terroristici, né il fosforo bianco usati dai "volonterosi carnefici" di Washington e di Londra. Non son bastati duecentomila soldati e vigilantes (inclusi quelli inviati da Roma) armati fino ai denti e muniti di ogni gingillo elettronico di ultima generazione, né le varie Abu Graib per mettere in ginocchio questa gente fiera della propria storia, di un’indipendenza conquistata per mezzo di una durissima lotta anti-coloniale. Semmai, ad essere con le gambe piegate per gli uppercut ricevuti sono, dopo due anni di battaglie inattese, le truppe degli occupanti, come emerge da molteplici segnali ormai di pubblico dominio.

Noi, tuttavia, non ci siamo mai nascoste le debolezze organiche di questa resistenza che sono due, e strettamente intrecciate tra loro: il non mettere al centro della propria azione la organizzazione delle masse sfruttate dell’Iraq indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o "etnica"; l’assenza di una strategia internazionale di lotta capace di contrapporsi in modo adeguato alla coalizione imperialista internazionale con cui sta scontrandosi. Debolezze che risaltano maggiormente in presenza di un’ampia disillusione in quella parte delle masse lavoratrici irachene (sciite e curde) che avevano inizialmente nutrito più di qualche speranza circa le possibili ricadute positive dell’aggressione statunitense "a Saddam" e in presenza di forti difficoltà interne di Washington e Londra.

Sebbene mantenga una rilevante capacità militare, da qualche mese la resistenza irachena è in una certa difficoltà politica in quanto il progetto imperialista di disgregazione dell’Iraq per vie confessionali ed "etniche" ha fatto dei passi in avanti. Li ha fatti anzitutto attraverso il referendum di ottobre: è vero che anche a voler prendere per buoni i dati ufficiali (votanti il 63% degli elettori, favorevoli il 78%), dati di cui non si può che dubitare, meno della metà degli iracheni si è dichiarato a favore della nuova costituzione scritta dall’amministrazione Bush e finalizzata a balcanizzare l’Iraq. È altrettanto vero, però, che in questa occasione la componente "sciita" di massa più avversa all’occupazione, quella che fa capo a Muqtada Al Sadr, si è non poco riavvicinata, almeno nella sua maggioranza, al "governo"-fantoccio di Baghdad. E questa ri-dislocazione favorisce la sciaguratissima tendenza della formazione di al Zarqawi (se i documenti pubblicati da G. Kepel in Al-Qaida dans le texte, Puf, 2005, sono autentici) a prendere a bersaglio della resistenza gli "eretici" sciiti in quanto tali, con il risultato, molto gradito agli occupanti, che il solco tra le diverse componenti della nazione irachena che nella scorsa primavera si era ridotto al suo minimo con la solidarietà generale per Falluja, si è di nuovo allargato.

In non minori difficoltà la resistenza irachena si trova sul versante internazionale. C’è infatti un grande scarto tra la risonanza e la simpatia di cui la resistenza irachena gode nel mondo ben al di là della stessa area islamica, e l’effettivo aiuto, l’effettiva solidarietà politica che essa riceve. Spesso si fa riferimento nei suoi documenti al Vietnam, ma rispetto alla lotta del popolo vietnamita quella del popolo iracheno dovrà sormontare impedimenti ancora maggiori per quanto è stretta intorno al suo collo la morsa delle cancellerie occidentali coalizzate. E di sicuro non potrà sormontarli chiudendosi nel ridotto iracheno alla ricerca di una vittoria conseguita con le proprie sole forze (come pare incline a fare la componente baathista), ma neppure affidandosi, come sembra voler fare in altre sue tendenze, all’aiuto degli stati, ossia delle borghesie, arabi od "islamici" quali Siria o Iran, perché questi, nonostante siano nella lista nera degli "stati canaglia", non sono indisponibili a scambiare con gli imperialisti un po’ di ossigeno per sé con la svendita delle ragioni nazionali degli iracheni o, almeno, con l’impegno a moderarne la lotta (alla recente "svolta" di Al Sadr, ad esempio, sono stati tutt’altro che estranei i chierici di Teheran e di Qom). Peggio ancora è illudersi circa i "buoni uffici" di un’Europa famelica quanto gli Stati Uniti, sebbene più debole di essi militarmente. Ed anche la fondamentale proiezione di certi settori jihadisti della resistenza verso l’intera umma dell’Islam può essere fruttuosa solo a condizione che si chiami alla lotta in prima persona il cuore produttivo e sfruttato di essa, battendo fino in fondo una mentalità sostitutivista e paternalistica verso le masse lavoratrici "islamiche" che ne tarpa le potenzialità di lotta chiamandole al più (è il caso, ci sembra, di al-Zawahiri) a "comprendere" la lotta delle avanguardie combattenti e "parteciparvi" come semplice base di appoggio e di reclutamento.

Sappiamo di fare queste considerazioni lontani fisicamente dal fronte dello scontro - quale scontro!, il che può sembrare ingeneroso nei confronti di quanti mettono in gioco la propria vita per questa lotta. Ma lo facciamo con profondo rispetto e incondizionata solidarietà nei confronti di questa lotta. Lo facciamo perché non la consideriamo una lotta "altrui" per una causa "altrui", ma una lotta nostra per una causa altrettanto nostra: la sconfitta dell’imperialismo yankee, lo svergognamento e la sconfitta del governo e dello stato italiani. Lo facciamo perché la liberazione nazionale e sociale delle masse sfruttate dell’Iraq, della Palestina, del Medio Oriente dalla oppressione imperialistica "esterna" e dalle classi sfruttatrici locali passa per la loro unificazione non solo ideale, ma anche reale, organizzativa e politica, per l’unione internazionale dei proletari e degli sfruttati del Sud e del Nord del mondo.

