Lettere: dalle mobilitazioni studentesche contro le leggi Moratti
Siamo franchi: le iniziative studentesche degli ultimi anni, sia quelle delle superiori che le assai più rare delle università, sono passate senza lasciare alcuna traccia significativa. In esse veniva a galla uno scontento diffuso per la progressiva subordinazione della scuola all’aziendalismo, per la crescente incertezza delle prospettive per diplomati e (anche) laureati e per la desolante povertà della formazione ricevuta. Ma questo vago scontento non è riuscito finora a tramutarsi in qualcosa di solido, in una critica radicale, e tanto meno di classe, dell’istituzione scolastica e universitaria. Il suo riassorbimento da parte dell’area ulivista e "disobbediente" è stato abbastanza naturale.
Nelle più recenti agitazioni (anche universitarie) si è sentita finalmente qualche voce più tonica, sono state prese delle iniziative (a Roma, a Venezia ed in altre sedi) volte a riconnettere la protesta anti-Moratti nella scuola alle necessità e alle lotte della classe lavoratrice. E proprio dall’interno di una di queste "situazioni" ci è giunto, all’indomani della manifestazione del 25 ottobre a Roma, l’intervento di una compagna che volentieri pubblichiamo.
"La nostra lotta non può rimanere confinatanelle scuole e nelle università..."
Senza unirmi al trionfalismo sulle mobilitazioni nelle scuole ed università italiane, penso che tali iniziative possano costituire un passo per la ripresa di una lotta che vada oltre i suoi confini attuali. Questo potrà avvenire solo individuando ciò che sta alla base non solo delle riforme ma dell’intero sistema dell’istruzione, e quindi gli obiettivi e le alleanze necessari per opporvisi. Altrimenti ogni spinta anche genuina di lotta è destinata a impaludarsi in strade senza uscita, che dall’esaltazione dell’azione diretta portano all’urna elettorale, malgrado (o forse proprio secondo) gli obiettivi di una certa retorica movimentista.
Il 25 ottobre gli studenti medi e gli universitari hanno manifestato insieme contro gli attacchi unitari a scuola ed università, che le rendono ancora più classiste, selettive e funzionali alle esigenze delle imprese e dello stato. Alle superiori viene ripristinato il doppio canale tra licei e scuole professionali, personalizzati i percorsi formativi e, con l’alternanza scuola-lavoro, viene fornita alle imprese forza lavoro giovanile da spremere. Il portfolio, una specie di schedatura degli studenti dai tre anni fino al termine degli studi, è un segno evidente del progetto di piegare il sistema dell’istruzione alle crescenti esigenze di controllo e repressione. All’università viene istituzionalizzata ed estesa la precarietà nel lavoro di formazione e ricerca, abolito il tempo pieno dei docenti e ne viene permessa la nomina da parte di enti esterni, incrementando così il potere diretto delle imprese private su ricerca e didattica.
Queste riforme sono parte di un attacco più ampio portato avanti dal governo. Questo viene percepito da molti, ma pochi individuano gli interessi che il governo rappresenta. Si continuano a sentire condanne del governo Berlusconi come "illegittimo e irresponsabile", e appelli per un cambiamento al centro sinistra. Lungi dall’essere irresponsabile, questo governo è invece estremamente responsabile di fronte al suo reale referente: al sistema capitalistico e alle sue mutevoli esigenze, a cui il sistema dell’istruzione è da sempre funzionale. Ed è per questo che, nonostante le lamentele di tanti in Rifondazione (ma quanto dureranno?), l’Unione dichiara il suo accordo con i principi delle leggi di riforma e i Ds vanno oltre, proponendo misure di "autonomia" e privatizzazioni ancora più radicali, perché "un’Università senza spinta non dà spinta al Paese".
Non c’è niente di cui stupirsi, ci dovremmo anzi sorprendere del contrario, visto che è stato proprio il centro sinistra a farsi promotore della politica di smantellamento dell’istruzione pubblica, portata avanti insieme agli attacchi ai diritti dei lavoratori (italiani ed immigrati) e alla partecipazione alle guerre dell’Occidente come contro la Jugoslavia.