Ed è proprio qui, in Europa e in Italia, che la resistenza irachena presenta il suo versante più debole. Dai settori più avvertiti della resistenza sono partiti ripetuti appelli ai "popoli dell’Occidente" perché facciano sentire la propria voce contro la guerra, ma sta di fatto –limitiamoci all’Italia- che più la guerra si protrae, più crescono sul terreno militare le difficoltà degli aggressori (tra i quali il governo Berlusconi), più si infittiscono le loro trame per sancire la divisione "etnico"-religiosa dell’Iraq e per screditare e isolare la resistenza, meno il movimento no war è presente in campo. Si sono fatti dei passi all’indietro anche rispetto alla mobilitazione del 19 marzo, non solo e non tanto per la divisione in tre tronconi del movimento, bensì perché è il più istituzionale (nei suoi vertici e nei suoi indirizzi) di questi tronconi (quello che il 19 marzo confluì nell’iniziativa di Bruxelles) ad influenzare e, per certi versi, a paralizzare gli altri due.

Ipercritici che guardano le cose dall’esterno del movimento? Affatto. Dalle nostre distinte posizioni, abbiamo appoggiato pienamente lo sforzo del Campo Antimperialista di organizzare un’iniziativa di sostegno alla resistenza irachena e abbiamo solidarizzato senza riserve con esso contro i divieti e la repressione del governo. Abbiamo preso parte attiva al dibattito tra le forze organizzatrici del Comitato 19 marzo. Abbiamo, a differenza di altri "anti-settari", svolto la nostra azione di propaganda con impegno e senza alcun settarismo verso i giovani e meno giovani cattolici della Perugia-Assisi. Ma, se ci è permesso, siamo e intendiamo restare noi stessi, internazionalisti veri a tutti gli effetti. Per questo non possiamo fare a meno di osservare, quanto alla resistenza irachena, che nei diversi spezzoni del movimento no war: o non se ne vuol sentir parlare (con qualcuno che non esita a definirla tout-court terrorista); o le si riconosce una notarile legittimità, ma senza appoggio, e tanto più senza appoggio incondizionato – legittimità, un bel concetto non c’è che dire, teso a marcare le distanze tra "noi" e "loro", e ad escludere la sola prospettiva realmente liberatrice, la lotta comune tra noi e loro contro il comune nemico imperialista; oppure le si dà il proprio appoggio in chiave anti-imperialista, però questo anti-imperialismo coincide con il puro e semplice anti-americanismo. In tutti e tre i casi, con le debite differenze si capisce, non si vede che il nostro primo nemico è comunque in casa nostra, e si arriva fin quasi a rimproverare all’Italia e all’Europa di non essere "anti-imperialiste", invece che inchiodarle ai loro interessi ed alle loro politiche integralmente imperialisti. E non si vede, o non si vede fino in fondo, che la resistenza irachena va appoggiata senza condizioni da parte del movimento proletario dell’Occidente perché dalla sua vittoria e dalla sconfitta degli stati aggressori esso ha tutto da guadagnare e nulla da perdere, e perché è solo un simile appoggio che potrà aiutare le masse sfruttate irachene ad uscire dalla tutela di altre classi e la resistenza a superare i limiti che oggi l’affliggono. E tanto meno si vede che sarà impossibile contrapporsi alla canea anti-irachena e anti-islamica che qui esploderebbe nel caso di attentati in Italia, se non si è spiegato per tempo che se la guerra arriverà anche qui è solo ed esclusivamente in conseguenza del fatto che il nostro governo la sta conducendo "lì".

Come piccolo nucleo comunista interno al "movimento", ci permettiamo di ripetere qui ciò che abbiamo già detto in tutte le sedi: urge rilanciare l’iniziativa di massa contro la guerra all’Iraq e iniziare la denuncia contro la guerra in preparazione all’Iran. Non facciamoci paralizzare dall’attesa di un nuovo governo "amico" o dalle manovre verticistiche di chi vorrebbe spostare a sinistra la politica estera di Prodi. Non limitiamoci a parlare al milieu di quelli che già "sanno" (dio solo sa cosa). In questa battaglia urge rivolgersi con metodicità verso i lavoratori rimasti finora in larga misura estranei alla "questione guerra", con dei ragionamenti che spieghino dove sta il loro interesse in questi scontri bellici, e perché non è il caso che continuino a tenersene fuori. E su questa base, rivolgiamo la più speciale delle attenzioni ai lavoratori immigrati perché rappresentano un fondamentale anello di congiunzione con la resistenza dei popoli arabo-islamici e dei popoli del Sud del mondo aggrediti senza posa dall’Occidente.

 

Commento ad una foto pubblicata sul giornale

A destra, militari italiani addestrano le forze di polizia del regime quisling installato a Baghdad. Qui sì che c’è un intervento umanitario, mica i "nostri militari" si comportano da occupanti, mica bombardano con il fosforo... I "nostri" si limitano a guidare i missili Usa sui bersagli "scelti" (lo hanno fatto i nostri "progressisti" servizi segreti nella primavera del 2003), a sparare con le "solite" mitragliatrici contro le manifestazioni anti-occupazione (come accaduto nella battaglia dei ponti di Nassiryia nella primavera del 2004), ad ammazzarvi centinaia di manifestanti (su questo non una parola della nostra libera stampa), ad addestrare truppe di ascari a cui riservare i lavori più sporchi... Eh sì, tutto un altro intervento!