Cosa vogliono gli industriali
È in atto un processo organico ed internazionale di riforma che adegua strutture, contenuti e metodi del sistema dell’istruzione alle nuove esigenze dell’economia capitalistica, per aumentarne la competitività "pacifica" o militare. Questo si legge in sostanza anche nei rapporti della Tavola Rotonda Europea degli industriali. Gli industriali lamentano la burocrazia ed impermeabilità delle scuole pubbliche, la debole influenza degli industriali sui programmi impartiti, l’incomprensione da parte degli insegnanti "degli affari e della nozione di profitto" [Ert, 1989]. Gli industriali devono entrare nel sistema dell’istruzione per formare lavoratori "autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide" [Ert, 1995].
Le varie riforme dell’università italiana rispondono a queste esigenze. La legge sull’ "autonomia", o meglio, "sulla dipendenza", del ‘90 ha portato ad un connubio più stretto tra università imprese ed enti statali, trasformando gli atenei in aziende in competizione per trovare finanziamenti e sopperire a quelli statali in costante diminuzione. La riforma Zecchino-Berlinguer (con la riorganizzazione della didattica, la frammentazione del percorso formativo, il sistema dei crediti e gli stages) ha integrato l’università nel sistema del lavoro precarizzato.
L’adozione del sistema dei crediti non è solo un’operazione linguistica, espressione di una visione "bancaria" e gerarchica dell’insegnamento, "ma costituisce l’accettazione del principio della riutilizzabilità di tutti gli investimenti formativi innanzitutto nell’ambito del sistema universitario, ma anche, nelle prospettive indicate dal ‘patto per il lavoro’ del settembre 1996, nel quadro della costruzione di un sistema integrato di certificazione delle competenze professionali che riguarda sia l’università, sia gli altri settori del sistema formativo, sia lo stesso mercato del lavoro" (Bozza Martinotti). Il Patto del Lavoro del ‘96 (che ha dato il via libera al pacchetto Treu) affiancava agli attacchi ai diritti dei lavoratori il progetto di un sistema di formazione adattabile alle trasformazioni del mercato, in cui gli individui vi abbiano "accesso continuo per tutto l’arco della vita". La "formazione permanente" è per la Commissione Europea "la più importante delle sfide con cui tutti gli stati membri si confrontano" [Cce, 2001]: Bisogna "responsabilizzare" il lavoratore e individualizzare il suo rapporto con la formazione. Ovvero: non è più lo stato, ma sono i lavoratori a dover far fronte alle spese per la formazione, e, per non cadere in "obsolescenza" insieme ai crediti accumulati, a dover passare dallo sfruttamento nei luoghi di lavoro a quello del mercato dell’insegnamento, e viceversa.
Selezione di classe e precarietà
Nei paesi occidentali l’istruzione "di massa" è stata superata sul piano della qualità e dei finanziamenti, frammentando e stratificando i percorsi formativi, aumentando le tasse e i numeri chiusi, demolendo il "diritto allo studio". Gli studenti di estrazione sociale più bassa si iscrivono agli istituti professionali o abbandonano gli studi. La durata minima degli studi universitari è scesa ai tre anni della laurea di primo livello, mentre la parte determinante viene dopo, con le costose specializzazioni e master a numero chiuso che garantiscono un accesso privilegiato nel mondo del lavoro.
Questa stratificazione nei percorsi formativi, analoga e funzionale a quella del mondo del lavoro, non introduce però niente di nuovo, ma rimarca ed incrementa le disuguaglianze sociali a monte. Il diritto allo studio uguale per tutti, proclamato dai fedeli laici democratici, è un mito facilmente smentibile. Sono sempre state le condizioni economiche e sociali, e non presunte qualità e meriti innati, a determinare sia la possibilità di studiare che il tipo di inserimento nel mondo lavorativo.
La legge Moratti sulla ricerca istituzionalizza ed aumenta il precariato all’interno della struttura accademica, inserendosi in un processo consolidato dai governi precedenti e su scala internazionale. A partire dagli anni ’70, con l’allargamento degli accessi studenteschi, sono entrate all’università figure precarie a svolgere attività di ricerca e didattiche. Se prima la carriera accademica era intrapresa da un ristretto numero di persone di elevata estrazione sociale, oggi è ritenuta un possibile sbocco per molti laureati. La selezione si ripresenta però sotto forma di precarietà: il lavoro accademico viene sottoposto alle stesse misure di contenimento dei costi delle altre categorie. Questo comporta un’estrema difficoltà nel portare avanti progetti a lungo termine, la necessità di svolgere altre mansioni, incertezza e ricattabilità dell’attività di ricerca.
La partecipazione degli studenti alle proteste contro il ddl testimonia che il problema della ricerca ci tocca direttamente, perché condiziona quello che studiamo, il sapere che riproduciamo e produciamo in quanto studenti. Le proteste contro le riforme e l’aumento della selezione si uniscono alla riflessione e alla critica dei saperi a cui rivendichiamo l’accesso. È però erroneo opporsi alla crescente subordinazione della ricerca agli interessi delle imprese e degli enti statali in nome dell’autonomia della cultura dalla società. Ciò non fa che ripetere il pregiudizio di un sapere disinteressato, alla ricerca della verità e al servizio dell’umanità, che dovrebbe venir finanziato dallo stato, anch’esso un’istanza al di sopra degli antagonismi sociali. Il sapere non è neutrale. In una società divisa in classi come la nostra, è mezzo di sfruttamento e dominio.
L’istituzione scientifica riflette il mondo più vasto che rende possibile la sua esistenza. Nella società capitalistica, la produzione -e quindi la ricerca e lo sviluppo tecnologico- non mirano al benessere sociale ma al profitto. Come la guerra è uno dei mezzi con cui lo si persegue, così la ricerca militare non costituisce una perversione di una scienza altrimenti "pura" e "buona", ma è parte integrante dello sforzo sociale per la ricerca. L’istituzione scientifica è sempre più dipendente dai finanziamenti militari, anche nei campi apparentemente più distanti, come le scienze "pure" o quelle sociali. Anche l’università viene coinvolta nel programma di guerra trentennale cui partecipa l’Italia. "Mentre incentiviamo la ricerca scientifica, attraverso finanziamenti di miliardi, accordi con la Banca Centrale Europea…, dobbiamo ricordare che la debolezza del settore è data dalla mancanza di forza trainante della ricerca militare: dobbiamo seguire l’esempio di Paesi come Stati Uniti ed Israele", così il ministro dell’istruzione (Il Tempo, 27 gennaio 2005). Perché, ricordiamocelo, "un’Università senza spinta non dà spinta al Paese". Ed è per "dare spinta al Paese" che si smantellano i diritti dei lavoratori e lo "stato sociale", si instilla la divisione tra lavoratori italiani ed immigrati, occupati disoccupati e precari, si aumenta la repressione e si militarizza la società, portando all’interno la guerra di rapina contro i popoli Sud del mondo.
Riformismo spicciolo
Non si può criticare il contenuto reale di queste riforme senza mettere in discussione ciò che ne sta alla base, le competitività e compatibilità del sistema di sfruttamento e di guerra che le produce. Ogni proposta di ritagliarsi spazi e costruire nelle università l’alternativa dall’interno (come emerge dal "manifesto per l’auto-riforma dell’università", presentato in questi giorni come la prospettiva unitaria (!) e radicale del "movimento studentesco") è fallimentare rispetto allo scopo dichiarato di opporsi a questi processi. La strategia di "inflazione e scardinamento" del sistema dei crediti comporta l’accettazione di fatto dei suoi fondamenti, funzionali al sistema del lavoro precario.
Questo riformismo spicciolo è in linea con la rivendicazione europeista di tamponamenti sociali del reddito di cittadinanza o "studentanza". Alla base di tali richieste e della retorica sull’eccedenza e l’anti-economicità dei saperi, sta l’accettazione delle regole di questo sistema economico, in cui ci si vuole ritagliare spazi e privilegi, lasciando sgobbare gli altri, quei lavoratori - precari o meno - troppo "tradizionali" per raggiungere tali "radicalità". È in questo, invece, nel distogliere la protesta dal suo obiettivo reale e separarla dalla lotta dei lavoratori, che questa posizione si rivela (almeno per ora) efficace e, al di là delle etichette, perfettamente obbediente all’esigenza del sistema di separare ed indebolire i fronti di lotta. I riformatori sono i primi ad affermare la natura di classe di tali riforme, altrettanto dovremmo fare noi. La nostra lotta non può rimanere confinata nelle scuole e nelle università, deve unirsi a quella dei lavoratori, contro questo sistema di sfruttamento e di guerra, contro il capitalismo.
Venezia, 15 novembre 2005,
L. P.